lunedì 15 dicembre 2003

Il venditore di scolapasta

La notte che arrivò il venditore di scolapasta, stavo costruendo il mio palazzo della memoria.
Ci lavoravo già da due mesi in quel cantiere di pensieri, impastavo ogni notte tre caldarelle di sabbia e cemento e poi a colpi di cazzuola tiravo su le pareti, le tiravo su cantando perché cantando tutto è più facile: impilare mattoni, comporre poesie, pedalare, uccidere ricordi e fingere di aver imboccato il percorso giusto.
Cantavo e con la cazzuola spalmavo su ogni fila due centimetri di impasto e poi riprendevo a cantare, lo facevo prima di mandare a letto i sensi di colpa, lo facevo con la testa nel cuscino e piano piano sognavo il contenuto di un altro piano.
Quella notte stavo per iniziare il tetto di marzapane della stanza dei Sogni Sciupati e dalla finestra entrò la voce del venditore, era lì, sotto un lampione, con l'ombra smozzicata e un dubbio sotto il cappello di panno. Lasciai tutto il materiale alla rinfusa e caracollai dalle scale. Con le mani sporche di cemento e rimpianti mi avvicinai al suo cappello di panno e gli chiesi cosa aveva da vendere sotto la luna che lucidava i marciapiedi. Mi rispose che lo sapevo, che era già stato scritto.
Parlammo a lungo, mi disse che viveva nella collina dei broccoli, era nato lì e lì sarebbe stato seppellito insieme al suo cappello di panno. Non si allontanava mai dalla collina, l'aveva fatto perché erano anni che nessuno dedicava tanta passione alla costruzione di un palazzo della memoria. Mi disse che stavo lavorando bene e che cantavo malissimo, me lo disse porgendomi uno degli scolapasta che si portava dietro tenendoli attaccati a una cordicella per buchi. Dovevo semplicemente scolare le mie paure, i pensieri, i rancori e tutto il resto. Se avessi scelto bene, il ricordo avrebbe luccicato prima di andare ad occupare la stanza che gli spettava.
Lo ringraziai e decisi di tornare a casa. La sua ombra smozzicata che lisciava i lampioni che si spegnevano uno dopo l'altro.


Ripresi il mio sonno-lavoro, ripensai agli aquiloni e alla prateria delle anime che devono rinascere, pensai che, in fondo, si trattava solo di pescare nei ricordi e di lucidarli per bene. Dovevo pescare e lustrare: sapevo cosa cercare e felice misi la cazzuola nella calderella svuotata e volai via, oltre le antenne, oltre gli aquiloni.


Era passata una settimana e stavo per iniziare l'armatura dei pilastri per tirar su qualche altro piano. I ricordi più radicali li avevo finiti, restavano quelli freschi, soffici come gli orologi liquidi dei baffi di Dalì. Dovevano ancora asciugare.
Mia madre mi aveva aiutato a costruire il mio primo palazzetto della memoria, uno spazio giallo recintato da tre fila di mattoncini lego. Era quello il trucco di mia madre per evitare il trasloco notturno verso l'agognato lettone, mi diceva che non sarebbe venuto a masticarmi nessun incubo; dovevo solo snocciolare le cose belle della giornata.


Ci sono notti che il lavoro di mura-ricordi non mi pesa, altre che non riesco ad appiccicare più di una dozzina di mattoni, dipende tutto dal tipo di ricordi che ho tra le mani: incandescenti pezzi di vita o solo tappa-buchi tra le ics blu sui numeri del calendario.
Ecco che prende quota il mio palazzo, si vedono le navate e le stanze leccate dalla luce dei lampadari, c'è la pendola che mi ha prestato Poe e il ghiaccio arrivato a Macondo e nel soffitto altissimo vivacchiano gli aquiloni e le lucciole di Pasolini. Scivolo seguendo le lumache che disegnano costellazioni e desideri incollati alle code delle loro comete, le seguo sino al tunnel dell'amore. Passo oltre e dalle finestre ad ogiva intravedo il parco che ho cucito al tragico telaio di Cloto, Lachesi e Atropo: c'è la cuccia di Snoopy e sul suo tetto rosso il bracchetto che danza sui tasti della mia prima macchina da scrivere, la mia Olivetti lettera 22. Salgo al primo piano arrampicandomi sulla pila dei libri che mi hanno macchiato l'anima, vedo ancore metafisiche e pezzi degli scacchi che trotterellano felici inseguiti dal gatto di Alice. Nel bagno c'è un veliero, le sue vele le ho fatte io, incollando le pagine dei libri che mi hanno portato, qui e ora, a farmi leggere da voi.

Il venditore di scolapasta

La notte che arrivò il venditore di scolapasta, stavo costruendo il mio palazzo della memoria.
Ci lavoravo già da due mesi in quel cantiere di pensieri, impastavo ogni notte tre caldarelle di sabbia e cemento e poi a colpi di cazzuola tiravo su le pareti, le tiravo su cantando perché cantando tutto è più facile: impilare mattoni, comporre poesie, pedalare, uccidere ricordi e fingere di aver imboccato il percorso giusto.
Cantavo e con la cazzuola spalmavo su ogni fila due centimetri di impasto e poi riprendevo a cantare, lo facevo prima di mandare a letto i sensi di colpa, lo facevo con la testa nel cuscino e piano piano sognavo il contenuto di un altro piano.
Quella notte stavo per iniziare il tetto di marzapane della stanza dei Sogni Sciupati e dalla finestra entrò la voce del venditore, era lì, sotto un lampione, con l'ombra smozzicata e un dubbio sotto il cappello di panno. Lasciai tutto il materiale alla rinfusa e caracollai dalle scale. Con le mani sporche di cemento e rimpianti mi avvicinai al suo cappello di panno e gli chiesi cosa aveva da vendere sotto la luna che lucidava i marciapiedi. Mi rispose che lo sapevo, che era già stato scritto.
Parlammo a lungo, mi disse che viveva nella collina dei broccoli, era nato lì e lì sarebbe stato seppellito insieme al suo cappello di panno. Non si allontanava mai dalla collina, l'aveva fatto perché erano anni che nessuno dedicava tanta passione alla costruzione di un palazzo della memoria. Mi disse che stavo lavorando bene e che cantavo malissimo, me lo disse porgendomi uno degli scolapasta che si portava dietro tenendoli attaccati a una cordicella per buchi. Dovevo semplicemente scolare le mie paure, i pensieri, i rancori e tutto il resto. Se avessi scelto bene, il ricordo avrebbe luccicato prima di andare ad occupare la stanza che gli spettava.
Lo ringraziai e decisi di tornare a casa. La sua ombra smozzicata che lisciava i lampioni che si spegnevano uno dopo l'altro.


Ripresi il mio sonno-lavoro, ripensai agli aquiloni e alla prateria delle anime che devono rinascere, pensai che, in fondo, si trattava solo di pescare nei ricordi e di lucidarli per bene. Dovevo pescare e lustrare: sapevo cosa cercare e felice misi la cazzuola nella calderella svuotata e volai via, oltre le antenne, oltre gli aquiloni.


Era passata una settimana e stavo per iniziare l'armatura dei pilastri per tirar su qualche altro piano. I ricordi più radicali li avevo finiti, restavano quelli freschi, soffici come gli orologi liquidi dei baffi di Dalì. Dovevano ancora asciugare.
Mia madre mi aveva aiutato a costruire il mio primo palazzetto della memoria, uno spazio giallo recintato da tre fila di mattoncini lego. Era quello il trucco di mia madre per evitare il trasloco notturno verso l'agognato lettone, mi diceva che non sarebbe venuto a masticarmi nessun incubo; dovevo solo snocciolare le cose belle della giornata.


Ci sono notti che il lavoro di mura-ricordi non mi pesa, altre che non riesco ad appiccicare più di una dozzina di mattoni, dipende tutto dal tipo di ricordi che ho tra le mani: incandescenti pezzi di vita o solo tappa-buchi tra le ics blu sui numeri del calendario.
Ecco che prende quota il mio palazzo, si vedono le navate e le stanze leccate dalla luce dei lampadari, c'è la pendola che mi ha prestato Poe e il ghiaccio arrivato a Macondo e nel soffitto altissimo vivacchiano gli aquiloni e le lucciole di Pasolini. Scivolo seguendo le lumache che disegnano costellazioni e desideri incollati alle code delle loro comete, le seguo sino al tunnel dell'amore. Passo oltre e dalle finestre ad ogiva intravedo il parco che ho cucito al tragico telaio di Cloto, Lachesi e Atropo: c'è la cuccia di Snoopy e sul suo tetto rosso il bracchetto che danza sui tasti della mia prima macchina da scrivere, la mia Olivetti lettera 22. Salgo al primo piano arrampicandomi sulla pila dei libri che mi hanno macchiato l'anima, vedo ancore metafisiche e pezzi degli scacchi che trotterellano felici inseguiti dal gatto di Alice. Nel bagno c'è un veliero, le sue vele le ho fatte io, incollando le pagine dei libri che mi hanno portato, qui e ora, a farmi leggere da voi.

mercoledì 10 dicembre 2003

il palazzo della memoria


Eccomi giunto ai campi e ai vasti palazzi della memoria, dove si accumulano tesori di innumerevoli immagini, per ogni sorta di oggetti della percezione. Lì è custodito tutto ciò che ci avviene di pensare, amplificando o riducendo o comunque variando i dati dei sensi, e quant'altro vi sia stato riposto in consegna, purché l'oblio non l'abbia ancora inghiottito o sepolto. E lì mi basta chiedere, quando mi ci trovo, che mi si presenti qualunque cosa io desideri: alcune arrivano subito, altre si fanno cercare più a lungo, come se occorresse stanarle da più segreti ricettacoli, altre ancora irrompono in massa, e mentre non le si cerca affatto saltano quasi fuori a dire "Siamo noi per caso?" E io con la mano del cuore le caccio via dalla sua vista, dal ricordo, finché lo sguardo non si snebbi e non appaia proprio la cosa nascosta che cercavo. Altre cose si offrono docilmente e di seguito, senza interruzioni, nell'ordine in cui erano state richieste, così che le precedenti fanno posto alle successive per tornare ai loro depositi, pronte a uscirne di nuovo a mio piacere. Tutto questo avviene quando recito a memoria.


Agostino, LE CONFESSIONI, libro X


Ho deciso di costruire il mio palazzo della memoria, vediamo che ne viene fuori...


il palazzo della memoria


Eccomi giunto ai campi e ai vasti palazzi della memoria, dove si accumulano tesori di innumerevoli immagini, per ogni sorta di oggetti della percezione. Lì è custodito tutto ciò che ci avviene di pensare, amplificando o riducendo o comunque variando i dati dei sensi, e quant'altro vi sia stato riposto in consegna, purché l'oblio non l'abbia ancora inghiottito o sepolto. E lì mi basta chiedere, quando mi ci trovo, che mi si presenti qualunque cosa io desideri: alcune arrivano subito, altre si fanno cercare più a lungo, come se occorresse stanarle da più segreti ricettacoli, altre ancora irrompono in massa, e mentre non le si cerca affatto saltano quasi fuori a dire "Siamo noi per caso?" E io con la mano del cuore le caccio via dalla sua vista, dal ricordo, finché lo sguardo non si snebbi e non appaia proprio la cosa nascosta che cercavo. Altre cose si offrono docilmente e di seguito, senza interruzioni, nell'ordine in cui erano state richieste, così che le precedenti fanno posto alle successive per tornare ai loro depositi, pronte a uscirne di nuovo a mio piacere. Tutto questo avviene quando recito a memoria.


Agostino, LE CONFESSIONI, libro X


Ho deciso di costruire il mio palazzo della memoria, vediamo che ne viene fuori...


venerdì 5 dicembre 2003

come se non dovessimo mai morire

Lisa e Ulisse s'erano incontrati sei anni prima all'oratorio, portati lì mano manuzza alle rispettive apprensioni materne. L'oratorio era l'ultima oasi sicura dove posteggiare i figli in attesa della terrificante ondata ormonale di cui si avvertivano le prime avvisaglie. La madre di Ulisse l'aveva beccato a tarda notte con il pinnacolo tra le mani a visionare casalinghe perverse che agitavano tetteeculiecosceelingue sul piccolo mivar in bianco e nero. L'aveva strappato dalle occasioni di peccato spruzzandolo con acqua benedetta contrabbandata in una bottiglietta di Lourdes e l'aveva ammanettato con tre rosari. La madre di Lisa era ancora più sconvolta, sua figlia stava imbambolata con gli occhi persi nel poster di Antonello Venditti e colorava i suoi album aggiungendo giganteschi attributi agli orsetti del cuore. I rispettivi pater erano persi nei 90 minuti, sordi e ciechi a qualsiasi novità. Avevano scaricato i loro figli là e tanti saluti.


La prima volta s'erano odiati, Lisa piatta e informe con un mega assorbente negli slippini di Barbie, Ulisse a capire come mai un preservativo così stretto potesse contenere litri e litri d'acqua.


Era stata Lisa a interrompere le ostilità, s'era avvicinata con i capelli corti sotto un cappello del Wwf e con un sorrisino tutto calcolato gli aveva chiesto delucidazioni sul suo massimo dubbio. "Ulì, ma… ma, insomma, come fate a sedervi sulla tazza con quel "coso", non vi si schiaccia sulla tavolozza?" la domanda era arrivata al bersaglio, Ulisse stava fermo tra i pali della porta con le mani guantate aspettando qualche pallonetto. Strabuzzò gli occhi e vide lo scarafaggio in mini short "guardaquellochenonpotraimaimancosfiorare", un solo attimo di distrazione e gli occhialoni tartarugati finirono a terra spezzati in tre pezzi. Aveva ancora nella faccia la firma del capocannoniere e l'unica cosa che riusciva a pensare era come potevano venire certi dubbi a una ragazzetta che ancora aveva solo i capezzoli nel vuoto cosmico del primo reggiseno.


Nemmeno si levò i guanti e scappò sullo ciao perdendo la targa appena girato l'angolo. Era la fine di marzo e lui ancora aveva l'ingombrante verginità marchiata a fuoco sul sorriso da ebete, proprio sotto gli orrendi baffetti di pelo canino. Manco mangiò rimuginando quella domanda e pure che non aveva nessuno stimolo si andò a posizionare sulla tavolozza con un senso di soggezione che non aveva mai provato prima, per intere settimane cercò di riacquistare la tranquillità. Inutile, appena qualche strombettata posteriore gli suggeriva di andare al cesso arrivava il panico e si rivedeva Lisa davanti a guardargli il pacco. Incominciò a considerare i lati positivi della faccenda, la cagata era stata sostituita da un pornofilmazzo dal vivo, Lisa continuava ad essere il suo chiodo fisso e lui l'aveva eletta a sua musa ispiratrice. Non doveva più sfogliare gli umidi giornaletti che aspettavano sopra lo scaldabagno. La sua fantasia incominciò a vedere Lisa che gli carezzava le palle e lei stessa rispondeva ai suoi dubbi tenendogliele piacevolmente sospese, adagian-dole nel palmo delle sue piccole mani.


S'erano rincontrati dopo due settimane, lei era fasciata in un abito da monachella ma lui la vedeva in nudo integrale grazie alla sviluppatissima vista a raggi X che accompagna tutti i pipparoli. Avevano parlato per tre ore di fila e avevano scoperto l'ovvio. Odiavano il mondo e volevano morire prima d'essere vecchi e flaccidi. Erano andati a passeggiare sulla spiaggia con le ascelle pezzate e lì Lisa aveva snocciolato la sua teoria sull'omosessualità, tutta a vantaggio delle seguaci di Saffo. <> S'aspettava magari le solite frecciatine d'Ulisse, qualche accenno ironico nel suo ostinarsi a mettere sempre qualche testicolo nei suoi discorsi. Nada, quello continuava a guardarla estasiato come uno scarabeo stercorario. Ulisse era troppo occupato a prendere appunti per la pippa post pranzo, le lesbiche erano le sue preferite…


"Dammi qualche segno di vita… C'è nessuno?" Ulisse aveva la vista annebbiata e l'udito freudiano, aveva sentito "dammi un colpo nella fica, non c'è nessuno…" e un'erezione formato famiglia aveva deformato i suoi boxer portafortuna. Aveva troppo caldo, si gettò a mare tutto vestito per stemperare l'eccitazione.


Lisa s'era tolta i mocassini proletari e aveva incominciato a correre sul bagnasciuga con una risata chiara, dolce e fresca. Ulisse riemerse dal brodo salato, s'arrotolò i jeans appena sotto il ginocchio e corse pure lui. Aveva le gambe più lunghe e in cinque falcate l'aveva già raggiunta e abbracciata. La guardò e la vide per la prima volta e vide com'era bella. Nelle orecchie Vasco Rossi gli urlava ALBACHIARA, guardò un'altra volta i suoi occhi neri, le tolse gli occhiali e il bacio fu.


Per tre mesi tutto era andato a meraviglia, sembravano schizzati fuori da un romanzetto Harmony, tutt'e due stracotti a pensare al futuro incrociando le lingue. Erano felici ma le cicatrici erano sempre in agguato.Ulisse s'era faticosamente intrufolato nelle coppe nemiche e aveva scoperto un tracciato di sfregi e piccole bruciature di sigaretta. Lisa s'era subito calata la maglietta color aragosta e il resto della serata era passato in un silenzio insostenibile. Lui doveva sapere, troppi dubbi s'agitavano nel suo cervello. S'immaginava il padre di Lisa vestito con un solo perizoma di pelle che la torturava con una faccia traboccante di soddisfazione. Sapeva che era un pensiero assurdo ma quel perizoma proprio non riusciva a scordarselo. Forse Lisa faceva parte di una setta satanica, era stata messa al centro della stella a cinque punte e il capro l'aveva stantuffata per tre ore di fila… Doveva sapere, non poteva continuare a partorire ipotesi tanto schifose. La verità l'avrebbe volentieri lasciata agli sceneggiatori di X-files.


Lisa è nella sua stanza, stava ripensando a quella domenica di marzo quando aveva accettato di salire sullo ciao di Ulisse. Non lo vede da una settimana e il mondo non se lo ricordava così mediocre.. Fuori piove e anche stasera lui non verrà. Stavolta ci sono andati giù pesanti. Forse non tornerà più, non tornerà più e lei resterà prigioniera della sua stanza grigia. Lo ama ma la storia è diventata un macigno che la sta schiacciando. Lui è stato il primo ragazzo, l'unico che ha esplorato il suo corpo e lei l'amato con ogni atomo. Sono state le cicatrici a distruggere tutto, lei non poteva mentirgli ma la verità ha ammazzato tutto quello che avevano costruito.


La sua famiglia è andata a messa e lei fuma uno spinello nel balcone della cucina. La bottiglia di martini è quasi vuota, la deve ricomprare prima che se n'accorgano. Fa gli ultimi tiri con la gola bruciata dal pressato che ha comprato da Laura e getta il filtrino giù in strada. Si chiude in bagno, la vasca è quasi piena, aggiunge qualche pugno di sali da bagno e si toglie l'accappatoio. Dicono che con l'acqua calda è tutto più facile, la sua lametta la guarda dal lavandino. Sarebbe bello smettere di rimandare l'inevitabile, diventare vecchia e grassa come quella vacca di sua madre non è il massimo delle sue aspirazioni. Lei vuole viaggiare, viaggiare con il suo uomo, lisciandogli la barba e i capelli lunghi che s'arricciano sulla schiena. L'acqua è troppo calda, riesce dalla vasca e la sua schiena bianca si riflette nello specchio dell'armadietto. L'alito della finestra le indurisce i capezzoli e nuove gocce colorano l'acqua.


Ripensa all'ultime cose che si sono detti, si rivede nel sedile della renò con lui che cerca di capirci qualcosa e lei… "Farmi toccare da te o da un estraneo sarebbe lo stesso. Prendiamoci una pausa, meglio se frequentiamo altre persone… potremmo uscire a quattro…" s'era bevuta il cervello, sparava cazzate e lui cercava di farla ragionare. Ora lo sapeva, non aveva più dubbi, amava quel ragazzo con i capelli lunghi. Aveva bisogno di rivederlo ancora una volta, fargli leggere le sue ultime poesie, aveva bisogno di sentirsi amata. Dovrà parlargli di tutti questi momenti, spiegargli ogni sua assenza. Sarà un motivo valido aver tentato di morire un'altra volta? Stava spellando una vena e non pensava a nessuno, stavolta non ci sarebbero state scuse da inventare per un maglione, un cuscino, un pavimento macchiati. Non avrebbe più potuto pulirli. Aveva detto che siamo tutti figli di Sisifo, due Sisifo nello stesso tartaro a ripetere l'errore, sempre meno forti, più spossati e stretti, fianco a fianco e stretti, i cuori in cima al monte con quel maledetto macigno che scivola un'altra volta. Sisifo per destino e volontà. Sarebbe bello vivere come se non dovessimo mai morire, respirando a pieni polmoni l'aria fresca del mattino, come se non dovessimo mai morire… Andare e ritornare nel medesimo luogo, senza essersi mai allontanati. Altri motivi per ridere e piangere, altro ancora dovrebbe dire a quel ragazzo con la barba troppo lunga. Se n'andrà via presto, che voglia piangere o ridere, seguirla o scegliere la strada opposta non vuole saperlo.


Sarebbe mai tornato? Avrebbe dovuto chiederlo al suo cuore. Non chiedere a chi ami di tornare, chi fugge sta solo e sta solo anche chi insegue. È tardi per tornare sui propri passi, loro sono tornati, la chiave gira e la porta sta per essere attraversata e l'ultima goccia timida cade sul vuoto biancore delle piastrelle.


come se non dovessimo mai morire

Lisa e Ulisse s'erano incontrati sei anni prima all'oratorio, portati lì mano manuzza alle rispettive apprensioni materne. L'oratorio era l'ultima oasi sicura dove posteggiare i figli in attesa della terrificante ondata ormonale di cui si avvertivano le prime avvisaglie. La madre di Ulisse l'aveva beccato a tarda notte con il pinnacolo tra le mani a visionare casalinghe perverse che agitavano tetteeculiecosceelingue sul piccolo mivar in bianco e nero. L'aveva strappato dalle occasioni di peccato spruzzandolo con acqua benedetta contrabbandata in una bottiglietta di Lourdes e l'aveva ammanettato con tre rosari. La madre di Lisa era ancora più sconvolta, sua figlia stava imbambolata con gli occhi persi nel poster di Antonello Venditti e colorava i suoi album aggiungendo giganteschi attributi agli orsetti del cuore. I rispettivi pater erano persi nei 90 minuti, sordi e ciechi a qualsiasi novità. Avevano scaricato i loro figli là e tanti saluti.


La prima volta s'erano odiati, Lisa piatta e informe con un mega assorbente negli slippini di Barbie, Ulisse a capire come mai un preservativo così stretto potesse contenere litri e litri d'acqua.


Era stata Lisa a interrompere le ostilità, s'era avvicinata con i capelli corti sotto un cappello del Wwf e con un sorrisino tutto calcolato gli aveva chiesto delucidazioni sul suo massimo dubbio. "Ulì, ma… ma, insomma, come fate a sedervi sulla tazza con quel "coso", non vi si schiaccia sulla tavolozza?" la domanda era arrivata al bersaglio, Ulisse stava fermo tra i pali della porta con le mani guantate aspettando qualche pallonetto. Strabuzzò gli occhi e vide lo scarafaggio in mini short "guardaquellochenonpotraimaimancosfiorare", un solo attimo di distrazione e gli occhialoni tartarugati finirono a terra spezzati in tre pezzi. Aveva ancora nella faccia la firma del capocannoniere e l'unica cosa che riusciva a pensare era come potevano venire certi dubbi a una ragazzetta che ancora aveva solo i capezzoli nel vuoto cosmico del primo reggiseno.


Nemmeno si levò i guanti e scappò sullo ciao perdendo la targa appena girato l'angolo. Era la fine di marzo e lui ancora aveva l'ingombrante verginità marchiata a fuoco sul sorriso da ebete, proprio sotto gli orrendi baffetti di pelo canino. Manco mangiò rimuginando quella domanda e pure che non aveva nessuno stimolo si andò a posizionare sulla tavolozza con un senso di soggezione che non aveva mai provato prima, per intere settimane cercò di riacquistare la tranquillità. Inutile, appena qualche strombettata posteriore gli suggeriva di andare al cesso arrivava il panico e si rivedeva Lisa davanti a guardargli il pacco. Incominciò a considerare i lati positivi della faccenda, la cagata era stata sostituita da un pornofilmazzo dal vivo, Lisa continuava ad essere il suo chiodo fisso e lui l'aveva eletta a sua musa ispiratrice. Non doveva più sfogliare gli umidi giornaletti che aspettavano sopra lo scaldabagno. La sua fantasia incominciò a vedere Lisa che gli carezzava le palle e lei stessa rispondeva ai suoi dubbi tenendogliele piacevolmente sospese, adagian-dole nel palmo delle sue piccole mani.


S'erano rincontrati dopo due settimane, lei era fasciata in un abito da monachella ma lui la vedeva in nudo integrale grazie alla sviluppatissima vista a raggi X che accompagna tutti i pipparoli. Avevano parlato per tre ore di fila e avevano scoperto l'ovvio. Odiavano il mondo e volevano morire prima d'essere vecchi e flaccidi. Erano andati a passeggiare sulla spiaggia con le ascelle pezzate e lì Lisa aveva snocciolato la sua teoria sull'omosessualità, tutta a vantaggio delle seguaci di Saffo. <> S'aspettava magari le solite frecciatine d'Ulisse, qualche accenno ironico nel suo ostinarsi a mettere sempre qualche testicolo nei suoi discorsi. Nada, quello continuava a guardarla estasiato come uno scarabeo stercorario. Ulisse era troppo occupato a prendere appunti per la pippa post pranzo, le lesbiche erano le sue preferite…


"Dammi qualche segno di vita… C'è nessuno?" Ulisse aveva la vista annebbiata e l'udito freudiano, aveva sentito "dammi un colpo nella fica, non c'è nessuno…" e un'erezione formato famiglia aveva deformato i suoi boxer portafortuna. Aveva troppo caldo, si gettò a mare tutto vestito per stemperare l'eccitazione.


Lisa s'era tolta i mocassini proletari e aveva incominciato a correre sul bagnasciuga con una risata chiara, dolce e fresca. Ulisse riemerse dal brodo salato, s'arrotolò i jeans appena sotto il ginocchio e corse pure lui. Aveva le gambe più lunghe e in cinque falcate l'aveva già raggiunta e abbracciata. La guardò e la vide per la prima volta e vide com'era bella. Nelle orecchie Vasco Rossi gli urlava ALBACHIARA, guardò un'altra volta i suoi occhi neri, le tolse gli occhiali e il bacio fu.


Per tre mesi tutto era andato a meraviglia, sembravano schizzati fuori da un romanzetto Harmony, tutt'e due stracotti a pensare al futuro incrociando le lingue. Erano felici ma le cicatrici erano sempre in agguato.Ulisse s'era faticosamente intrufolato nelle coppe nemiche e aveva scoperto un tracciato di sfregi e piccole bruciature di sigaretta. Lisa s'era subito calata la maglietta color aragosta e il resto della serata era passato in un silenzio insostenibile. Lui doveva sapere, troppi dubbi s'agitavano nel suo cervello. S'immaginava il padre di Lisa vestito con un solo perizoma di pelle che la torturava con una faccia traboccante di soddisfazione. Sapeva che era un pensiero assurdo ma quel perizoma proprio non riusciva a scordarselo. Forse Lisa faceva parte di una setta satanica, era stata messa al centro della stella a cinque punte e il capro l'aveva stantuffata per tre ore di fila… Doveva sapere, non poteva continuare a partorire ipotesi tanto schifose. La verità l'avrebbe volentieri lasciata agli sceneggiatori di X-files.


Lisa è nella sua stanza, stava ripensando a quella domenica di marzo quando aveva accettato di salire sullo ciao di Ulisse. Non lo vede da una settimana e il mondo non se lo ricordava così mediocre.. Fuori piove e anche stasera lui non verrà. Stavolta ci sono andati giù pesanti. Forse non tornerà più, non tornerà più e lei resterà prigioniera della sua stanza grigia. Lo ama ma la storia è diventata un macigno che la sta schiacciando. Lui è stato il primo ragazzo, l'unico che ha esplorato il suo corpo e lei l'amato con ogni atomo. Sono state le cicatrici a distruggere tutto, lei non poteva mentirgli ma la verità ha ammazzato tutto quello che avevano costruito.


La sua famiglia è andata a messa e lei fuma uno spinello nel balcone della cucina. La bottiglia di martini è quasi vuota, la deve ricomprare prima che se n'accorgano. Fa gli ultimi tiri con la gola bruciata dal pressato che ha comprato da Laura e getta il filtrino giù in strada. Si chiude in bagno, la vasca è quasi piena, aggiunge qualche pugno di sali da bagno e si toglie l'accappatoio. Dicono che con l'acqua calda è tutto più facile, la sua lametta la guarda dal lavandino. Sarebbe bello smettere di rimandare l'inevitabile, diventare vecchia e grassa come quella vacca di sua madre non è il massimo delle sue aspirazioni. Lei vuole viaggiare, viaggiare con il suo uomo, lisciandogli la barba e i capelli lunghi che s'arricciano sulla schiena. L'acqua è troppo calda, riesce dalla vasca e la sua schiena bianca si riflette nello specchio dell'armadietto. L'alito della finestra le indurisce i capezzoli e nuove gocce colorano l'acqua.


Ripensa all'ultime cose che si sono detti, si rivede nel sedile della renò con lui che cerca di capirci qualcosa e lei… "Farmi toccare da te o da un estraneo sarebbe lo stesso. Prendiamoci una pausa, meglio se frequentiamo altre persone… potremmo uscire a quattro…" s'era bevuta il cervello, sparava cazzate e lui cercava di farla ragionare. Ora lo sapeva, non aveva più dubbi, amava quel ragazzo con i capelli lunghi. Aveva bisogno di rivederlo ancora una volta, fargli leggere le sue ultime poesie, aveva bisogno di sentirsi amata. Dovrà parlargli di tutti questi momenti, spiegargli ogni sua assenza. Sarà un motivo valido aver tentato di morire un'altra volta? Stava spellando una vena e non pensava a nessuno, stavolta non ci sarebbero state scuse da inventare per un maglione, un cuscino, un pavimento macchiati. Non avrebbe più potuto pulirli. Aveva detto che siamo tutti figli di Sisifo, due Sisifo nello stesso tartaro a ripetere l'errore, sempre meno forti, più spossati e stretti, fianco a fianco e stretti, i cuori in cima al monte con quel maledetto macigno che scivola un'altra volta. Sisifo per destino e volontà. Sarebbe bello vivere come se non dovessimo mai morire, respirando a pieni polmoni l'aria fresca del mattino, come se non dovessimo mai morire… Andare e ritornare nel medesimo luogo, senza essersi mai allontanati. Altri motivi per ridere e piangere, altro ancora dovrebbe dire a quel ragazzo con la barba troppo lunga. Se n'andrà via presto, che voglia piangere o ridere, seguirla o scegliere la strada opposta non vuole saperlo.


Sarebbe mai tornato? Avrebbe dovuto chiederlo al suo cuore. Non chiedere a chi ami di tornare, chi fugge sta solo e sta solo anche chi insegue. È tardi per tornare sui propri passi, loro sono tornati, la chiave gira e la porta sta per essere attraversata e l'ultima goccia timida cade sul vuoto biancore delle piastrelle.


venerdì 7 novembre 2003

Finiscono così le mie Gocce di Vita. Il resto deve ancora essere vissuto.


100 E CAZZUOLA


  
 Nel lavoro aveva trovato qualcosa per ricucire quel grande strappo che  si sentiva dentro. Lavorare era una cosa massacrante, almeno i primi giorni. Nove ore in cantiere a sforzarsi di parlare siciliano per non essere emarginato. Ci dava dentro Stefano, impastava cemento, quacina e cemento, rina e cemento, colla e poi tentava di far volare quacina nel migliore dei modi possibili. La quacina senza dubbio volava ma un buon 75 % andava perso durante il decollo dalla cazzuola. Il resto copriva alla bell'e meglio il solco nei balatoni. S'impegnava con muscoli e cervello e così riusciva a non pensare a lei.
Faceva un po' di tutto: picciotto a qualche mastro, procurava il materiale, aiutava nei resoconti bisettimanali, rompeva i coglioni a quelli che cercavano di scacciarsela. Era il factotum di suo zio, il Principale.
Lavorava e osservava tutti i tic dei vecchi mastri, uomini possenti con petti e pance barbute, bevevano birra dreher e fumavano Diana rosse. Solo lui beveva Coca cola e fumava Marlboro Light, la birra gli faceva schifo e mettersi 'na diana in bocca era lo stesso di fumare un carboncino.


Stavano ristrutturando la Coin di Palermo, ci lavoravano da tre mesi. Stefano si muoveva sicuro per le strade di Palermo, conosceva i fornitori e in un certo senso riusciva a farsi rispettare; dopotutto era Il Nipote del Principale. Si divertiva e stava imparando un fusto di cose, stava imparando la vita, stava imparando più cose di quante ne avesse mai imparato in 13 anni di scuola.     
Stefania era solo un ricordo che a poco a poco sbiadiva, ci pensava solo in quei quindici minuti prima di addormentarsi. Quello era un brutto quarto d'ora, aveva letto uno dei tanti romanzi che passavano veloci sul comodino, la sveglia puntata e l'ultima sigaretta del giorno. Poi spegneva la luce e restava in silenzio, pancia all'aria a sentire la voce della notte, quel concerto di piccoli rumori che si amplificano quando il sole tramonta, sentiva l'orologio martellare, il grugnito del padre che dormiva due stanze dopo, il sibilo del frigorifero al piano di sopra, il sussurro dello scaldabagno, eco lontane di marmitte stuppate, qualche cane che abbaiava il suo calore. E su tutto quello sentiva la sua mancanza, gli mancavano i suoi occhi di cielo.
   Pensava a com'era da bambina, al suo grande segreto.  Suo padre s'era buttato dal balcone con lei in braccio e lei non l'aveva mai superato, odiava sua madre, odiava il suo patrigno, non riusciva a far entrare la vita dentro lei. Stefano sapeva tutto e evitava di forzarla, pensava che il tempo migliora le cose…


Tutti prima o poi dobbiamo affrontare la Grande Dicotomia, è 'na specie di nemico invisibile, non si presenta, devi solo scegliere. Stefano quell'estate aveva già delle belle scelte da fare, forse neanche se ne accorgeva ma era diventato il protagonista di una storia a bivi, proprio come quelle di Topolino. Bastava modificare di poco la traiettoria per ottenere una storia nuova. Doveva scegliere la facoltà, la sua posizione con Stefania e il suo posto nella vita. Era rinchiuso tra 'na dozzina di parentesi, doveva agire piano piano: prima le graffe, le quadre e infine le tonde. Per la facoltà aveva deciso, era una matricola di filosofia, aveva accantonato sia la Medicina che l'Ingegneria nucleare. Che doveva fare con Stefania? Non voleva sbagliare ma era prigioniero di una situazione che lo stava risucchiando. Aveva abbandonato l'idea del suicidio, la soluzione l'aveva sfiorato una sera, in pizzeria. Era appoggiato al bancone di Mineo's, stava aspettando le patate. Non gliene andava bene una, la friggitrice s'era guastata giusto quella sera. S'era infilato dentro una tuta ed era uscito con Ivan, il suo amico. Lo stava aiutando ad uscire da quell'abisso.
Era lì, come inebetito dalle pale del ventilatore del soffitto, stava ripensando  a Final Destination, c'era andato con Ivan. Avrebbe sfidato anche lui la morte per salvare Stefania.
"E se lei non vuole essere salvata?", Ivan s'era intrufolato nei suoi pensieri, nessun'altra spiegazione.
"Capisco come ci soffri ma certa gente non vuole essere aiutata, magari dentro la sua logica lei è perfettamente normale, usa i ragazzi, forse ti voleva un po' bene ma ti ha usato per risollevare la sua reputazione. Una falsa redenzione prima di partire per Forlì. "
Stefano ascolta in silenzio la voce di Ivan, i rumori della pizzeria si sono assopiti, solo il frullio del ventilatore  resta in sottofondo.
"Sai che è brava a recitare, si beccava sempre il ruolo principale al Laboratorio teatrale. Sei come un fratello per me: non puoi continuare a romperti la testa per lei,
 lei si creerà una nuova vita, l'hai detto tu stesso. E tu? Non possiamo essere noi a decidere il suo destino, parlare con sua madre non servirebbe a niente. Sa già tutto, ne sono sicuro. Quello che si è buttato era suo marito. Lei ha educato Stefania, ci si rispecchia in questa figlia, in lei rivede tutti i suoi errori. Che possiamo fare? Rapirla, chiuderla in qualche posto e farle il lavaggio del cervello, impedirle di prendere il treno? Vuoi la verità? Non puoi, non possiamo fare niente, solo augurarci che sappia salvaguardarsi a Forlì, anche se ho i miei dubbi, sono bastate solo due settimane da sua nonna e quel porco… Non so se le finirà sempre così bene, non credo che incontrerà un altro Stefano tanto facilmente, tu l'amavi e la conoscevi bene."   Quella notte Stefano non riuscì a dormire, si risvegliava di continuo con il cuscino inzuppato di lacrime.


 
" E cancello il tuo nome dalla mia affacciata…"


 Il 20 settembre era arrivato, alla fine il treno era partito portandosi via Stefania. Si sentiva più leggero, quasi
galleggiava sull'asfalto. Aveva trattato la loro storia come un paio di scarpe vecchie. Ci sono scarpe a cui t'affezioni sul serio, ci hai fatto tanta strada, erano parte di te mentre vivevi momenti felici, ti avevano portato lontano. Quando le devi buttare, lo fai con una certo formicolio, magari è tristezza ma non vuoi pensare di esserti attaccato così tanto a un semplice paio di scarpe. Aveva  buttato via Stefania, lo doveva fare per sopravvivere.
Non l'aveva nemmeno salutata. Gli incontri all'ultimo bacio li lasciava ad Humprey Bogart, lui si teneva solo la sigaretta penzolante, l'attimo fuggente e i ricordi per  la vita.
   Siamo tutti su autobus, sali e sai di esserci sopra, sai che prima o poi dovrai scendere ma il capolinea ti sembra sempre così lontano… Lui non era ancora al capolinea ma era arrivato a una fermata importante, lì doveva cambiare autobus.


Se l'era immaginata diversa quella giornata, si vedeva seduto sulla panchina della stazione, sfumacchiava Marlboro e piangeva. Magari si davano un lungo, lunghissimo bacio e stringevano una promessa, lui stava lì anche dopo che il treno gliela aveva strappata via. Sedeva e si sarebbe sentito come una macchina in riserva, svuotato avrebbe continuato a stare lì, pensando e fumando. Ne immaginava anche altre versioni, lui che partiva con lei, lei che finalmente si sbloccava e superava il suo grande problema, una festa a sorpresa, un piagnisteo generale, mazzi di rose, anelli, promesse. E invece nemmeno era passato dalla stazione. Aspettava solo un vaccino contro quel piccolo dolore, l'avrebbe aspettato per tanto…
La scuola era ricominciata, lui continuava a lavorare ma sentiva qualcosa nell'aria. Non erano le sue scarpe, non erano nemmeno le sue ascelle. Aveva nostalgia, il Liceo gli mancava. Anche lui era istituzionalizzato, le ricordava "Le ali della libertà". Lo ricordava bene, quel film gli trasmetteva ogni volta qualcosa. Il libraio che si suicida perché non riesce a vivere lontano dal carcere… Anche lui aveva odiato le mura del liceo, le aveva odiate per qualche mese, poi le sopportava, poi ci aveva fatto l'abitudine e ora gli mancavano. Là era qualcosa, era qualcosa anche al lavoro ma all'università? Bella gente, quella. Gli avevano appiccicato un numero di matricola e ora gli dicevano "arrangiati!". Pensava ai suoi dicotomici furori, un piccolo romanzetto che gli era scivolato sulla tastiera. L'aveva visto nascere sul monitor, gli era piaciuto. Vedeva che anche quei tempi erano volati via, dov'erano i suoi compagni, tutte quelle promesse che s'erano fatte per la consegna del Diploma, quell'unità di cui tanto si vantavano? Non erano che cazzate che anno dopo anno appassiscono. Anche lui c'era inciampato, Calogero, Carlo, Dario, Astra…
Dov'erano i suoi "amici", n'aveva cambiate di comitive, anche il tempo del branco era finito, forse per lui non era mai nemmeno incominciato. Gli stava sgocciolando un dubbio, uno di quelli capaci di metterti l'ansia per tutta la giornata. E se Gianluca avesse avuto ragione? Lui non si dannava in vaghe contorsioni mentali, rullava tarzanelli e stava incominciando ad essere conosciuto nel giro. Il sabato era occupatissimo, lo venivano a prendere per trovare il materiale. Stefano se ne sbatteva, ognuno era libero di distruggersi come voleva, le canne di Gianluca non erano tanto diverse da Stefania. S'erano già lasciati una volta, ci aveva sofferto come un pitone e c'era ricaduto. E stavolta era finita anche peggio. Tutti quelli che lo conoscevano l'avevano avvertito: "Ti farà soffrire…" "Te ne pentirai". Lui non aveva mai sopportato quelli che passano al microscopio i tuoi cazzi e sono sempre dietro di te per sputarti consigli. L'esperienze te li fai tu da solo, senza doverle condividere con nessuno. Gli errori che fai sono solo tuoi e da solo ne devi uscire. Gianluca poteva continuare a cannarsi, forse lui aveva ragione, forse erano tutti gli altri ad avere torto. La norma è di molti, la stragrande maggioranza si cannava. In un mondo in cui tutti si cannavano, lui non lo faceva. Non era mica migliore degli altri, non era una specie di martire o un privilegiato, con il suo 100 e menzione si poteva solo asciugare il culo. Se c'era da sbagliare, sbagliava. Aveva solo un modo per uscire da quel contorto girotondo d'inutili pensieri, doveva scrivere della sua storia. Un bel distillato di gocce di vita, niente recriminazioni, nessun rancore o rimpianto. Sviluppare un'istantanea della loro storia… sapeva che titolo appiccicargli, gli piacevano le poesie di Kavafis…
_________________
Itaca
Itaca ti ha dato il bel viaggio
Senza di lei mai ti saresti messo
sulla strada: che altro ti aspetti ?


E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso.
Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso
Già avrai capito ciò che Itaca vuole significare.
C. Kavafis



Stava per innamorarsi e lo sapeva.
Ulisse lo sapeva, la conferma l'aveva avuta dall'unico suo amico: il mare.
L'aveva portata a conoscere il mare e lei l'aveva bevuto nei suoi occhi azzurri, lui ascoltava la voce del mare, la voce della vita.


Non era bello, non c'erano soldi nelle sue tasche, solo la voglia di ascoltare.
La barba cresceva a zig zag sul suo volto cotto dal troppo sole. S'erano odiati, o pensavano di odiarsi, ora erano finiti lì, in silenzio ad osservare il mare.
Non le aveva mai chiesto di uscire, non l'aveva mai chiesto a nessuna ragazza. Domandava soltanto se qualcuna voleva pensare. Nessuna lo voleva, era facile non crearsi troppo problemi, molte vivevano d'illusioni. S'illudevano tutte d'essere "emancipate", di saper vivere in società. La società non era per Ulisse. Non lo nascondeva, mischiarsi alla folla gli faceva venire uno strano prurito. Il nome che portava gli piaceva, quello sì. Suo padre glielo aveva regalato e lui l'adorava. L'eroe stanco di vent'anni di guerra era tornato a casa, qualche mese a stantuffare Penelope sul vecchio talamo d'ulivo e subito via, per seguire la sua scia. Qual nome gli stava a pennello. Andare sempre oltre, ma quali limiti? Sempre oltre.


-Chi sei?- le aveva chiesto solo questo, lei non gli avrebbe mai dato una risposta banale, lei no. Le altre forse, mai lei non poteva uscirsene con un nome e cognome o con un abusato giochetto pirandelliano, forse le altre ma lei no.
Lei non aveva risposto, era stata in silenzio e ricambiava il suo abbraccio. In silenzio sul parapetto del vecchio molo. Tra qualche mese il mondo, la vita, il mare li avrebbe divisi.
- La vita ci dividerà ma noi ci rincontreremo, ci rincontreremo. -


Il silenzio, le zanzare sotto il lampione, giallo nelle lampare dei vecchi marinai. Leggeva molto Ulisse, un libro dopo l'altro, senza sosta. Pensava molto, pensava da solo, pensava.
Incominciò a baciarle il collo, le sue labbra ne disegnavano i contorni, si soffermavano sui suoi occhi di mare.



     Lei doveva farlo. Doveva assolutamente trovare un'etichetta prestampata d'appic-cicare a quello strano rapporto.
Era assurdo. A Ulisse andava bene anche, per forza, così. La sua vita si svelava sotto il fuoco dei riflettori di un teatro dell'assurdo, era come una tragicom-media inedita di Samuel Beckett!
Le classificazioni le lasciava agli scribacchini occhialuti con il moccio al naso. Quello che provava per lei poteva essere pure inclassificabile ma c'era. Lo sentiva come sentiva i raggi del sole divorargli una pelle dopo l'altra. Stavano zitti, persi nel fumo di due camel light. Il cammello e le piramidi sullo sfondo celeste, il fumo provoca il cancro, vietata la vendita ai minori. Quelle perle di saggezza non avevano niente da dirgli, non oggi. S'accese due sigarette, una dopo l'altra con il suo zippo. Una era per lei.


Quel discorso l'aveva sfornato lei, l'era scivolato dal suo oceano sotto le palpebre. Così gocce di consonanti e vocali s'erano addensate in quell'ansia.
-Cosa siamo? Io e te siamo qualcosa, lo so. Ma cosa?- Peggio di un incubo da pollo alle mandorle. Non erano sintomi da indigestione, lei le aveva sputato quel dubbio e lui non sapeva che dirle.
Sapeva solo quello che non le aveva mai chiesto.
Non le aveva mai chiesto il suo amore.
Non le aveva mai chiesto la sua amicizia.
Non le aveva mai chiesto esclusività di sentimenti.
Mai.


Folle Ulisse a voler tener testa a quella sirena. Doveva vivere libera, era come l'usignolo dell'imperatore, sarebbe appassita in gabbia.
La ruota del mondo li avrebbe fatti rincontrare. Si sentiva dentro le vene la poesia di Mallarmè.
Lui l'avrebbe rincontrata, lo sapeva. Lei felice con fulmini d'ironia sulle ciglia.


Non le aveva mai chiesto nulla. Non poteva sputarle addosso la sua amicizia. Non poteva accettarlo. Ulisse non poteva.
Si fissarono con le bocche piene di silenzio. Uno davanti all'altra come antichi cow boy. Ci stava bene la musica di Morricone su quello sfondo. Clint Eastwood e Ramòn.


Lei fu svelta, lui di più. 
La risposta l'aveva trovata, gliela aveva sospirata Alessandro Baricco piano piano.  
-Tu sei come il Virginian per Novecento. Io sono Novecento.
Sono salito e ora non riesco più a scendere. Forse mi scorderò di essere sopra una nave, guarderò il mare da questi oblò - le accarezzò gli occhi - e me lo dimenticherò. Forse un giorno vorrò scendere ma mi mancherà il coraggio… -


Ulisse s'era innamorato. Lo sapeva lui e lo sapeva anche il mare.
 
[Fine?]

Finiscono così le mie Gocce di Vita. Il resto deve ancora essere vissuto.


100 E CAZZUOLA


  
 Nel lavoro aveva trovato qualcosa per ricucire quel grande strappo che  si sentiva dentro. Lavorare era una cosa massacrante, almeno i primi giorni. Nove ore in cantiere a sforzarsi di parlare siciliano per non essere emarginato. Ci dava dentro Stefano, impastava cemento, quacina e cemento, rina e cemento, colla e poi tentava di far volare quacina nel migliore dei modi possibili. La quacina senza dubbio volava ma un buon 75 % andava perso durante il decollo dalla cazzuola. Il resto copriva alla bell'e meglio il solco nei balatoni. S'impegnava con muscoli e cervello e così riusciva a non pensare a lei.
Faceva un po' di tutto: picciotto a qualche mastro, procurava il materiale, aiutava nei resoconti bisettimanali, rompeva i coglioni a quelli che cercavano di scacciarsela. Era il factotum di suo zio, il Principale.
Lavorava e osservava tutti i tic dei vecchi mastri, uomini possenti con petti e pance barbute, bevevano birra dreher e fumavano Diana rosse. Solo lui beveva Coca cola e fumava Marlboro Light, la birra gli faceva schifo e mettersi 'na diana in bocca era lo stesso di fumare un carboncino.


Stavano ristrutturando la Coin di Palermo, ci lavoravano da tre mesi. Stefano si muoveva sicuro per le strade di Palermo, conosceva i fornitori e in un certo senso riusciva a farsi rispettare; dopotutto era Il Nipote del Principale. Si divertiva e stava imparando un fusto di cose, stava imparando la vita, stava imparando più cose di quante ne avesse mai imparato in 13 anni di scuola.     
Stefania era solo un ricordo che a poco a poco sbiadiva, ci pensava solo in quei quindici minuti prima di addormentarsi. Quello era un brutto quarto d'ora, aveva letto uno dei tanti romanzi che passavano veloci sul comodino, la sveglia puntata e l'ultima sigaretta del giorno. Poi spegneva la luce e restava in silenzio, pancia all'aria a sentire la voce della notte, quel concerto di piccoli rumori che si amplificano quando il sole tramonta, sentiva l'orologio martellare, il grugnito del padre che dormiva due stanze dopo, il sibilo del frigorifero al piano di sopra, il sussurro dello scaldabagno, eco lontane di marmitte stuppate, qualche cane che abbaiava il suo calore. E su tutto quello sentiva la sua mancanza, gli mancavano i suoi occhi di cielo.
   Pensava a com'era da bambina, al suo grande segreto.  Suo padre s'era buttato dal balcone con lei in braccio e lei non l'aveva mai superato, odiava sua madre, odiava il suo patrigno, non riusciva a far entrare la vita dentro lei. Stefano sapeva tutto e evitava di forzarla, pensava che il tempo migliora le cose…


Tutti prima o poi dobbiamo affrontare la Grande Dicotomia, è 'na specie di nemico invisibile, non si presenta, devi solo scegliere. Stefano quell'estate aveva già delle belle scelte da fare, forse neanche se ne accorgeva ma era diventato il protagonista di una storia a bivi, proprio come quelle di Topolino. Bastava modificare di poco la traiettoria per ottenere una storia nuova. Doveva scegliere la facoltà, la sua posizione con Stefania e il suo posto nella vita. Era rinchiuso tra 'na dozzina di parentesi, doveva agire piano piano: prima le graffe, le quadre e infine le tonde. Per la facoltà aveva deciso, era una matricola di filosofia, aveva accantonato sia la Medicina che l'Ingegneria nucleare. Che doveva fare con Stefania? Non voleva sbagliare ma era prigioniero di una situazione che lo stava risucchiando. Aveva abbandonato l'idea del suicidio, la soluzione l'aveva sfiorato una sera, in pizzeria. Era appoggiato al bancone di Mineo's, stava aspettando le patate. Non gliene andava bene una, la friggitrice s'era guastata giusto quella sera. S'era infilato dentro una tuta ed era uscito con Ivan, il suo amico. Lo stava aiutando ad uscire da quell'abisso.
Era lì, come inebetito dalle pale del ventilatore del soffitto, stava ripensando  a Final Destination, c'era andato con Ivan. Avrebbe sfidato anche lui la morte per salvare Stefania.
"E se lei non vuole essere salvata?", Ivan s'era intrufolato nei suoi pensieri, nessun'altra spiegazione.
"Capisco come ci soffri ma certa gente non vuole essere aiutata, magari dentro la sua logica lei è perfettamente normale, usa i ragazzi, forse ti voleva un po' bene ma ti ha usato per risollevare la sua reputazione. Una falsa redenzione prima di partire per Forlì. "
Stefano ascolta in silenzio la voce di Ivan, i rumori della pizzeria si sono assopiti, solo il frullio del ventilatore  resta in sottofondo.
"Sai che è brava a recitare, si beccava sempre il ruolo principale al Laboratorio teatrale. Sei come un fratello per me: non puoi continuare a romperti la testa per lei,
 lei si creerà una nuova vita, l'hai detto tu stesso. E tu? Non possiamo essere noi a decidere il suo destino, parlare con sua madre non servirebbe a niente. Sa già tutto, ne sono sicuro. Quello che si è buttato era suo marito. Lei ha educato Stefania, ci si rispecchia in questa figlia, in lei rivede tutti i suoi errori. Che possiamo fare? Rapirla, chiuderla in qualche posto e farle il lavaggio del cervello, impedirle di prendere il treno? Vuoi la verità? Non puoi, non possiamo fare niente, solo augurarci che sappia salvaguardarsi a Forlì, anche se ho i miei dubbi, sono bastate solo due settimane da sua nonna e quel porco… Non so se le finirà sempre così bene, non credo che incontrerà un altro Stefano tanto facilmente, tu l'amavi e la conoscevi bene."   Quella notte Stefano non riuscì a dormire, si risvegliava di continuo con il cuscino inzuppato di lacrime.


 
" E cancello il tuo nome dalla mia affacciata…"


 Il 20 settembre era arrivato, alla fine il treno era partito portandosi via Stefania. Si sentiva più leggero, quasi
galleggiava sull'asfalto. Aveva trattato la loro storia come un paio di scarpe vecchie. Ci sono scarpe a cui t'affezioni sul serio, ci hai fatto tanta strada, erano parte di te mentre vivevi momenti felici, ti avevano portato lontano. Quando le devi buttare, lo fai con una certo formicolio, magari è tristezza ma non vuoi pensare di esserti attaccato così tanto a un semplice paio di scarpe. Aveva  buttato via Stefania, lo doveva fare per sopravvivere.
Non l'aveva nemmeno salutata. Gli incontri all'ultimo bacio li lasciava ad Humprey Bogart, lui si teneva solo la sigaretta penzolante, l'attimo fuggente e i ricordi per  la vita.
   Siamo tutti su autobus, sali e sai di esserci sopra, sai che prima o poi dovrai scendere ma il capolinea ti sembra sempre così lontano… Lui non era ancora al capolinea ma era arrivato a una fermata importante, lì doveva cambiare autobus.


Se l'era immaginata diversa quella giornata, si vedeva seduto sulla panchina della stazione, sfumacchiava Marlboro e piangeva. Magari si davano un lungo, lunghissimo bacio e stringevano una promessa, lui stava lì anche dopo che il treno gliela aveva strappata via. Sedeva e si sarebbe sentito come una macchina in riserva, svuotato avrebbe continuato a stare lì, pensando e fumando. Ne immaginava anche altre versioni, lui che partiva con lei, lei che finalmente si sbloccava e superava il suo grande problema, una festa a sorpresa, un piagnisteo generale, mazzi di rose, anelli, promesse. E invece nemmeno era passato dalla stazione. Aspettava solo un vaccino contro quel piccolo dolore, l'avrebbe aspettato per tanto…
La scuola era ricominciata, lui continuava a lavorare ma sentiva qualcosa nell'aria. Non erano le sue scarpe, non erano nemmeno le sue ascelle. Aveva nostalgia, il Liceo gli mancava. Anche lui era istituzionalizzato, le ricordava "Le ali della libertà". Lo ricordava bene, quel film gli trasmetteva ogni volta qualcosa. Il libraio che si suicida perché non riesce a vivere lontano dal carcere… Anche lui aveva odiato le mura del liceo, le aveva odiate per qualche mese, poi le sopportava, poi ci aveva fatto l'abitudine e ora gli mancavano. Là era qualcosa, era qualcosa anche al lavoro ma all'università? Bella gente, quella. Gli avevano appiccicato un numero di matricola e ora gli dicevano "arrangiati!". Pensava ai suoi dicotomici furori, un piccolo romanzetto che gli era scivolato sulla tastiera. L'aveva visto nascere sul monitor, gli era piaciuto. Vedeva che anche quei tempi erano volati via, dov'erano i suoi compagni, tutte quelle promesse che s'erano fatte per la consegna del Diploma, quell'unità di cui tanto si vantavano? Non erano che cazzate che anno dopo anno appassiscono. Anche lui c'era inciampato, Calogero, Carlo, Dario, Astra…
Dov'erano i suoi "amici", n'aveva cambiate di comitive, anche il tempo del branco era finito, forse per lui non era mai nemmeno incominciato. Gli stava sgocciolando un dubbio, uno di quelli capaci di metterti l'ansia per tutta la giornata. E se Gianluca avesse avuto ragione? Lui non si dannava in vaghe contorsioni mentali, rullava tarzanelli e stava incominciando ad essere conosciuto nel giro. Il sabato era occupatissimo, lo venivano a prendere per trovare il materiale. Stefano se ne sbatteva, ognuno era libero di distruggersi come voleva, le canne di Gianluca non erano tanto diverse da Stefania. S'erano già lasciati una volta, ci aveva sofferto come un pitone e c'era ricaduto. E stavolta era finita anche peggio. Tutti quelli che lo conoscevano l'avevano avvertito: "Ti farà soffrire…" "Te ne pentirai". Lui non aveva mai sopportato quelli che passano al microscopio i tuoi cazzi e sono sempre dietro di te per sputarti consigli. L'esperienze te li fai tu da solo, senza doverle condividere con nessuno. Gli errori che fai sono solo tuoi e da solo ne devi uscire. Gianluca poteva continuare a cannarsi, forse lui aveva ragione, forse erano tutti gli altri ad avere torto. La norma è di molti, la stragrande maggioranza si cannava. In un mondo in cui tutti si cannavano, lui non lo faceva. Non era mica migliore degli altri, non era una specie di martire o un privilegiato, con il suo 100 e menzione si poteva solo asciugare il culo. Se c'era da sbagliare, sbagliava. Aveva solo un modo per uscire da quel contorto girotondo d'inutili pensieri, doveva scrivere della sua storia. Un bel distillato di gocce di vita, niente recriminazioni, nessun rancore o rimpianto. Sviluppare un'istantanea della loro storia… sapeva che titolo appiccicargli, gli piacevano le poesie di Kavafis…
_________________
Itaca
Itaca ti ha dato il bel viaggio
Senza di lei mai ti saresti messo
sulla strada: che altro ti aspetti ?


E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso.
Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso
Già avrai capito ciò che Itaca vuole significare.
C. Kavafis



Stava per innamorarsi e lo sapeva.
Ulisse lo sapeva, la conferma l'aveva avuta dall'unico suo amico: il mare.
L'aveva portata a conoscere il mare e lei l'aveva bevuto nei suoi occhi azzurri, lui ascoltava la voce del mare, la voce della vita.


Non era bello, non c'erano soldi nelle sue tasche, solo la voglia di ascoltare.
La barba cresceva a zig zag sul suo volto cotto dal troppo sole. S'erano odiati, o pensavano di odiarsi, ora erano finiti lì, in silenzio ad osservare il mare.
Non le aveva mai chiesto di uscire, non l'aveva mai chiesto a nessuna ragazza. Domandava soltanto se qualcuna voleva pensare. Nessuna lo voleva, era facile non crearsi troppo problemi, molte vivevano d'illusioni. S'illudevano tutte d'essere "emancipate", di saper vivere in società. La società non era per Ulisse. Non lo nascondeva, mischiarsi alla folla gli faceva venire uno strano prurito. Il nome che portava gli piaceva, quello sì. Suo padre glielo aveva regalato e lui l'adorava. L'eroe stanco di vent'anni di guerra era tornato a casa, qualche mese a stantuffare Penelope sul vecchio talamo d'ulivo e subito via, per seguire la sua scia. Qual nome gli stava a pennello. Andare sempre oltre, ma quali limiti? Sempre oltre.


-Chi sei?- le aveva chiesto solo questo, lei non gli avrebbe mai dato una risposta banale, lei no. Le altre forse, mai lei non poteva uscirsene con un nome e cognome o con un abusato giochetto pirandelliano, forse le altre ma lei no.
Lei non aveva risposto, era stata in silenzio e ricambiava il suo abbraccio. In silenzio sul parapetto del vecchio molo. Tra qualche mese il mondo, la vita, il mare li avrebbe divisi.
- La vita ci dividerà ma noi ci rincontreremo, ci rincontreremo. -


Il silenzio, le zanzare sotto il lampione, giallo nelle lampare dei vecchi marinai. Leggeva molto Ulisse, un libro dopo l'altro, senza sosta. Pensava molto, pensava da solo, pensava.
Incominciò a baciarle il collo, le sue labbra ne disegnavano i contorni, si soffermavano sui suoi occhi di mare.



     Lei doveva farlo. Doveva assolutamente trovare un'etichetta prestampata d'appic-cicare a quello strano rapporto.
Era assurdo. A Ulisse andava bene anche, per forza, così. La sua vita si svelava sotto il fuoco dei riflettori di un teatro dell'assurdo, era come una tragicom-media inedita di Samuel Beckett!
Le classificazioni le lasciava agli scribacchini occhialuti con il moccio al naso. Quello che provava per lei poteva essere pure inclassificabile ma c'era. Lo sentiva come sentiva i raggi del sole divorargli una pelle dopo l'altra. Stavano zitti, persi nel fumo di due camel light. Il cammello e le piramidi sullo sfondo celeste, il fumo provoca il cancro, vietata la vendita ai minori. Quelle perle di saggezza non avevano niente da dirgli, non oggi. S'accese due sigarette, una dopo l'altra con il suo zippo. Una era per lei.


Quel discorso l'aveva sfornato lei, l'era scivolato dal suo oceano sotto le palpebre. Così gocce di consonanti e vocali s'erano addensate in quell'ansia.
-Cosa siamo? Io e te siamo qualcosa, lo so. Ma cosa?- Peggio di un incubo da pollo alle mandorle. Non erano sintomi da indigestione, lei le aveva sputato quel dubbio e lui non sapeva che dirle.
Sapeva solo quello che non le aveva mai chiesto.
Non le aveva mai chiesto il suo amore.
Non le aveva mai chiesto la sua amicizia.
Non le aveva mai chiesto esclusività di sentimenti.
Mai.


Folle Ulisse a voler tener testa a quella sirena. Doveva vivere libera, era come l'usignolo dell'imperatore, sarebbe appassita in gabbia.
La ruota del mondo li avrebbe fatti rincontrare. Si sentiva dentro le vene la poesia di Mallarmè.
Lui l'avrebbe rincontrata, lo sapeva. Lei felice con fulmini d'ironia sulle ciglia.


Non le aveva mai chiesto nulla. Non poteva sputarle addosso la sua amicizia. Non poteva accettarlo. Ulisse non poteva.
Si fissarono con le bocche piene di silenzio. Uno davanti all'altra come antichi cow boy. Ci stava bene la musica di Morricone su quello sfondo. Clint Eastwood e Ramòn.


Lei fu svelta, lui di più. 
La risposta l'aveva trovata, gliela aveva sospirata Alessandro Baricco piano piano.  
-Tu sei come il Virginian per Novecento. Io sono Novecento.
Sono salito e ora non riesco più a scendere. Forse mi scorderò di essere sopra una nave, guarderò il mare da questi oblò - le accarezzò gli occhi - e me lo dimenticherò. Forse un giorno vorrò scendere ma mi mancherà il coraggio… -


Ulisse s'era innamorato. Lo sapeva lui e lo sapeva anche il mare.
 
[Fine?]

mercoledì 29 ottobre 2003

Gocce di Vita. seconda parte | una novella di Tonino Pintacuda


 


LONTANO


Questo ricordo, lo vorrei raccontare…
Ma così, si è già spento…non resta quasi niente-
Perché lontano, ai miei primi verdi anni sta.


Pelle come se fatta di gelsomino…
Era agosto - di agosto? - quella sera…
Ricordo appena gli occhi; erano, credo, blu…
Ah sì, di un blu zaffiro.


Constantinos Kavafis



#################
 HO MESSO VIA


 Mozziconi spolpati di passato gli scheggiavano gli occhi e Stefano continuava a pestare sull'acceleratore. Sentiva qualcosa gracchiare sotto il cofano ma non era il momento di fermarsi, continuava a correre verso Palermo senza badare ai colpi d'abbaglianti che lo scongiuravano di lasciare la corsia di sorpasso. La vedeva con un pezzetto di specchio retrovisore, la vedeva sprofondare nelle molle sgangherate del sedile, forse piangeva, forse.
Un altro Stefano stava per morire, se lo sentiva. Forse stavolta sarebbe affogato. Inghiottiva saliva amara di tabacco e lacrime che non sapeva ricacciare dentro. Era finita, quell'estate troppo breve era finita, la loro storia l'aveva uccisa. Non sapeva come comportarsi, stringeva tra le mani il volante, immaginandosi di stringere il collo di quel bastardo che aveva sparato sperma sulle mutandine della sua Stefania. Era riuscito a sapere tutto, la sua corsa contro la Morte non era stata inutile, appena aveva posteggiato Stefania gli aveva sputato addosso la sua condanna. I suoi occhi di cielo brillavano di luna e paura, vomitavano lacrime.


Erano scesi, lui non sapeva nemmeno dove cazzo erano finiti, aveva lasciato Viale Regione Siciliana e ora non riusciva ad orientarsi, s'era acceso una camel 100's e sulle distorsioni delle casse della Renò lei aveva iniziato a parlare.
 Anche lei s'era accesa una sigaretta, una Merit le stava attaccata a quelle labbra così piccole sporche di rossetto. S'era fasciata in un piccolo vestitino nero e si aggrappava alla borsetta come se quella imitazione Onix fosse 'na specie di talismano. Fumava a piccole boccate e parlava piano tra le lacrime e gli strani ghirigori del fumo, ogni tanto si fermava come per riprendersi la sua vita, si fermava guardava la luna e guardava Stefano, lo guardava scazzottare il tetto della Renò, lo guardava morire.
Cinque anni per costruire la loro storia e solo due settimane dalla nonna per uccidere la loro storia, due settimane dalla nonna, quattordici giorni all'inferno.


Lei fumava e insieme al fumo le uscivano cose che non pensava ma che erano peggio di spille nelle unghia:
-Non puoi essere il padre che non ho avuto, non puoi essere il mio angelo custode! Non potrai essere sempre dietro di me per correggermi, tra poco me ne vado e non ti resteranno altro che i tuoi romanzi, usa pure questa notte per riempire qualche pagina! -
E lui era rimasto lì, muto. Moriva e rinasceva costantemente Stefano Re, n'erano morti tanti e tanti ancora ne sarebbero  morti. Quello di quella sera lo uccise Stefania, NON PUOI ESSERE IL PADRE CHE NON HO AVUTO… NON PUOI ESSERE IL PADRE CHE NON HO AVUTO…NON PUOI ESSERE IL PADRE CHE NON HO AVUTO…NON PUOI ESSERE IL PADRE CHE NON HO AVUTO…NON PUOI ESSERE IL PADRE CHE NON HO AVUTO…NON PUOI ESSERE IL PADRE CHE NON HO AVUTO…NON PUOI ESSERE IL PADRE CHE NON HO AVUTO…


Era immobile. Non se la sentiva di muoversi, guardava i granchietti che s'arrampicavano coraggiosi sugli scogli, il mare gli cantava la sua vecchia canzone e le sigarette erano pure finite. A quelle piccole assassine bianche e arancione poteva rinunciare.
Si ricordava solo spezzoni montati male di quella notte di luna, la corsa con la Renò, gli abbaglianti, il buio che era dentro e fuori di lui, le sue Merit e quelle terribili parole che s'erano appiccicate come calamari, strette al cervello e al cuore con i loro tentacolini di rabbia e rancore. Non si sarebbero spiccicate tanto presto. Erano le quattro, le quattro e la luna d'agosto sembrava parlargli, gli parlava del suo passato, glielo gridava nelle orecchie. Il futuro era un sussurro di ninna nanna, quella notte sarebbe finita presto.


Una bottiglia di birra becchettava sui tappetini, l'afferrò sopra l'etichetta, non avrebbe mai più bevuto una Corona. La scagliò lontano e la vide fermarsi un breve istante sul pelo dell'acqua, il mare sembrò come assaggiarla, poi la tirò a fondo. La stessa cosa avrebbe fatto volentieri con il ricordo di Stefania, l'avrebbe strappato via e tirato lontano, su un'altra galassia.
Non aveva sentieri dorati da seguire, voleva solo vivere assassinando il giorno e il suo passato. Sapeva che non sarebbe stato facile, lo sapeva lui e lo sapeva anche il mare.


E la luna era sempre sopra di lui, lucida di pianto.


 
IL SOGNO DI TUTTI



 La Renò era posteggiata vicino la spiaggia, Bob Dylan continuare a chiedersi quante strade dovrà percorrere un uomo. Se lo chiedeva anche Stefano. Era ancora lì, i granchietti non c'erano più, era restato solo lui, il mare e la luna.
Era davvero successo: la loro storia, la loro estate, la sua stabilità emotiva erano naufragate come quella bottiglia di Corona. Non riusciva a fare la stessa cosa con Stefania, la voleva rivedere, spiegarle che non gliene fregava nulla, avrebbero potuto superare tutti quei problemi insieme.


Lasciava galleggiare i suoi pensieri come polipi bolliti. Seguivano proprio la forma di un polipo: la testa era l'idea fissa a cui s'attaccava tutto il resto, tentacoli contorti che stringevano anche il suo domani. Stava ricordando il suo tema, era un bel pezzo. Con quelle quattro colonne s'era beccato la menzione. Appena aveva visto l'urlo di Munch gli era venuta voglia d'intervistarlo. E l'aveva fatto. Era entrato dentro il quadro e passeggiando lungo il ponte della vita aveva incontrato il protagonista del processo kafkiano e Godot. La frase che gli piaceva di più la faceva dire a Joseph K.:
- Non pensare è il sogno di tutti. Guarda il mare. Che ci aspetta dall'altra parte? Basterebbe che tutti si fermassero un solo minuto. Solo sessanta secondi per ascoltare la voce del mare. -
Credeva a quello che scriveva, per questo gli riusciva così bene riempire fogli. Alla fine del tema restava solo sul ponte a vedere tutti i suoi perché affondare sotto quel cielo di fuoco, restava lì e si tappava le orecchie per non sentire quell'urlo senza tempo.


Ora sentiva solo l'urlo del suo cuore.


Mancava poco e il sole avrebbe ucciso quella notte, Stefano voleva morire. Lo sentiva dentro, la morte però non poteva essere la soluzione, non era la risposta che Bob Dylan cercava nel vento.


Salì sullo scoglio più alto, tante volte era venuto lì con Stefania. Non aveva voglia di pregare, non l'aveva mai fatto sul serio, lo faceva solo perché sua madre era contenta così. In bocca si sentiva il sapore dei piccoli capezzoli di Stefania, non guardava giù, cercava solo di sentire la voce del mare e per la prima volta la sentì sul serio, era come se l'era immaginata, uno sciabordio lontano come un mugolio di piacere, una voce calda, materna. Ritmica, regolare come il battito del cuore di un piccolo feto. Era una voce di placenta, non assomigliava a quello che si sente dentro una conchiglia.
Quella voce l'aveva risvegliato.


Le scarpe le lasciò sullo scoglio, le lasciò lì doveva aveva lasciato il vecchio Stefano e  si buttò piegando leggermente le ginocchia. L'impatto con l'acqua gli schiaffeggiò la faccia, sputò via una bella scatarrata e si ritrovò a sorridere. Era fradicio e continuava a ridere sputacchiando acqua salata.


   Rideva mentre il sole sbadigliava nel cielo rosso. 

Gocce di Vita. seconda parte | una novella di Tonino Pintacuda


 


LONTANO


Questo ricordo, lo vorrei raccontare…
Ma così, si è già spento…non resta quasi niente-
Perché lontano, ai miei primi verdi anni sta.


Pelle come se fatta di gelsomino…
Era agosto - di agosto? - quella sera…
Ricordo appena gli occhi; erano, credo, blu…
Ah sì, di un blu zaffiro.


Constantinos Kavafis



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 HO MESSO VIA


 Mozziconi spolpati di passato gli scheggiavano gli occhi e Stefano continuava a pestare sull'acceleratore. Sentiva qualcosa gracchiare sotto il cofano ma non era il momento di fermarsi, continuava a correre verso Palermo senza badare ai colpi d'abbaglianti che lo scongiuravano di lasciare la corsia di sorpasso. La vedeva con un pezzetto di specchio retrovisore, la vedeva sprofondare nelle molle sgangherate del sedile, forse piangeva, forse.
Un altro Stefano stava per morire, se lo sentiva. Forse stavolta sarebbe affogato. Inghiottiva saliva amara di tabacco e lacrime che non sapeva ricacciare dentro. Era finita, quell'estate troppo breve era finita, la loro storia l'aveva uccisa. Non sapeva come comportarsi, stringeva tra le mani il volante, immaginandosi di stringere il collo di quel bastardo che aveva sparato sperma sulle mutandine della sua Stefania. Era riuscito a sapere tutto, la sua corsa contro la Morte non era stata inutile, appena aveva posteggiato Stefania gli aveva sputato addosso la sua condanna. I suoi occhi di cielo brillavano di luna e paura, vomitavano lacrime.


Erano scesi, lui non sapeva nemmeno dove cazzo erano finiti, aveva lasciato Viale Regione Siciliana e ora non riusciva ad orientarsi, s'era acceso una camel 100's e sulle distorsioni delle casse della Renò lei aveva iniziato a parlare.
 Anche lei s'era accesa una sigaretta, una Merit le stava attaccata a quelle labbra così piccole sporche di rossetto. S'era fasciata in un piccolo vestitino nero e si aggrappava alla borsetta come se quella imitazione Onix fosse 'na specie di talismano. Fumava a piccole boccate e parlava piano tra le lacrime e gli strani ghirigori del fumo, ogni tanto si fermava come per riprendersi la sua vita, si fermava guardava la luna e guardava Stefano, lo guardava scazzottare il tetto della Renò, lo guardava morire.
Cinque anni per costruire la loro storia e solo due settimane dalla nonna per uccidere la loro storia, due settimane dalla nonna, quattordici giorni all'inferno.


Lei fumava e insieme al fumo le uscivano cose che non pensava ma che erano peggio di spille nelle unghia:
-Non puoi essere il padre che non ho avuto, non puoi essere il mio angelo custode! Non potrai essere sempre dietro di me per correggermi, tra poco me ne vado e non ti resteranno altro che i tuoi romanzi, usa pure questa notte per riempire qualche pagina! -
E lui era rimasto lì, muto. Moriva e rinasceva costantemente Stefano Re, n'erano morti tanti e tanti ancora ne sarebbero  morti. Quello di quella sera lo uccise Stefania, NON PUOI ESSERE IL PADRE CHE NON HO AVUTO… NON PUOI ESSERE IL PADRE CHE NON HO AVUTO…NON PUOI ESSERE IL PADRE CHE NON HO AVUTO…NON PUOI ESSERE IL PADRE CHE NON HO AVUTO…NON PUOI ESSERE IL PADRE CHE NON HO AVUTO…NON PUOI ESSERE IL PADRE CHE NON HO AVUTO…NON PUOI ESSERE IL PADRE CHE NON HO AVUTO…


Era immobile. Non se la sentiva di muoversi, guardava i granchietti che s'arrampicavano coraggiosi sugli scogli, il mare gli cantava la sua vecchia canzone e le sigarette erano pure finite. A quelle piccole assassine bianche e arancione poteva rinunciare.
Si ricordava solo spezzoni montati male di quella notte di luna, la corsa con la Renò, gli abbaglianti, il buio che era dentro e fuori di lui, le sue Merit e quelle terribili parole che s'erano appiccicate come calamari, strette al cervello e al cuore con i loro tentacolini di rabbia e rancore. Non si sarebbero spiccicate tanto presto. Erano le quattro, le quattro e la luna d'agosto sembrava parlargli, gli parlava del suo passato, glielo gridava nelle orecchie. Il futuro era un sussurro di ninna nanna, quella notte sarebbe finita presto.


Una bottiglia di birra becchettava sui tappetini, l'afferrò sopra l'etichetta, non avrebbe mai più bevuto una Corona. La scagliò lontano e la vide fermarsi un breve istante sul pelo dell'acqua, il mare sembrò come assaggiarla, poi la tirò a fondo. La stessa cosa avrebbe fatto volentieri con il ricordo di Stefania, l'avrebbe strappato via e tirato lontano, su un'altra galassia.
Non aveva sentieri dorati da seguire, voleva solo vivere assassinando il giorno e il suo passato. Sapeva che non sarebbe stato facile, lo sapeva lui e lo sapeva anche il mare.


E la luna era sempre sopra di lui, lucida di pianto.


 
IL SOGNO DI TUTTI



 La Renò era posteggiata vicino la spiaggia, Bob Dylan continuare a chiedersi quante strade dovrà percorrere un uomo. Se lo chiedeva anche Stefano. Era ancora lì, i granchietti non c'erano più, era restato solo lui, il mare e la luna.
Era davvero successo: la loro storia, la loro estate, la sua stabilità emotiva erano naufragate come quella bottiglia di Corona. Non riusciva a fare la stessa cosa con Stefania, la voleva rivedere, spiegarle che non gliene fregava nulla, avrebbero potuto superare tutti quei problemi insieme.


Lasciava galleggiare i suoi pensieri come polipi bolliti. Seguivano proprio la forma di un polipo: la testa era l'idea fissa a cui s'attaccava tutto il resto, tentacoli contorti che stringevano anche il suo domani. Stava ricordando il suo tema, era un bel pezzo. Con quelle quattro colonne s'era beccato la menzione. Appena aveva visto l'urlo di Munch gli era venuta voglia d'intervistarlo. E l'aveva fatto. Era entrato dentro il quadro e passeggiando lungo il ponte della vita aveva incontrato il protagonista del processo kafkiano e Godot. La frase che gli piaceva di più la faceva dire a Joseph K.:
- Non pensare è il sogno di tutti. Guarda il mare. Che ci aspetta dall'altra parte? Basterebbe che tutti si fermassero un solo minuto. Solo sessanta secondi per ascoltare la voce del mare. -
Credeva a quello che scriveva, per questo gli riusciva così bene riempire fogli. Alla fine del tema restava solo sul ponte a vedere tutti i suoi perché affondare sotto quel cielo di fuoco, restava lì e si tappava le orecchie per non sentire quell'urlo senza tempo.


Ora sentiva solo l'urlo del suo cuore.


Mancava poco e il sole avrebbe ucciso quella notte, Stefano voleva morire. Lo sentiva dentro, la morte però non poteva essere la soluzione, non era la risposta che Bob Dylan cercava nel vento.


Salì sullo scoglio più alto, tante volte era venuto lì con Stefania. Non aveva voglia di pregare, non l'aveva mai fatto sul serio, lo faceva solo perché sua madre era contenta così. In bocca si sentiva il sapore dei piccoli capezzoli di Stefania, non guardava giù, cercava solo di sentire la voce del mare e per la prima volta la sentì sul serio, era come se l'era immaginata, uno sciabordio lontano come un mugolio di piacere, una voce calda, materna. Ritmica, regolare come il battito del cuore di un piccolo feto. Era una voce di placenta, non assomigliava a quello che si sente dentro una conchiglia.
Quella voce l'aveva risvegliato.


Le scarpe le lasciò sullo scoglio, le lasciò lì doveva aveva lasciato il vecchio Stefano e  si buttò piegando leggermente le ginocchia. L'impatto con l'acqua gli schiaffeggiò la faccia, sputò via una bella scatarrata e si ritrovò a sorridere. Era fradicio e continuava a ridere sputacchiando acqua salata.


   Rideva mentre il sole sbadigliava nel cielo rosso. 

domenica 26 ottobre 2003

30 giugno
 Born to be Carlo
 


 Non aveva studiato niente, era stato coerente sino all'ultimo. Su questo Stefano non aveva dubbi, non ne aveva mai avuto. Carlo gli stava davanti, tra poco si sarebbe messo a piangere. Solo otto ore. Non gli restava che piangere. Gli scritti erano andati a tutti bene, nessuno era sceso sotto la sufficienza. Un pensiero in meno nella già affollata testaccia di Stefano. Non sapeva dire di no al suo vecchio amico. Era un'impresa suicida, nessun dubbio in proposito ma lui non l'avrebbe mai lasciato nei guai. In un'altra galassia l'aveva aiutato, avevano collaborato per uscire dall'incubo del demone Ciollone. Ce l'avrebbero fatta anche stavolta. Solo che ancora non sapevano come cazzo fare.


Carlo esibiva la sua posa migliore: cane bastonato con languidi occhi azzurri. Impossibile resistergli, il bastardo lo sapeva. Lo sapeva bene. Era una maledetta sfida contro il tempo. Avevano da rivedere praticamente tutto: letteratura inglese e italiana, matematica, Geografia astronomica, Letteratura latina, filosofia e storia, fisica… Tutti quegli argomenti erano ancora un continente inesplorato per Carlo, Stefano gli avrebbe fatto volentieri da guida. C'era solo un piccolo problema, la tematica era chiarissima, l'aveva costruita Stefano. In quel continente c'era però un piccolo triangolo delle Bermuda, lì s'era schiantata perfino l'inattaccabile preparazione del secchione. Non riusciva a capire che ci appizzava Petronio e il Satyricon nella "Trasgressione e Diversità" celebrata da Carlo. Lui non l'aveva nemmeno letto 'sto Satyricon. Se lo ricordava bene quella settimana, la settimana in cui aveva accarezzato l'idea del suicidio. Camminava con una lametta gillette e voleva farla finita, si sentiva inutile.


La soluzione arrivò inaspettata, era stata la Montebianco a fare quelle aggiunte, sarebbe stata lei a chiarire i dubbi di Stefano.
- Ma non sarà illegale? Andare a trovare un membro esterno il giorno prima dei colloqui… se ci beccano…- Stava perdendo tempo, Carlo aveva già scelto e aveva già messo in moto la sua lancia Y.


La professoressa era stata esauriente, il Satyricon altro non era che la versione latina del "Vizietto", una love story tra culettoni sullo sfondo della Roma antica.


  Schiacciava a tavoletta e Stefano continuava a ripetergli quello che lui avrebbe dovuto vomitare l'indomani davanti alla commissione. Stefano non ci sarebbe stato, doveva andare a superare l'esame di guida. Gli dispiaceva abbandonare il suo pupillo. Fumava una camel light dopo l'altra e gli era venuto fuori il primo giorno del liceo. N'era passato di tempo. Erano cambiati, erano diventati amici. Gli altri sarebbero diventate facce nella folla ma non Carlo, lui era speciale.
Il destino li aveva fatti capitare nello stesso banco, Carlo già esperto di rasoi e fiche, Stefano che ancora giocava con le sorpresine degli ovetti kinder.
 
Non ci aveva capito un cazzo come al solito, meno male che Stefano era lì, pronto a fornirgli una spiegazione. Il secchione s'era rimesso con Stefania e sembrava molto più rilassato, era tornato quello di sempre, allegro e spensierato con gli occhi luccicosi come in un manga. La felicità non è definitiva, glielo voleva sputare addosso ma non se la sentiva, lo lasciava fumare e vagheggiare su Stefania, domani avrebbe avuto anche lui la patente. Se lo immaginava già a bordo della Renò verdognola, ci stava bene in quella macchina, un pisello nel baccello diceva sua nonna.

30 giugno
 Born to be Carlo
 


 Non aveva studiato niente, era stato coerente sino all'ultimo. Su questo Stefano non aveva dubbi, non ne aveva mai avuto. Carlo gli stava davanti, tra poco si sarebbe messo a piangere. Solo otto ore. Non gli restava che piangere. Gli scritti erano andati a tutti bene, nessuno era sceso sotto la sufficienza. Un pensiero in meno nella già affollata testaccia di Stefano. Non sapeva dire di no al suo vecchio amico. Era un'impresa suicida, nessun dubbio in proposito ma lui non l'avrebbe mai lasciato nei guai. In un'altra galassia l'aveva aiutato, avevano collaborato per uscire dall'incubo del demone Ciollone. Ce l'avrebbero fatta anche stavolta. Solo che ancora non sapevano come cazzo fare.


Carlo esibiva la sua posa migliore: cane bastonato con languidi occhi azzurri. Impossibile resistergli, il bastardo lo sapeva. Lo sapeva bene. Era una maledetta sfida contro il tempo. Avevano da rivedere praticamente tutto: letteratura inglese e italiana, matematica, Geografia astronomica, Letteratura latina, filosofia e storia, fisica… Tutti quegli argomenti erano ancora un continente inesplorato per Carlo, Stefano gli avrebbe fatto volentieri da guida. C'era solo un piccolo problema, la tematica era chiarissima, l'aveva costruita Stefano. In quel continente c'era però un piccolo triangolo delle Bermuda, lì s'era schiantata perfino l'inattaccabile preparazione del secchione. Non riusciva a capire che ci appizzava Petronio e il Satyricon nella "Trasgressione e Diversità" celebrata da Carlo. Lui non l'aveva nemmeno letto 'sto Satyricon. Se lo ricordava bene quella settimana, la settimana in cui aveva accarezzato l'idea del suicidio. Camminava con una lametta gillette e voleva farla finita, si sentiva inutile.


La soluzione arrivò inaspettata, era stata la Montebianco a fare quelle aggiunte, sarebbe stata lei a chiarire i dubbi di Stefano.
- Ma non sarà illegale? Andare a trovare un membro esterno il giorno prima dei colloqui… se ci beccano…- Stava perdendo tempo, Carlo aveva già scelto e aveva già messo in moto la sua lancia Y.


La professoressa era stata esauriente, il Satyricon altro non era che la versione latina del "Vizietto", una love story tra culettoni sullo sfondo della Roma antica.


  Schiacciava a tavoletta e Stefano continuava a ripetergli quello che lui avrebbe dovuto vomitare l'indomani davanti alla commissione. Stefano non ci sarebbe stato, doveva andare a superare l'esame di guida. Gli dispiaceva abbandonare il suo pupillo. Fumava una camel light dopo l'altra e gli era venuto fuori il primo giorno del liceo. N'era passato di tempo. Erano cambiati, erano diventati amici. Gli altri sarebbero diventate facce nella folla ma non Carlo, lui era speciale.
Il destino li aveva fatti capitare nello stesso banco, Carlo già esperto di rasoi e fiche, Stefano che ancora giocava con le sorpresine degli ovetti kinder.
 
Non ci aveva capito un cazzo come al solito, meno male che Stefano era lì, pronto a fornirgli una spiegazione. Il secchione s'era rimesso con Stefania e sembrava molto più rilassato, era tornato quello di sempre, allegro e spensierato con gli occhi luccicosi come in un manga. La felicità non è definitiva, glielo voleva sputare addosso ma non se la sentiva, lo lasciava fumare e vagheggiare su Stefania, domani avrebbe avuto anche lui la patente. Se lo immaginava già a bordo della Renò verdognola, ci stava bene in quella macchina, un pisello nel baccello diceva sua nonna.

sabato 25 ottobre 2003

Raccolgo la gustosa provocazione di Teresa e mentre medito pubblico la seconda e la terza puntata di GOCCE DI VITA


20 giugno
12 ore all'alba


Nessuno studiava come Carlo, aveva una tecnica favolosa: se ne strafotteva di tutto e tutti. Per lui il tema era solo una stupida perdita di tempo, sei ore per macchiare due fogli bianchi con cose che non avrebbe mai detto né pensato. Stefano lo stimava, sapeva bene che Carlo poteva masticarsi facilmente lui, Stefania, Lorefia e pulirsi i denti con Dario. Era geniale ma aveva un difettaccio. Uno di quelli che ti si attaccano come zecche in calore. Dirgli pigro era un complimento, la sua lagnusia era inimmaginabile. Aveva passato quei cinque anni sempre a stiracchiarsi in quel suo banco troppo stretto, a scaccolarsi sulla maglietta di Biagio e a riempire l'aria di uno strano odorino. Scoreggiava in una maniera viscida, quei piritini che ti sembrano un sospiro e tu fai lo sbaglio di sottovalutarli. Ti fanno ridere, non li temi e loro s'appiccicano alle tue narici e tu cerchi sollievo in qualche cosa, ti annusi le ascelle, annusi le ascelle di Calogero, niente, ti senti la bocca piena del menù mal digerito di Carlo.
Lui continuava a svaporare come una vecchia locomotiva, Stefano era il più bersagliato. Continuava a maledirsi, era capitato proprio nell'epicentro del malefico ano. Dritto dritto dietro le chiappe di Carlo, senza possibilità di scampo. Poteva perfino separare con una solo annusata colazione, pranzo e cena. Ci azzeccava quasi sempre. Alcuni supponevano che ci avesse fatto il callo alle narici, il simpatico secchione la prendeva con filosofia e non poteva evitare di sganasciarsi all'arrivo della Von Giellula. Come da copione: lei poggia la sua borsa sulla cattedra, le sue chiappe gelatinose sulla sedia e subito le scorregge arrivano svolazzando felici tra i banchi. Schivano ostacoli su ostacoli, scalzano Biagio e Oreste e poi colpiscono il naso della prof., lei cerca di resistere, cerca riparo nei fazzoletti alla menta. Inutile, Carlo non s'arrende. È inevitabile: "Aprite la finestra c'è aria viziata!". Rosario ci provava da tre anni, si ci applicava ma non aveva mai capito come i piriti di Carlo sceglievano proprio le ore della Von Giellula per scorazzare liberi e felici tra le pareti della classe, nessuno poteva togliergli dalla testa il sospetto che Carlo lo facesse apposta. Erano spensierati, stavano ore e ore nel cesso a sentire uno strano concerto fatto di rutti, piriti e pernacchie e su quella sinfonia celestiale sfumacchiavano le sigarette di Paride.


Quei giorni erano finiti, lo sapeva bene Carlo. Avrebbe dovuto studiare qualcosa ma bastava una solo scorreggia per mettergli addosso la malinconia. Praga e Vienna, quante n'avevano combinato! Una dopo l'altra. S'erano trovati all'aeroporto di Punta Raisi alle 4,30 di una strana mattinata d'Aprile. Con due uova al tegamino sotto le palpebre e la strana voglia omicida nei confronti di Pedro e della sua videocamera. Girava e girava metri e metri di nastro riempiendo il sonoro con i suoi interminabili e esilaranti commenti, ce n'erano per tutti. Stefano e i suoi capelli, Carlo e il suo problema al tubo di scappamento, Stefania e il suo naso aquilino, Manola, Dona, Miscela. Nessuno poteva scampare a Pedro Busetta. Ma nessuno era così bersagliato come Roby. Bastava una sola inquadratura caduta per sbaglio nelle sue vicinanze e subito Pedro inizia a vomitarne di cotte e di crude. Sembrava ispirato. Roby era una facile preda, da qualunque parte lo guardavi ti sgorgavano allusioni e insulti vari. Il cappello alla Sampei, la giacchetta di moda tra i gay eschimesi, la voce da marmitta attuppata. 
L'aereo s'era alzato in volo, s'era messo orizzontale e subito dopo era atterrato. Stefano soffriva come un animale, le orecchie ululanti e una voglia matta d'ammazzare la Montebianco e tutti i suoi inutili consigli.
 
Carlo aveva dato troppo lenza a pesce dei suoi ricordi, cercava di tirarlo a riva. Non ci riusciva, più tirava e più il pesce svicolava tra le stradine della vecchia Europa, era arrivato all'aeroporto di Vienna…
E via verso i bagagli con Roby in testa e i milicioti alla fine del lungo e confuso corteo. Avevano volato per una sola ora ed erano finiti in un altro mondo, tutto pulito e ordinato, dove non si sentiva nemmeno un urlo di protesta, questa è civiltà! diceva il padre di Ores mentre allegramente comprava 10 cartoline e ne spediva 35, le altre 25 le otteneva con la sua filosofia di vita: Fotti e non farti fottere. Aveva le tasche dilatate dai ricordini che misteriosamente sparivano dalle mensole dei negozi, e pure se ne vantava! Narrava le sue ignobili gesta e ridacchiava abbordando ragazze da passare al figlioletto. Stefano era sconvolto e disgustato, fumava per non pensare al Signor Scannapane, in fondo era in viaggio d'istruzione. Si stava proprio istruendo, stava capendo quanti accattoni si nascondono dietro la maschera della rispettabilità.


S'erano creati due partiti, chi doveva telefonare e chi doveva cambiare l'acqua all'uccello o alla passera. Stefano e Paride non appartenevano a nessuno dei due, loro erano gli esploratori. Avevano trovato le valige, una dopo l'altra passavano e ripassavano indisturbate sul tapì rulà. Non c'era nessuno alla sala d'aspetto, nemmeno un piccolo ladruncolo, c'era soltanto il signor Scannapane intento a studiare le cosce dell'impiegata del change.
A quanto la danno la corona?   La corona, la corona…


S'era addormentato vestito, l'orologio segnava le 7,55. Non aveva studiato nulla e alle 8,15 iniziavano gli esami…


21 giugno
"Tema non ti temo!"



 Arrivavano uno dopo l'altro con gli occhi ancora inzuppati di sonno. Arrivavano e si sedevano nella loro vecchia panchina sotto i portici di Don Gino, su quella panchina trascorrevano tutte le ricreazioni, ci avrebbero trascorso pure l'alba degli esami. Facevano colazione masticando cornetti e rabbia e bevendo caffè al rancore. Avrebbero potuto studiare di più, preparare meglio le cartucciere, pregare con più fede in chiesa. Avrebbero potuto fare tante cose i ragazzi della V^ E. Solo Lorefia non aveva niente da rimproverarsi, sgobbava da tre settimane sui libri e sulle fisarmoniche che aveva saccheggiato nelle varie bancarelle. Il sonno non sapeva più che fosse, non dormiva da tanto.
C'era un bel miscuglio su quella panchina, Stefania scacciava tutti quelli che la salutavano, Stefano fischiettava e stonava Max Gazzè, Carlo sbadigliava e scoreggiava, Calogero non riusciva a staccare le labbra dalla ventosa che Stella aveva sotto il naso. Gli altri sfumacchiavano Marlboro light e sfottevano Roby. Tutti facevano lo stesso gesto meccanico a intervalli regolari, taliavano e ritaliavano l'orologio trattenendo l'alitosi mattutina.


Alle 7.59 di quel 21 giugno il corteo s'avviò verso l'ingresso del liceo, un piede alla volta dietro un'invisibile bara. Il solito deja-vù abbracciò i sopravvissuti, gli capitava ogni volta che s'avvicinavano al portone d'ingresso, forse erano solo lontane eco della membrana infernale. Poteva anche essere semplice paura…
Il presidente della commissione sembrava la versione omosessuale di Michael Douglas in "UN GIORNO D'ORDINARIA FOLLIA", dietro una montatura dorata aveva due occhietti tipici di quei babbasoni innocui che poi t'inculano senza chiederti niente, con violenza e senza vaselina. Si doveva stare attenti solo a lui e a quella di scienze, una racchia repressa con il buco del culo sigillato tra le mutandine. Gli altri due erano abbastanza simpatici, si vedeva che erano pronti a sbranarti alla minima impreparazione ma almeno erano due belle facce. Quello di filosofia aveva una bella barba brizzolata sotto due occhi azzurri come l'oceano.
Quella di matematica monopolizzò tutte le erezioni, era una cavalluccia niente male che aveva messo a Carlo tanta voglia di studiare la sua materia.


E ora s'entrava, già da fuori si vedevano i banchi sparpagliati per il corridoio a casaccio, uno a destra e uno a sinistra. Il presidente zigzagava stringendo l'elenco delle due classi della sua commissione. Lo stringeva con le sue mani sudaticce e intanto osservava proprio Stefano, quel bestione con i capelli, la maglietta e i jeans neri. Tutto in coordinato, c'avrebbe pensato lui ad annerirgli il culo. Come si chiamava? Stefano Re, in quel corridoio l'unico re era lui. Aveva anche letto di sfuggita la sua pagella, quella sottospecie d'armadio a quattro ante aveva una media di tutto rispetto, con un bel 10 in italiano. Più lo rimirava da lontano e più non capiva. Perché la Montebianco gli aveva fatto una testa così a vantarlo? Sembrava uno di quei dannati scapigliati della nuova leva intellettuale che si sentono sulle spalle il grave compito di cambiare la società, bubbole! Portava i capelli a mezzo collo, gli occhiali da sole sciddicati sul naso e ridacchiava caoticamente. Lo doveva tenere sotto controllo, poteva dargli delle grane, se lo poteva permettere con la sua pagella e con il feeling che aveva con la Montebianco. Non lo poteva sapere, ma il presidente Calvaruso stava pensando gli stessi pensieri di Lorefia.


Avanzavano compatti i ragazzi di Laurentius, erano cresciuti ma erano sempre i suoi ragazzi. S'infilarono in ordine alfabetico guidati dal presidente. Carlo era tranquillo, solo lui e Stefano non s'erano fatti prendere la mano dalla tensione che si respirava in quel corridoio. Qualcuno canticchiava, molti pregavano. Stavano aspettando la busta con le otto tracce del Ministero. Stefano era indeciso tra l'analisi testuale e l'articolo, se la cavava benissimo con tutte e due. La Repubblica aveva pronosticato che Saba sarebbe uscito dalla busta a sorpresa, ci azzeccò. 
Il tempo passava e ancora le buste non arrivavano, il Presidente aveva fatto dei piccoli tocchetti di foglio, ci aveva macchiato sopra le lettere dell'alfabeto e ora le shakerava davanti le pupille dilatate di Paride. Uno strano scherzo del destino: un altro Paride era chiamato a fare un'ardua scelta, stavolta non c'erano mele d'oro. Il vecchio Paride Senzangelo si sarebbe guadagnato solo l'eterno odio del primo sorteggiato.
 -Agitali bene! Mi raccomando…- la voce dell'arruso con gli occhialini gli solleticava le trombe d'Eustachio. Aveva scelto, era uscito il corso E e la G.
 -Garbo sarà il primo!- esclamò entusiasta la loro prof. d'inglese. Carlo la odiò, s'agitava scosso da una strana vibrazione, s'aspettava altre tre settimane per studiare e invece la sua testa sarebbe stata mozzata tra cinque giorni. Solo cinque giorni per recuperare quello che non aveva nemmeno letto! Forse s'era cagato addosso, avrebbe controllato più tardi, ora avrebbe volentieri stritolato Paride.


La busta fu aperta dalla scienziata repressa, ne uscirono una dozzina di fogli, numerati, intestati e con altrettanti codici a barre. Tutto divenne nero nella testa di Carlo, la tranquillità gl'era caduta assieme alle palle.
Lo scheletrino urlante di Munch faceva capolino dal suo ponte, un bel temuccio quello del male di vivere. L'avevano macinato spesso, magari troppo spesso. Tutte le tracce erano abbordabili. Iniziarono a scrivere alle 9 e 17.


Alle 10 e 13 Stefano aveva già finito. Manola aveva acchiappato l'analisi testuale e sembrava stranamente ispirata. Stefania incideva il foglio con chilometri d'inchiostro e Carlo cercava nell'aria qualcosa da scrivere. Le cartucce uscirono una dopo l'altra mentre Stefano stonava Blowing in the wind per la trentaduesima volta. Molti occhi fecero finta di non vedere, tranne i due occhietti d'un inquietante verde rame del presidente. Acchiappò una sedia e si andò ad assittare proprio davanti a Paride…


Alle 13 e 30 il corridoio iniziò a spopolarsi, uscivano uno dopo l'altro come piccole caccole dalle narici del Liceo, uscivano massaggiandosi i polsi doloranti a forza di scopiazzare senza criterio dalle microscopiche fotocopie che gonfiavano le varie magliettine.
Stefano leggeva e rileggeva da quattro ore il suo capolavoro, ogni tanto alzava gli occhi dal foglio e guardava Stefania, era proprio dietro di lei. Guardava anche Dario. Era bastato fissare per un solo istante il suo vecchio amico per ritornare a quella strana mattinata a Praga.


…l'ultima notte all'hotel Slavia, l'ultima notte a Praga. Stefano, Biagio, Carlo e i milicioti erano andati con la Montebianco a passeggiare sul ponte Carlo. Lì, sorvegliata da statue di santi e eroi c'era la più grande discoteca del centro Europa: Karlovy Lazne.
Ballavano i ragazzi della V^ E, ballavano di tutto e gli esami sembravano così lontani… Gli altri erano gasati ma Dario era impazzito. Pedro gli aveva fatto bere un Erectus, una micidiale bevanda energetica. Dario non beveva, non fumava, non rullava. Quella bevanda arrivò dritta al cervello danneggiando irreparabilmente lo sventurato. Non sarebbe stato più il vecchio Dario, non sarebbe più riuscito a scrivere un tema decente. Tutto merito di Pedro. Calogero non stava ancora con Stella, Stella aveva ancora Dario nel cuore. Avevano ballato sino all'alba, la Montebianco era semisvenuta in un tavolino del disco pub, s'era tolta le scarpe e ascoltava a fatica le sconnesse elucubrazioni di Stefano. Aveva bisogno d'una ragazza, chiaro e lampante, solo una donna poteva aggiustarlo a dovere. Forse Stefania era quella adatta.


Quattro taxi li avevano riportati all'albergo, Stefano aveva solo voglia di staccarsi dagli occhi le lentine e fare un fosso nel letto. S'era dimenticato della festazza che aveva organizzato proprio nella sua stanza. Rum a tignitè, marlboro al mentolo e abbordaggio libero. Mancavano soltanto Luis e la sua sbanda di scuncumiddati, la spaccatura continuava ad esserci nonostante i "rapporti interpersonali all'interno della classe" restassero un costante punto all'O.d.G. di ogni dannata assemblea di classe.
Stefano aveva invitato perfino i vicini di stanza, due artisti spagnoli. Le lesbiche belghe erano partite la sera prima lasciando orfano il cazzo di Paride.
Calavano forte i ragazzi di Laurentius, Stella li aveva sfidati e ora delirava invocando Dario. Era una scena strappalacrime, la rossa ubriaca che continuava a vomitarsi addosso e tra un conato e l'altro continuava la sua litania. Dario ti amo, ti amo, l'ho fatto solo per farti ingelosire…
Dario le stringeva dolcemente la mano, si vedeva che piangeva dentro. Ci volevano due palle così per accettare quella situazione. Stella di giorno stava appiccicata a Calogero, ogni volta che spariva si sapeva bene dov'era e ora chiamava solo Dario. L'amava ancora, s'amavano ancora ma erano forse troppo diversi. Troppo.


Quello non era stato un bell'anno per Dario, si vedeva che ci soffriva ancora, lo capivi da come inclinava la bic, da come sfogliava il dizionario alla ricerca delle doppie che sbagliava ogni volta.
Anche Stefano n'aveva viste di cose, aveva sfiorato l'abisso tante volte e sempre era riuscito a risollevarsi. L'incubo nella piramide era una bazzecola, la vita s'era rivelata molto più faticosa. Non bastava sapere rispondere alle domande giuste, non bastava saper riempire le colonne di un tema.  

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