domenica 30 luglio 2006

BombaSicilia.it

E' ufficiale, abbiamo comprato il dominio www.bombasicilia.it. Da oggi la nostra rivista trimestrale ha un indirizzo tutto suo, appena in tempo, come già era successo con l'estensione .net per BombaCarta, hanno messo una sfilza di link pubblicitari su bombasicilia.net che fu il nostro primo glorioso indirizzo.



E' il prezzo della notorietà, aggiornate i vostri "preferiti".

Alla ricerca di un editore

di Davide Bacca



Giulio Mozzi sorseggia il suo caffè shackerato, si accende una sigaretta e parte deciso: «Ogni tanto vengo preso da attacchi di disperazione, perché ci sono ormai parecchi libri che non riesco a far pubblicare benché mi sembrino importanti». Così, lo scrittore padovano (ma anche consulente editoriale per la milanese Sironi e organizzatore di attività che ruotano attorno al libro), ha deciso di lanciare la sua sfida. «Se non una bomba, una bombetta», si schernisce. Attorno al suo bollettino online di letture e scritture, vibrisse sta infatti nascendo il progetto vibrisselibri. Ovvero un sito internet dove pubblicare alcuni testi, scaricabili gratuitamente, con la speranza che qualcuno li noti e decida di pubblicarli perché, come spiega Mozzi, «la vera esistenza dell'oggetto libro, è quella cartacea».



Testi su cui verrebbe fatto il normale lavoro editoriale, compresa la presentazione del volume. «Dovremo inventarci qualcosa perché paradossalmente presenteremo libri che ancora non esistono. Ma sfrutteremo la cosa per le sue potenzialità», continua Mozzi. Eppure è proprio questo il cuore del progetto: dare visibilità a testi rimasti chiusi per troppo tempo in qualche cassetto, con un massiccio lavoro di comunicazione, contattando critici e giornalisti a cui spedire alcune copie stampate appositamente.



«L'obbiettivo è di ottenere recensioni o segnalazioni sui media. Io vorrei che il critico del Corriere o de Il Padova, recensisse un nostro testo come se fosse un libro vero. Sarebbe un cambiamento radicale per la critica letteraria, chiamata a una maggiore responsabilità». Se grazie a queste segnalazioni un editore si interessasse al testo, si aprirebbe la partita vera e propria. In questo caso vibrisselibri si trasformerebbe in agente letterario, trattando con l'editore le condizioni di pubblicazione e incassando una piccola percentuale sui diritti versati all'autore.



Rimangono da definire molte questioni. Per esempio, far stampare accanto al logo dell'editore, quello di vibrisse come riconoscimento del lavoro svolto. Pubblicare in Copyleft, lasciando la versione online a disposizione gratuitamente. Per ora, a un mese dal lancio del progetto, già una cinquantina di volontari hanno risposto da tutta Italia. La presentazione ufficiale è prevista per l'autunno, probabilmente metà ottobre.



«Partiremo in grande stile, con due conferenze stampa in contemporanea a Milano e Roma. Magari in sedi prestigiose, come quella della stampa estera. Nell'occasione presenteremo anche i primi due titoli, su cui stiamo già discutendo».



Nessuna logica da collana per quel che riguarda temi e argomenti. «Pubblicheremo romanzi, poesia, teatro, magari saggistica. Anche opere bizzarre, quasi "impubblicabili", ma come in fondo lo era l'Ulisse di Joyce». Se la cosa andrà in porto, Mozzi ha già pronta la prossima sfida: vibrisserivista per l'editore Coniglio. «Quando avremo messo in piedi vibrisselibri, vuol dire che avremo un gruppo di persone in grado di fare qalunque cosa!».



Il progetto assumerà la forma giuridica di associazione in base all'assetto che si produrrà nel gruppo. Previsto un comitato di lettura, "l'esercito" del progetto, col compito di scremare i manoscritti e farne schede di lettura, coordinato da Lucio Angelini, traduttore e autore di letteratura per ragazzi. Un ufficio comunicazione, guidato da Mauro Mongarli e Roberto Tossani per il lavoro attorno al marchio, alla grafica dei libri e del sito. Un ufficio stampa, guidato da Stefania Nardini, per i contatti con i media e la redazione, un nucleo di 5-6 persone per il lavoro sui libri.




Il Padova, 30/07/2006

BombaSicilia.it

E' ufficiale, abbiamo comprato il dominio www.bombasicilia.it. Da oggi la nostra rivista trimestrale ha un indirizzo tutto suo, appena in tempo, come già era successo con l'estensione .net per BombaCarta, hanno messo una sfilza di link pubblicitari su bombasicilia.net che fu il nostro primo glorioso indirizzo.



E' il prezzo della notorietà, aggiornate i vostri "preferiti".

Alla ricerca di un editore

di Davide Bacca



Giulio Mozzi sorseggia il suo caffè shackerato, si accende una sigaretta e parte deciso: «Ogni tanto vengo preso da attacchi di disperazione, perché ci sono ormai parecchi libri che non riesco a far pubblicare benché mi sembrino importanti». Così, lo scrittore padovano (ma anche consulente editoriale per la milanese Sironi e organizzatore di attività che ruotano attorno al libro), ha deciso di lanciare la sua sfida. «Se non una bomba, una bombetta», si schernisce. Attorno al suo bollettino online di letture e scritture, vibrisse sta infatti nascendo il progetto vibrisselibri. Ovvero un sito internet dove pubblicare alcuni testi, scaricabili gratuitamente, con la speranza che qualcuno li noti e decida di pubblicarli perché, come spiega Mozzi, «la vera esistenza dell'oggetto libro, è quella cartacea».



Testi su cui verrebbe fatto il normale lavoro editoriale, compresa la presentazione del volume. «Dovremo inventarci qualcosa perché paradossalmente presenteremo libri che ancora non esistono. Ma sfrutteremo la cosa per le sue potenzialità», continua Mozzi. Eppure è proprio questo il cuore del progetto: dare visibilità a testi rimasti chiusi per troppo tempo in qualche cassetto, con un massiccio lavoro di comunicazione, contattando critici e giornalisti a cui spedire alcune copie stampate appositamente.



«L'obbiettivo è di ottenere recensioni o segnalazioni sui media. Io vorrei che il critico del Corriere o de Il Padova, recensisse un nostro testo come se fosse un libro vero. Sarebbe un cambiamento radicale per la critica letteraria, chiamata a una maggiore responsabilità». Se grazie a queste segnalazioni un editore si interessasse al testo, si aprirebbe la partita vera e propria. In questo caso vibrisselibri si trasformerebbe in agente letterario, trattando con l'editore le condizioni di pubblicazione e incassando una piccola percentuale sui diritti versati all'autore.



Rimangono da definire molte questioni. Per esempio, far stampare accanto al logo dell'editore, quello di vibrisse come riconoscimento del lavoro svolto. Pubblicare in Copyleft, lasciando la versione online a disposizione gratuitamente. Per ora, a un mese dal lancio del progetto, già una cinquantina di volontari hanno risposto da tutta Italia. La presentazione ufficiale è prevista per l'autunno, probabilmente metà ottobre.



«Partiremo in grande stile, con due conferenze stampa in contemporanea a Milano e Roma. Magari in sedi prestigiose, come quella della stampa estera. Nell'occasione presenteremo anche i primi due titoli, su cui stiamo già discutendo».



Nessuna logica da collana per quel che riguarda temi e argomenti. «Pubblicheremo romanzi, poesia, teatro, magari saggistica. Anche opere bizzarre, quasi "impubblicabili", ma come in fondo lo era l'Ulisse di Joyce». Se la cosa andrà in porto, Mozzi ha già pronta la prossima sfida: vibrisserivista per l'editore Coniglio. «Quando avremo messo in piedi vibrisselibri, vuol dire che avremo un gruppo di persone in grado di fare qalunque cosa!».



Il progetto assumerà la forma giuridica di associazione in base all'assetto che si produrrà nel gruppo. Previsto un comitato di lettura, "l'esercito" del progetto, col compito di scremare i manoscritti e farne schede di lettura, coordinato da Lucio Angelini, traduttore e autore di letteratura per ragazzi. Un ufficio comunicazione, guidato da Mauro Mongarli e Roberto Tossani per il lavoro attorno al marchio, alla grafica dei libri e del sito. Un ufficio stampa, guidato da Stefania Nardini, per i contatti con i media e la redazione, un nucleo di 5-6 persone per il lavoro sui libri.




Il Padova, 30/07/2006

giovedì 27 luglio 2006

La favola dei tre anelli







Ieri andavo da lei e in macchina come quasi sempre ascoltavo Radio 3, trasmettevano L'oro del reno. Prima di collegarsi in diretta con la Bayreuth Festival Orchestra in studio discutevano sul significato dell'anello come simbolo, con tutte le metafore possibili sulla ciclicità dell'esistenza e ascendenze più o meno lontane.

Il discorso è poi caduto su Nathan il saggio di Lessing e soprattutto sulla favola dei tre anelli che rapprensenta la migliore cosa mai scritta sul dialogo tra le tre grandi religioni monoteiste:



NATHAN

Molti anni or sono un uomo in Oriente

Possedeva un anello inestimabile, un caro dono.

La sua pietra, un opale dai cento bei riflessi colorati, ha un potere segreto:

rende grato a Dio e agli uomini chiunque la porti con fiducia.

Può stupire se non lo toglieva mai dal dito,

e se dispose in modo che restasse per sempre in casa sua?

Egli lasciò l'anello al suo figlio più amato;

e lasciò scritto che a sua volta quel figlio lo lasciasse al suo figlio più amato;

e che ogni volta il più amato dei figli diventasse,

senza tenere conto della nascita ma soltanto per forza dell'anello,

il capo e il signore del casato.

Tu mi segui, sultano?



SALADINO

Ti seguo. Vai avanti.



NATHAN

E l'anello così, di figlio in figlio,

giunse alla fine a un padre di tre figli.

Tutti e tre gli ubbidivano ugualmente

Ed egli, non poteva farne a meno,

li amava tutti nello stesso modo.

Solo di tanto in tanto l'uno o l'altro

Gli sembrava il più degno dell'anello

Quando era con lui solo, e nessun altro

Divideva l'affetto del suo cuore.

Così, con affettuosa debolezza

Egli promise l'anello a tutti e tre.

Andò avanti così finché poté.

Ma, vicino alla morte, quel buon padre

Si trova in imbarazzo. Offendere così

due figli, fiduciosi nella sua parola,

lo rattrista. - Che cosa deve fare? -

Egli chiama in segreto un gioielliere,

e gli ordina due anelli in tutto uguali al suo;

e con lui si raccomanda che non risparmi né soldi né fatica

perché siano perfettamente uguali.

L'artista ci riesce.

Quando glieli porta, nemmeno il padre è in grado di distinguere l'anello vero.

Felice, chiama i figli uno per uno,

impartisce a tutti e tre la sua benedizione,

a tutti e tre dona l'anello e muore.

Tu mi ascolti, sultano?



SALADINO

(il quale, colpito, aveva girato il viso)

Ascolto, ascolto.

Ma finisci presto La tua favola.



Ci sei?



NATHAN

Ho già finito.

Quel che segue si capisce da sé.

Morto il padre, ogni figlio si fa avanti

Con il suo anello, ogni figlio vuol essere Il signore del casato.

Si litiga, si indaga, si accusa. Invano.

Impossibile provare quale sia l'anello vero

(dopo una pausa, durante la quale egli attende la risposta del sultano)

quasi come per noi provare quale sia la vera fede.



SALADINO

Come?

Questa è la tua risposta alla mia domanda?…



NATHAN

Valga Soltanto a scusarmi,

se non oso

Cercare di distinguere gli anelli

Che il padre fece fare appunto al fine

Che fosse impossibile distinguerli.



SALADINO

Gli anelli! - Non burlarti di me!

Le religioni che ti ho nominato

Si possono distinguere persino

Nelle vesti, nei cibi, nelle bevande!



NATHAN

E tuttavia non nei fondamenti.

Non si fondano tutte sulla storia,

scritta o tramandata?

E la storia solo per fede e per fedeltà dev'essere accettata,

non è vero?

E di quale fede e fedeltà dubiteremo

Meno che di ogni altra?

Quella dei nostri avi, sangue del nostro sangue,

quella di coloro che dall'infanzia ci diedero prova del loro amore,

e che mai ci ingannarono, se l'inganno per noi non era salutare?

Posso io credere ai miei padri

Meno che tu ai tuoi?

O viceversa?

Posso forse pretendere che tu,

per non contraddire i miei padri,

accusi i tuoi di menzogna?

O viceversa?

E la stessa cosa vale per i cristiani, non è vero?



SALADINO

(Per il Dio vivente! Hai ragione. Io devo ammutolire).



NATHAN

Ma torniamo

Ai nostri anelli.

Come dicevo, i figli

Si accusarono in giudizio.

E ciascuno giurò al giudice di avere ricevuto

l'anello dalla mano del padre (ed era vero),

e molto tempo prima la promessa

dei privilegi concessi dall'anello

(ed era vero anche questo).

Il padre, ognuno se ne diceva certo,

non poteva averlo ingannato;

prima di sospettare questo,

diceva, di un padre tanto buono,

non poteva che accusare dell'inganno i suoi fratelli,

di cui pure era sempre stato pronto a pensare tutto il bene;

e si diceva sicuro di scoprire i traditori e pronto a vendicarsi.



SALADINO

E il giudice?

Sono ansioso di ascoltare

Che cosa farai dire al giudice.

Parla!



NATHAN

Il giudice disse: Portate subito

Qui vostro padre, o vi scaccerò

Dal mio cospetto.

Pensate che stia qui

A risolvere enigmi?

O volete restare

Finché l'anello vero parlerà?

Ma… aspettate!

Voi dite che l'anello vero

Ha il magico potere di rendere amati,

grati a Dio e agli uomini.

Sia questo a decidere!

Gli anelli falsi non potranno.

Su, ditemi: chi di voi è il più amato

Dagli altri due?

Avanti!

Voi tacete?

L'effetto degli anelli è solo riflessivo,

non transitivo?

Ciascuno di voi ama solo se stesso?

Allora tutti e tre siete truffatori truffati!

I vostri anelli sono falsi tutti e tre.

Probabilmente l'anello vero si perse,

e vostro padre ne fece fare tre per celarne la perdita e per sostituirlo.



SALADINO

Magnifico! Magnifico!



NATHAN

Se non volete, proseguì il giudice,

il mio consiglio e non una sentenza,

andatevene!

Ma il mio consiglio è questo:

accettate le cose come stanno.

Ognuno ebbe l'anello da suo padre:

ognuno sia sicuro che esso è autentico.

Vostro padre, forse, non era più disposto

A tollerare ancora in casa sua

La tirannia di un solo anello.

E certo Vi amò ugualmente tutti e tre.

Non volle, infatti, umiliare due di voi

Per favorirne uno.

Orsù! Sforzatevi

Di imitare il suo amore incorruttibile

E senza pregiudizi.

Ognuno faccia a gara

Per dimostrare alla luce del giorno

La virtù della pietra nel suo anello.

E aiuti la sua virtù con la dolcezza,

con indomita pazienza e carità,

e con profonda devozione a Dio.

Quando le virtù degli anelli appariranno

Nei nipoti, e nei nipoti dei nipoti,

io li invito a tornare in tribunale,

fra mille e mille anni.

Sul mio seggio siederà un uomo più saggio di me; e parlerà.

Andate!

Così disse quel giudice modesto.


La favola dei tre anelli







Ieri andavo da lei e in macchina come quasi sempre ascoltavo Radio 3, trasmettevano L'oro del reno. Prima di collegarsi in diretta con la Bayreuth Festival Orchestra in studio discutevano sul significato dell'anello come simbolo, con tutte le metafore possibili sulla ciclicità dell'esistenza e ascendenze più o meno lontane.

Il discorso è poi caduto su Nathan il saggio di Lessing e soprattutto sulla favola dei tre anelli che rapprensenta la migliore cosa mai scritta sul dialogo tra le tre grandi religioni monoteiste:



NATHAN

Molti anni or sono un uomo in Oriente

Possedeva un anello inestimabile, un caro dono.

La sua pietra, un opale dai cento bei riflessi colorati, ha un potere segreto:

rende grato a Dio e agli uomini chiunque la porti con fiducia.

Può stupire se non lo toglieva mai dal dito,

e se dispose in modo che restasse per sempre in casa sua?

Egli lasciò l'anello al suo figlio più amato;

e lasciò scritto che a sua volta quel figlio lo lasciasse al suo figlio più amato;

e che ogni volta il più amato dei figli diventasse,

senza tenere conto della nascita ma soltanto per forza dell'anello,

il capo e il signore del casato.

Tu mi segui, sultano?



SALADINO

Ti seguo. Vai avanti.



NATHAN

E l'anello così, di figlio in figlio,

giunse alla fine a un padre di tre figli.

Tutti e tre gli ubbidivano ugualmente

Ed egli, non poteva farne a meno,

li amava tutti nello stesso modo.

Solo di tanto in tanto l'uno o l'altro

Gli sembrava il più degno dell'anello

Quando era con lui solo, e nessun altro

Divideva l'affetto del suo cuore.

Così, con affettuosa debolezza

Egli promise l'anello a tutti e tre.

Andò avanti così finché poté.

Ma, vicino alla morte, quel buon padre

Si trova in imbarazzo. Offendere così

due figli, fiduciosi nella sua parola,

lo rattrista. - Che cosa deve fare? -

Egli chiama in segreto un gioielliere,

e gli ordina due anelli in tutto uguali al suo;

e con lui si raccomanda che non risparmi né soldi né fatica

perché siano perfettamente uguali.

L'artista ci riesce.

Quando glieli porta, nemmeno il padre è in grado di distinguere l'anello vero.

Felice, chiama i figli uno per uno,

impartisce a tutti e tre la sua benedizione,

a tutti e tre dona l'anello e muore.

Tu mi ascolti, sultano?



SALADINO

(il quale, colpito, aveva girato il viso)

Ascolto, ascolto.

Ma finisci presto La tua favola.



Ci sei?



NATHAN

Ho già finito.

Quel che segue si capisce da sé.

Morto il padre, ogni figlio si fa avanti

Con il suo anello, ogni figlio vuol essere Il signore del casato.

Si litiga, si indaga, si accusa. Invano.

Impossibile provare quale sia l'anello vero

(dopo una pausa, durante la quale egli attende la risposta del sultano)

quasi come per noi provare quale sia la vera fede.



SALADINO

Come?

Questa è la tua risposta alla mia domanda?…



NATHAN

Valga Soltanto a scusarmi,

se non oso

Cercare di distinguere gli anelli

Che il padre fece fare appunto al fine

Che fosse impossibile distinguerli.



SALADINO

Gli anelli! - Non burlarti di me!

Le religioni che ti ho nominato

Si possono distinguere persino

Nelle vesti, nei cibi, nelle bevande!



NATHAN

E tuttavia non nei fondamenti.

Non si fondano tutte sulla storia,

scritta o tramandata?

E la storia solo per fede e per fedeltà dev'essere accettata,

non è vero?

E di quale fede e fedeltà dubiteremo

Meno che di ogni altra?

Quella dei nostri avi, sangue del nostro sangue,

quella di coloro che dall'infanzia ci diedero prova del loro amore,

e che mai ci ingannarono, se l'inganno per noi non era salutare?

Posso io credere ai miei padri

Meno che tu ai tuoi?

O viceversa?

Posso forse pretendere che tu,

per non contraddire i miei padri,

accusi i tuoi di menzogna?

O viceversa?

E la stessa cosa vale per i cristiani, non è vero?



SALADINO

(Per il Dio vivente! Hai ragione. Io devo ammutolire).



NATHAN

Ma torniamo

Ai nostri anelli.

Come dicevo, i figli

Si accusarono in giudizio.

E ciascuno giurò al giudice di avere ricevuto

l'anello dalla mano del padre (ed era vero),

e molto tempo prima la promessa

dei privilegi concessi dall'anello

(ed era vero anche questo).

Il padre, ognuno se ne diceva certo,

non poteva averlo ingannato;

prima di sospettare questo,

diceva, di un padre tanto buono,

non poteva che accusare dell'inganno i suoi fratelli,

di cui pure era sempre stato pronto a pensare tutto il bene;

e si diceva sicuro di scoprire i traditori e pronto a vendicarsi.



SALADINO

E il giudice?

Sono ansioso di ascoltare

Che cosa farai dire al giudice.

Parla!



NATHAN

Il giudice disse: Portate subito

Qui vostro padre, o vi scaccerò

Dal mio cospetto.

Pensate che stia qui

A risolvere enigmi?

O volete restare

Finché l'anello vero parlerà?

Ma… aspettate!

Voi dite che l'anello vero

Ha il magico potere di rendere amati,

grati a Dio e agli uomini.

Sia questo a decidere!

Gli anelli falsi non potranno.

Su, ditemi: chi di voi è il più amato

Dagli altri due?

Avanti!

Voi tacete?

L'effetto degli anelli è solo riflessivo,

non transitivo?

Ciascuno di voi ama solo se stesso?

Allora tutti e tre siete truffatori truffati!

I vostri anelli sono falsi tutti e tre.

Probabilmente l'anello vero si perse,

e vostro padre ne fece fare tre per celarne la perdita e per sostituirlo.



SALADINO

Magnifico! Magnifico!



NATHAN

Se non volete, proseguì il giudice,

il mio consiglio e non una sentenza,

andatevene!

Ma il mio consiglio è questo:

accettate le cose come stanno.

Ognuno ebbe l'anello da suo padre:

ognuno sia sicuro che esso è autentico.

Vostro padre, forse, non era più disposto

A tollerare ancora in casa sua

La tirannia di un solo anello.

E certo Vi amò ugualmente tutti e tre.

Non volle, infatti, umiliare due di voi

Per favorirne uno.

Orsù! Sforzatevi

Di imitare il suo amore incorruttibile

E senza pregiudizi.

Ognuno faccia a gara

Per dimostrare alla luce del giorno

La virtù della pietra nel suo anello.

E aiuti la sua virtù con la dolcezza,

con indomita pazienza e carità,

e con profonda devozione a Dio.

Quando le virtù degli anelli appariranno

Nei nipoti, e nei nipoti dei nipoti,

io li invito a tornare in tribunale,

fra mille e mille anni.

Sul mio seggio siederà un uomo più saggio di me; e parlerà.

Andate!

Così disse quel giudice modesto.


lunedì 24 luglio 2006

L'ascia bipenne contro l'accanimento tecnologico

Ok, è ufficiale. Le nuove tecnologie si accaniscono contro di me per tutte le volte che ho preso in giro mia madre che neanche sa accendere il videoregistratore.



Ho quasi finito di prendere possesso del dominio, pagato e sorriso in vista di nuovi e corroboranti sviluppi (durante la serata Maura ha pure affibbiato una copia del numero giallo e speciale a Roberto Alaimo) ma la tecnologia, dicevo, si incaponisce.



La prima volta che il registro apposito m'ha comunicato che la LAR aveva linee illegibili ho sorriso, dico, capita. I fax di Bagheria andavano bene nel paleolitico, sfettucciano ancora con rumore di motosega.



Riprovo (e dato che la LAR consta di due fogli il prezzo lievita, 2,30 € per due fanno 4,60), la terza volta leggermente infastidito percorro mezza Bagheria sino a un quartiere sconosciuto, spedisco e pago, altri 2,50 €. Inutile.



Riprovo dall'altro capo della città, in un tabacchino fituso con un tabaccaio laido e informe e finalmente qualcosa arriva ma solo una pagina  su due. Chiedo aiuto al mio prode vicedirettore (che ha appena pubblicato un'altra  fetta del suo lavoro sugli anni di piombo), e ora aspetto.



Aspetto che questa dannata lettera di assunzione di responsabilità arrivi e arrivi bene prima che sfascio tutto col mio notorio savoir fare e un'ascia bipenne in perfetto stile He-Man.



Intanto Lo scrittore Fantasma ha inaugurato il suo rifugio dei Moai, (almeno lui ce l'ha fatta a prendere possesso di quello che gli spettava di diritto) e Cristiano ha pubblicato il nuovo sito del saturnismo, io sono stato promosso saturnista e pure saturnista evoluzionario: le mie opere ora sono qui. E ora le quattro lettere, etichettate tutte con un lugubre Failed





21 lug (3 giorni fa)

Gentile cliente,



la presente per informarLa che il Registro del ccTLD"it" ha respinto la

richiesta

del dominio in oggetto per il seguente motivo:







causa righe nere dati parzialmente leggibili



==



Fax transmission error (black lines), data partially legible







23 lug (1 giorno fa)

Gentile cliente,



la presente per informarLa che il Registro del ccTLD"it" ha respinto la

richiesta

del dominio in oggetto per il seguente motivo:







causa righe nere dati parzialmente leggibili



==



Fax transmission error (black lines), data partially legible



3) 4 ore fa

Gentile cliente,



la presente per informarLa che il Registro del ccTLD"it" ha respinto la

richiesta

del dominio in oggetto per il seguente motivo:







causa righe nere dati parzialmente leggibili. Lettera incompleta, manca una

pagina.



==



Letter incomplete , page missing.







4) 29 minuti fa

Gentile cliente,



la presente per informarLa che il Registro del ccTLD"it" ha respinto la

richiesta

del dominio in oggetto per il seguente motivo:



Causa interruzione trasmissione fax, la lettera è incompleta.



==



The letter is not complete due to a possible error in the fax

L'ascia bipenne contro l'accanimento tecnologico

Ok, è ufficiale. Le nuove tecnologie si accaniscono contro di me per tutte le volte che ho preso in giro mia madre che neanche sa accendere il videoregistratore.



Ho quasi finito di prendere possesso del dominio, pagato e sorriso in vista di nuovi e corroboranti sviluppi (durante la serata Maura ha pure affibbiato una copia del numero giallo e speciale a Roberto Alaimo) ma la tecnologia, dicevo, si incaponisce.



La prima volta che il registro apposito m'ha comunicato che la LAR aveva linee illegibili ho sorriso, dico, capita. I fax di Bagheria andavano bene nel paleolitico, sfettucciano ancora con rumore di motosega.



Riprovo (e dato che la LAR consta di due fogli il prezzo lievita, 2,30 € per due fanno 4,60), la terza volta leggermente infastidito percorro mezza Bagheria sino a un quartiere sconosciuto, spedisco e pago, altri 2,50 €. Inutile.



Riprovo dall'altro capo della città, in un tabacchino fituso con un tabaccaio laido e informe e finalmente qualcosa arriva ma solo una pagina  su due. Chiedo aiuto al mio prode vicedirettore (che ha appena pubblicato un'altra  fetta del suo lavoro sugli anni di piombo), e ora aspetto.



Aspetto che questa dannata lettera di assunzione di responsabilità arrivi e arrivi bene prima che sfascio tutto col mio notorio savoir fare e un'ascia bipenne in perfetto stile He-Man.



Intanto Lo scrittore Fantasma ha inaugurato il suo rifugio dei Moai, (almeno lui ce l'ha fatta a prendere possesso di quello che gli spettava di diritto) e Cristiano ha pubblicato il nuovo sito del saturnismo, io sono stato promosso saturnista e pure saturnista evoluzionario: le mie opere ora sono qui. E ora le quattro lettere, etichettate tutte con un lugubre Failed





21 lug (3 giorni fa)

Gentile cliente,



la presente per informarLa che il Registro del ccTLD"it" ha respinto la

richiesta

del dominio in oggetto per il seguente motivo:







causa righe nere dati parzialmente leggibili



==



Fax transmission error (black lines), data partially legible







23 lug (1 giorno fa)

Gentile cliente,



la presente per informarLa che il Registro del ccTLD"it" ha respinto la

richiesta

del dominio in oggetto per il seguente motivo:







causa righe nere dati parzialmente leggibili



==



Fax transmission error (black lines), data partially legible



3) 4 ore fa

Gentile cliente,



la presente per informarLa che il Registro del ccTLD"it" ha respinto la

richiesta

del dominio in oggetto per il seguente motivo:







causa righe nere dati parzialmente leggibili. Lettera incompleta, manca una

pagina.



==



Letter incomplete , page missing.







4) 29 minuti fa

Gentile cliente,



la presente per informarLa che il Registro del ccTLD"it" ha respinto la

richiesta

del dominio in oggetto per il seguente motivo:



Causa interruzione trasmissione fax, la lettera è incompleta.



==



The letter is not complete due to a possible error in the fax

Vinicio e un'estate senza pretese

Venerdì sono qui.  E poi fatalmente le cinque storie e la tesi mi conduranno alla fine dell'estate.

Vinicio e un'estate senza pretese

Venerdì sono qui.  E poi fatalmente le cinque storie e la tesi mi conduranno alla fine dell'estate.

Foto di notte


Le foto del banchetto di BombaSicilia e Kukuzze alla Notte dei mille racconti sono qui.

Abbiamo incontrato anche Tony Siino di Rosalio.it e anche lui ha scattato qualche altra foto.

Foto di notte


Le foto del banchetto di BombaSicilia e Kukuzze alla Notte dei mille racconti sono qui.

Abbiamo incontrato anche Tony Siino di Rosalio.it e anche lui ha scattato qualche altra foto.

venerdì 21 luglio 2006

PROUST NEL «GULAG». Letteratura e libertà

di ANTONIO SPADARO S.I.

© La Civiltà Cattolica 2006 III 145-150 quaderno 3746





1940: quindicimila ufficiali polacchi vengono imprigionati dai russi prima nel campo di Starobielsk e, successivamente, in quelli di Pawliszcew e Griazowietz; tra di essi c’è Joseph Czapski. Nato a Praga da una famiglia aristocratica polacca nel 1896, egli fu pittore, critico d’arte, grande lettore e conversatore brillante, vigoroso enfant terribile. Dopo l’invasione della Polonia da parte delle truppe tedesche è fatto prigioniero dai russi il 29 settembre 1939 per poi essere liberato nel ’41. Assieme ad altri 450 ufficiali scampò per caso all’orribile e gigantesco massacro di Katyn, perpetrato dalla polizia sovietica. L’esperienza della prigionia fu drammatica: promiscuità, fame, malattie: «Vedo ancora — scrive Czapski — i miei compagni ammucchiati sotto i ritratti di Marx, Engels e Lenin, sfiniti dopo una giornata di lavoro al freddo, con temperature che raggiungevano i quarantacinque gradi sotto zero»(1).



A questi uomini non restavano altro che la memoria e la ricchezza della cultura che essi portavano nel loro intimo come roccaforte inespugnabile di umanità: scienza, arte, architettura, letteratura, storia. Molti di loro decisero così di lottare contro il degrado spirituale e il decadimento fisico in una maniera singolare: avrebbero tenuto delle conferenze sulle loro rispettive passioni culturali per far trionfare la forza della vita. Che cosa sarà stato quel gelido refettorio di un ex convento trasformato in campo di concentramento, dove i prigionieri mangiavano e discutevano di argomenti ben lontani dalla miseria che li avvolgeva? E così, ricorda Czapski, «il dottor Ehrlich, un appassionato bibliofilo di Lvov, ci raccontò con raro senso evocativo la storia del libro; la storia dell’Inghilterra e la storia delle migrazioni dei popoli furono l’oggetto delle conferenze del reverendo Kamil Kantak di Pinsk, ex-redattore di un quotidiano di Gdansk e grande ammiratore di Mallarmé; il professor Siennicki, del Politecnico di Varsavia, ci parlò della storia dell’architettura, mentre il tenente Ostrowski, autore di un eccellente libro sull’alpinismo e protagonista di numerose scalate sulle Tatra, nel Caucaso e sulle Cordigliere, ci intrattenne sull’America del sud» (p. 16 s)(2).



Gustaw Herling — uno dei maggiori scrittori polacchi contemporanei — ha visto in questa iniziativa il segreto della forza interiore dei polacchi: «Le conversazioni così fedelmente riportate da Czapski, le discussioni, lezioni, preghiere cantate in coro, le celebrazioni di feste, tutto testimonia della resistenza polacca. Quante volte io stesso ho visto lo sguardo furioso del guardiano della mia prigione sovietica posarsi, attraverso lo spioncino, sul gruppo di miserabili che sorridevano gioiosamente, affamati eppure incrollabili, catturati ma che ancora serbavano la forza e il sapore della libertà»(3) (p. 84).



Il libro e le ali della libertà



In particolare, Czapski fece rivivere per i compagni di prigionia la sua lettura personale di Alla ricerca del tempo perduto, il capolavoro torrenziale di Marcel Proust(4). Il testo del suo intervento fu dettato e messo per iscritto perché doveva essere sottoposto alla censura del campo. Quando lasciò la Russia, l’autore lo portò con sé. Per questo anche noi oggi possiamo leggerlo(5). Czapski fece riaffiorare dalla memoria quest’opera immensa e la offrì, arricchita dalla propria rilettura personale, ai suoi compagni. Non poteva contare che sulle proprie memorie, mancando di ogni possibile ricorso al testo. Czapski aveva conosciuto l’opera proustiana perché, ammalatosi di febbre tifoidea, era stato costretto a letto per un’intera estate, condizione favorevole per scoprire l’opera che gli avrebbe provocato uno stupore che mai l’avrebbe abbandonato lungo il corso della vita. Certo, adesso quella che per Proust è una marchesa può diventare nel suo racconto una duchessa, un conte può diventare un barone, e un pranzo una cena. Ma, al di là del dettaglio, la sostanza è di immenso valore.



I libri di Proust — è lo stesso Czapski ad ammetterlo — di primo acchito «sembrano libri di un altro mondo, un’arte pomposa, ultraborghese, vieto snobismo» (p. 26). L’ufficiale polacco rivive quegli ambienti e quelle atmosfere: la camera dello scrittore tappezzata di sughero, l’universo dei salotti aristocratici… Così, infatti, scrive Edith de la Héronnière nella sua breve ma intensa introduzione: «Immaginate cosa poteva rappresentare la rievocazione del raffinato mondo dei salotti del faubourg Saint-Germain della fine del diciannovesimo secolo nel contesto di un campo di prigionia». Si può immaginare lo spirito e la capacità di questi uomini, e anche «la figura lunga e sottile di Czapski (era alto due metri), il suo modo istintivo e impetuoso di raccontare, facendo ampi gesti e battendo l’aria con le sue mani enormi» (p. 8). La lettura dell’ufficiale polacco entra nelle vene del testo. Abbatte ogni apparenza di vanità, applicando una profonda penetrazione psicologica e spirituale nelle pieghe dell’animo proustiano, chiedendosi quale possa essere l’essenza della sua creazione: «La lenta e dolorosa trasformazione dell’individuo passionale e assolutamente egoista in un uomo che si dona totalmente a un’opera che lo divora, lo distrugge, vivendo del suo stesso sangue, è un processo cui ogni creatore si trova di fronte. “Se il grano non muore”…» (p. 31).



Czapski scopre così un artista teso a cogliere ovunque associazioni e metafore. Non è il fatto nudo e crudo a ossessionare Proust, ma «le leggi segrete che lo reggono, è il desiderio di rendere palesi gli ingranaggi segreti e meno definiti dell’essere» (p. 45). Leggere Proust significa dunque realizzare con lui una fusione di sguardi, assumere la sua capacità di visione, pronta a cogliere significati, immagini, ricchezze di assonanze, come anche a rilevare tutti i particolari drammatici e comici di un evento, persino nei momenti più tragici della vita. Ecco il segreto di Proust: la «volontà di conoscere e comprendere gli stati d’animo più disparati, una capacità di scoprire nell’uomo più vile i gesti nobili al limite del sublime, e negli esseri più puri le reazioni più meschine». Così la sua opera agisce su di noi «come la vita filtrata e illuminata da una coscienza la cui precisione è infinitamente più grande della nostra» (p. 62). La pagina proustiana dunque è un luogo dove la conoscenza della realtà, della vita, assume una potenza non comune e un discernimento affilato.



Ed ecco così che il genio di Czapski non coglie alcuna discontinuità reale e profonda tra la Recherche e il gulag. A tal punto che le pagine più belle della sua relazione sono dedicate alle assonanze profonde, da lui colte con intuito spirituale, tra Proust e Pascal. Czapski è consapevole del fatto che questo accostamento stupirebbe tanti lettori proustiani, che anzi potrebbero sentirlo come paradossale. Di Pascal sono noti, infatti, l’atteggiamento profondamente religioso e l’indole ascetica: per quest’uomo, divorato dall’anelito dell’assoluto, era inaccettabile ogni cedimento sensuale. Proust, al contrario, appare a molti il prototipo della sensualità, colui che sapeva godere di tutto in maniera appassionata e raffinata. Due figure apparentemente opposte, dunque. Tuttavia Czapski dà ampia prova della vicinanza dei due spiriti. Innanzitutto dà una prova che è tutta dalla parte del lettore. Sì, è vero, mai viene nominata la parola «Dio», e sembra che tutto possa esserci tra le migliaia di pagine della Recherche tranne che la ricerca dell’assoluto, a favore invece dell’effimero. Nonostante ciò, scrive Czapski, e anzi «forse proprio per questo, una simile apoteosi di tutte le gioie passeggere della vita ci lascia in bocca un “pascaliano” gusto di cenere» (p. 64).



Il senso della vanitas pervade ogni apparenza gioiosa. La vanità delle relazioni mondane, così prive di qualità; la vanità dell’orgoglio aristocratico, che in definitiva non distingue la vera finezza dello stile dallo snobismo volgare; la vanità della giovinezza e della bellezza, rappresentata da Odette, donna sensuale e fatale, che da vecchia appare come idiota, rincantucciata nel salotto della figlia, mentre osserva attonita, sgomenta, il mondo feroce tirato a lucido; la vanità e la vacuità dell’essere celebri, e perfino la vanità dell’amore: il più grande amore del protagonista della Recherche è Albertine, eppure quando egli apprende durante un viaggio a Venezia della morte improvvisa dell’amica, vi presta appena attenzione perché un’altra lo ha toccato per un breve istante. Vanità delle vanità, tutto è vanità.



Proust, letto da Czapski, appare colui che ha saputo cantare profondamente e integralmente la seduzione della vanità. Tuttavia proprio fissando la vanità in tutti i suoi aspetti luccicanti, è riuscito a farne vedere con chiarezza l’intimo nulla.



Profondamente partecipi e belle le due pagine finali sulla morte di Proust: «Non poteva non capire che nel suo stato di salute lo sforzo enorme e febbrile che esigeva da lui la messa a punto della sua opera precipitava la morte. Ma aveva preso la sua decisione, non se ne curava e davvero la morte gli era divenuta indifferente» (p. 74). Egli voleva servire fino alla morte ciò che per lui rappresentava l’assoluto, cioè la sua creazione artistica: «E anche gli ultimi due volumi (Il tempo ritrovato) sono intessuti di lacrime di gioia, anch’essi sono l’inno di trionfo dell’uomo che ha venduto tutti i suoi beni per acquistare una sola perla preziosa e che ha soppesato tutto l’effimero, tutte le pene e tutta la vanità dei piaceri mondani, della giovinezza, della fama, dell’erotismo, in confronto alla gioia del creatore, di quest’essere che costruendo ogni frase, imbastendo e reimbastendo ogni pagina, è alla ricerca dell’assoluto che non raggiunge mai interamente e che d’altronde è impossibile raggiungere» (p. 64 s).



La tensione proustiana all’assoluto non è esplicitamente religiosa. Molte sue espressioni rivelano però la pacata esultanza di trovare una scrittura capace di «salvare» dal peccato, che consiste nella pesantezza di un legame alla terra avvertito come contrario alla natura umana. Si tratta di una salvezza estetica realizzata nella sublimazione artistica, che permette di concentrare gli occhi dell’anima sul bello e sul vero. Czapski, immerso nel buio e nel tormento del gulag, così prossimo alla possibilità di una morte atroce, appare sensibilissimo a ogni appello a una trascendenza. In Proust non trova quella della fede, ma quella dell’arte. Ma anche questa basta almeno a far comprendere che ogni idolo mondano è vanità.



L’opera vive nel lettore



Qual è dunque il senso di questo libretto? Esso custodisce un significato profondo: l’arte aiuta a vivere e, in particolare, permette di salvare l’umanità e il gusto dell’essere interiormente liberi, anche sotto la tirannia più aspra. È la lezione della grande letteratura. Così commenta l’autore: «La gioia di poter partecipare a un’impresa intellettuale in grado di dimostrarci che eravamo ancora capaci di pensare e reagire a realtà dello spirito che non avevano niente in comune con la nostra condizione di allora, trasfigurava ai nostri occhi quelle ore passate nel grande refettorio dell’ex convento, questa strana scuola clandestina dove rivivevamo un mondo che ci sembrava perduto per sempre» (p. 18).



In realtà in queste pagine è in ballo qualcosa di ancora più sottile: il senso della lettura e della critica letteraria. Il critico è sostanzialmente un lettore che legge per «professione». Egli «professa» la lettura. Czapski offre un modello. Egli parla di un libro che non ha sotto mano, ricordiamolo. Non può citarlo alla perfezione, né indicarne pagine e volumi. Deve affidarsi alla memoria, proprio quella memoria involontaria che era, secondo Proust, l’unica fonte di creazione artistica. Scava dunque nelle profondità di sé per recuperare immagini, situazioni, eventi, fidandosi del proprio rapporto col testo. L’opera vive in lui, e il suo significato prende corpo in un contesto di disumanità. Proprio questa «inabitazione» dell’opera genera il gesto critico. Se l’opera non vive nella coscienza di chi la legge, il commento critico resta qualcosa di esteriore o addirittura superfluo, futile. Leggendo la Recherche, Czapski legge se stesso, colloca l’opera all’interno di un rapporto singolare e la attualizza nel contesto, per sé assurdo, di un campo di concentramento(6). E ciò che il lettore italiano ha già ben presente grazie alla lezione dantesca, anch’essa senza testo sotto mano, di Primo Levi in Se questo è un uomo. Czapski fa capire che, se non vive nel territorio della vita e dei suoi significati, la letteratura è destinata a svanire. Il critico che si fa guidare dalle sue intuizioni e dal suo stile di approccio al testo sarà interessato a una letteratura che abbia la stessa qualità della vita.



Liberato dopo la firma dell’accordo tra i Governi russo e polacco nel 1941, si trasferisce nella Parigi di Proust, dove si dedica all’arte, dipingendo e scrivendo: essa sarà una condizione, uno stato di vita capace di svelare — come, con precisione, ha commentato de la Héronnière — la «vanità del mondo rispetto allo sforzo infinito per trovare la parola giusta dietro la quale sta l’indicibile» (p. 11).








1 J. CZAPSKI, La morte indifferente. Proust nel gulag, Napoli, L’Àncora del Mediterraneo, 2005, 17.



2 Leggendo le parole di Czapski tornano in mente tante immagini della grande letteratura, sino a quelle che lo scrittore Ray Bradbury ha impresso nel suo The Fireman, noto in Italia col titolo Fahrenheit 451, dal film omonimo che F. Trauffaut ha tratto da questo romanzo.



3 G. HERLING, «Nota su Joseph Czapski», in J. CZAPSKI, La morte indifferente…, cit., 84.



4 Cfr i nostri «Marcel Proust e la sapiente bellezza della lettura», in Civ. Catt. 1998 II 480-485 e «Proust e la Bibbia. La “Recherche” come pellegrinaggio», ivi, 1999 IV 154-157.



5 J. CZAPSKI, La morte indifferente…, cit. Le pagine citate nel testo si riferiscono a questo volume.



6 Per comprendere bene questa visione della critica è molto utile leggere La coscienza critica, una raccolta di saggi di Georges Poulet (Genova, Marietti, 1991). Scrive Poulet: è come se, «a partire dal momento in cui mi trovo “posseduto” dalla mia lettura, mi mettessi a condividere l’uso della mia coscienza con quell’essere che ho cercato di definire e che è il soggetto cosciente rintanato al centro dell’opera. Lui ed io cominciamo ad avere una coscienza in comune. […] Io sono coscienza stupita di un’esistenza che non è mia, e che tuttavia sperimento come se fosse mia. Questa coscienza stupita è la coscienza critica: coscienza del lettore, coscienza di un essere a cui è dato comprendere come suo qualcosa che avviene nella coscienza di un altro essere» (p. 241).




© La Civiltà Cattolica 2006 III 145-150 quaderno 3746

PROUST NEL «GULAG». Letteratura e libertà

di ANTONIO SPADARO S.I.

© La Civiltà Cattolica 2006 III 145-150 quaderno 3746





1940: quindicimila ufficiali polacchi vengono imprigionati dai russi prima nel campo di Starobielsk e, successivamente, in quelli di Pawliszcew e Griazowietz; tra di essi c’è Joseph Czapski. Nato a Praga da una famiglia aristocratica polacca nel 1896, egli fu pittore, critico d’arte, grande lettore e conversatore brillante, vigoroso enfant terribile. Dopo l’invasione della Polonia da parte delle truppe tedesche è fatto prigioniero dai russi il 29 settembre 1939 per poi essere liberato nel ’41. Assieme ad altri 450 ufficiali scampò per caso all’orribile e gigantesco massacro di Katyn, perpetrato dalla polizia sovietica. L’esperienza della prigionia fu drammatica: promiscuità, fame, malattie: «Vedo ancora — scrive Czapski — i miei compagni ammucchiati sotto i ritratti di Marx, Engels e Lenin, sfiniti dopo una giornata di lavoro al freddo, con temperature che raggiungevano i quarantacinque gradi sotto zero»(1).



A questi uomini non restavano altro che la memoria e la ricchezza della cultura che essi portavano nel loro intimo come roccaforte inespugnabile di umanità: scienza, arte, architettura, letteratura, storia. Molti di loro decisero così di lottare contro il degrado spirituale e il decadimento fisico in una maniera singolare: avrebbero tenuto delle conferenze sulle loro rispettive passioni culturali per far trionfare la forza della vita. Che cosa sarà stato quel gelido refettorio di un ex convento trasformato in campo di concentramento, dove i prigionieri mangiavano e discutevano di argomenti ben lontani dalla miseria che li avvolgeva? E così, ricorda Czapski, «il dottor Ehrlich, un appassionato bibliofilo di Lvov, ci raccontò con raro senso evocativo la storia del libro; la storia dell’Inghilterra e la storia delle migrazioni dei popoli furono l’oggetto delle conferenze del reverendo Kamil Kantak di Pinsk, ex-redattore di un quotidiano di Gdansk e grande ammiratore di Mallarmé; il professor Siennicki, del Politecnico di Varsavia, ci parlò della storia dell’architettura, mentre il tenente Ostrowski, autore di un eccellente libro sull’alpinismo e protagonista di numerose scalate sulle Tatra, nel Caucaso e sulle Cordigliere, ci intrattenne sull’America del sud» (p. 16 s)(2).



Gustaw Herling — uno dei maggiori scrittori polacchi contemporanei — ha visto in questa iniziativa il segreto della forza interiore dei polacchi: «Le conversazioni così fedelmente riportate da Czapski, le discussioni, lezioni, preghiere cantate in coro, le celebrazioni di feste, tutto testimonia della resistenza polacca. Quante volte io stesso ho visto lo sguardo furioso del guardiano della mia prigione sovietica posarsi, attraverso lo spioncino, sul gruppo di miserabili che sorridevano gioiosamente, affamati eppure incrollabili, catturati ma che ancora serbavano la forza e il sapore della libertà»(3) (p. 84).



Il libro e le ali della libertà



In particolare, Czapski fece rivivere per i compagni di prigionia la sua lettura personale di Alla ricerca del tempo perduto, il capolavoro torrenziale di Marcel Proust(4). Il testo del suo intervento fu dettato e messo per iscritto perché doveva essere sottoposto alla censura del campo. Quando lasciò la Russia, l’autore lo portò con sé. Per questo anche noi oggi possiamo leggerlo(5). Czapski fece riaffiorare dalla memoria quest’opera immensa e la offrì, arricchita dalla propria rilettura personale, ai suoi compagni. Non poteva contare che sulle proprie memorie, mancando di ogni possibile ricorso al testo. Czapski aveva conosciuto l’opera proustiana perché, ammalatosi di febbre tifoidea, era stato costretto a letto per un’intera estate, condizione favorevole per scoprire l’opera che gli avrebbe provocato uno stupore che mai l’avrebbe abbandonato lungo il corso della vita. Certo, adesso quella che per Proust è una marchesa può diventare nel suo racconto una duchessa, un conte può diventare un barone, e un pranzo una cena. Ma, al di là del dettaglio, la sostanza è di immenso valore.



I libri di Proust — è lo stesso Czapski ad ammetterlo — di primo acchito «sembrano libri di un altro mondo, un’arte pomposa, ultraborghese, vieto snobismo» (p. 26). L’ufficiale polacco rivive quegli ambienti e quelle atmosfere: la camera dello scrittore tappezzata di sughero, l’universo dei salotti aristocratici… Così, infatti, scrive Edith de la Héronnière nella sua breve ma intensa introduzione: «Immaginate cosa poteva rappresentare la rievocazione del raffinato mondo dei salotti del faubourg Saint-Germain della fine del diciannovesimo secolo nel contesto di un campo di prigionia». Si può immaginare lo spirito e la capacità di questi uomini, e anche «la figura lunga e sottile di Czapski (era alto due metri), il suo modo istintivo e impetuoso di raccontare, facendo ampi gesti e battendo l’aria con le sue mani enormi» (p. 8). La lettura dell’ufficiale polacco entra nelle vene del testo. Abbatte ogni apparenza di vanità, applicando una profonda penetrazione psicologica e spirituale nelle pieghe dell’animo proustiano, chiedendosi quale possa essere l’essenza della sua creazione: «La lenta e dolorosa trasformazione dell’individuo passionale e assolutamente egoista in un uomo che si dona totalmente a un’opera che lo divora, lo distrugge, vivendo del suo stesso sangue, è un processo cui ogni creatore si trova di fronte. “Se il grano non muore”…» (p. 31).



Czapski scopre così un artista teso a cogliere ovunque associazioni e metafore. Non è il fatto nudo e crudo a ossessionare Proust, ma «le leggi segrete che lo reggono, è il desiderio di rendere palesi gli ingranaggi segreti e meno definiti dell’essere» (p. 45). Leggere Proust significa dunque realizzare con lui una fusione di sguardi, assumere la sua capacità di visione, pronta a cogliere significati, immagini, ricchezze di assonanze, come anche a rilevare tutti i particolari drammatici e comici di un evento, persino nei momenti più tragici della vita. Ecco il segreto di Proust: la «volontà di conoscere e comprendere gli stati d’animo più disparati, una capacità di scoprire nell’uomo più vile i gesti nobili al limite del sublime, e negli esseri più puri le reazioni più meschine». Così la sua opera agisce su di noi «come la vita filtrata e illuminata da una coscienza la cui precisione è infinitamente più grande della nostra» (p. 62). La pagina proustiana dunque è un luogo dove la conoscenza della realtà, della vita, assume una potenza non comune e un discernimento affilato.



Ed ecco così che il genio di Czapski non coglie alcuna discontinuità reale e profonda tra la Recherche e il gulag. A tal punto che le pagine più belle della sua relazione sono dedicate alle assonanze profonde, da lui colte con intuito spirituale, tra Proust e Pascal. Czapski è consapevole del fatto che questo accostamento stupirebbe tanti lettori proustiani, che anzi potrebbero sentirlo come paradossale. Di Pascal sono noti, infatti, l’atteggiamento profondamente religioso e l’indole ascetica: per quest’uomo, divorato dall’anelito dell’assoluto, era inaccettabile ogni cedimento sensuale. Proust, al contrario, appare a molti il prototipo della sensualità, colui che sapeva godere di tutto in maniera appassionata e raffinata. Due figure apparentemente opposte, dunque. Tuttavia Czapski dà ampia prova della vicinanza dei due spiriti. Innanzitutto dà una prova che è tutta dalla parte del lettore. Sì, è vero, mai viene nominata la parola «Dio», e sembra che tutto possa esserci tra le migliaia di pagine della Recherche tranne che la ricerca dell’assoluto, a favore invece dell’effimero. Nonostante ciò, scrive Czapski, e anzi «forse proprio per questo, una simile apoteosi di tutte le gioie passeggere della vita ci lascia in bocca un “pascaliano” gusto di cenere» (p. 64).



Il senso della vanitas pervade ogni apparenza gioiosa. La vanità delle relazioni mondane, così prive di qualità; la vanità dell’orgoglio aristocratico, che in definitiva non distingue la vera finezza dello stile dallo snobismo volgare; la vanità della giovinezza e della bellezza, rappresentata da Odette, donna sensuale e fatale, che da vecchia appare come idiota, rincantucciata nel salotto della figlia, mentre osserva attonita, sgomenta, il mondo feroce tirato a lucido; la vanità e la vacuità dell’essere celebri, e perfino la vanità dell’amore: il più grande amore del protagonista della Recherche è Albertine, eppure quando egli apprende durante un viaggio a Venezia della morte improvvisa dell’amica, vi presta appena attenzione perché un’altra lo ha toccato per un breve istante. Vanità delle vanità, tutto è vanità.



Proust, letto da Czapski, appare colui che ha saputo cantare profondamente e integralmente la seduzione della vanità. Tuttavia proprio fissando la vanità in tutti i suoi aspetti luccicanti, è riuscito a farne vedere con chiarezza l’intimo nulla.



Profondamente partecipi e belle le due pagine finali sulla morte di Proust: «Non poteva non capire che nel suo stato di salute lo sforzo enorme e febbrile che esigeva da lui la messa a punto della sua opera precipitava la morte. Ma aveva preso la sua decisione, non se ne curava e davvero la morte gli era divenuta indifferente» (p. 74). Egli voleva servire fino alla morte ciò che per lui rappresentava l’assoluto, cioè la sua creazione artistica: «E anche gli ultimi due volumi (Il tempo ritrovato) sono intessuti di lacrime di gioia, anch’essi sono l’inno di trionfo dell’uomo che ha venduto tutti i suoi beni per acquistare una sola perla preziosa e che ha soppesato tutto l’effimero, tutte le pene e tutta la vanità dei piaceri mondani, della giovinezza, della fama, dell’erotismo, in confronto alla gioia del creatore, di quest’essere che costruendo ogni frase, imbastendo e reimbastendo ogni pagina, è alla ricerca dell’assoluto che non raggiunge mai interamente e che d’altronde è impossibile raggiungere» (p. 64 s).



La tensione proustiana all’assoluto non è esplicitamente religiosa. Molte sue espressioni rivelano però la pacata esultanza di trovare una scrittura capace di «salvare» dal peccato, che consiste nella pesantezza di un legame alla terra avvertito come contrario alla natura umana. Si tratta di una salvezza estetica realizzata nella sublimazione artistica, che permette di concentrare gli occhi dell’anima sul bello e sul vero. Czapski, immerso nel buio e nel tormento del gulag, così prossimo alla possibilità di una morte atroce, appare sensibilissimo a ogni appello a una trascendenza. In Proust non trova quella della fede, ma quella dell’arte. Ma anche questa basta almeno a far comprendere che ogni idolo mondano è vanità.



L’opera vive nel lettore



Qual è dunque il senso di questo libretto? Esso custodisce un significato profondo: l’arte aiuta a vivere e, in particolare, permette di salvare l’umanità e il gusto dell’essere interiormente liberi, anche sotto la tirannia più aspra. È la lezione della grande letteratura. Così commenta l’autore: «La gioia di poter partecipare a un’impresa intellettuale in grado di dimostrarci che eravamo ancora capaci di pensare e reagire a realtà dello spirito che non avevano niente in comune con la nostra condizione di allora, trasfigurava ai nostri occhi quelle ore passate nel grande refettorio dell’ex convento, questa strana scuola clandestina dove rivivevamo un mondo che ci sembrava perduto per sempre» (p. 18).



In realtà in queste pagine è in ballo qualcosa di ancora più sottile: il senso della lettura e della critica letteraria. Il critico è sostanzialmente un lettore che legge per «professione». Egli «professa» la lettura. Czapski offre un modello. Egli parla di un libro che non ha sotto mano, ricordiamolo. Non può citarlo alla perfezione, né indicarne pagine e volumi. Deve affidarsi alla memoria, proprio quella memoria involontaria che era, secondo Proust, l’unica fonte di creazione artistica. Scava dunque nelle profondità di sé per recuperare immagini, situazioni, eventi, fidandosi del proprio rapporto col testo. L’opera vive in lui, e il suo significato prende corpo in un contesto di disumanità. Proprio questa «inabitazione» dell’opera genera il gesto critico. Se l’opera non vive nella coscienza di chi la legge, il commento critico resta qualcosa di esteriore o addirittura superfluo, futile. Leggendo la Recherche, Czapski legge se stesso, colloca l’opera all’interno di un rapporto singolare e la attualizza nel contesto, per sé assurdo, di un campo di concentramento(6). E ciò che il lettore italiano ha già ben presente grazie alla lezione dantesca, anch’essa senza testo sotto mano, di Primo Levi in Se questo è un uomo. Czapski fa capire che, se non vive nel territorio della vita e dei suoi significati, la letteratura è destinata a svanire. Il critico che si fa guidare dalle sue intuizioni e dal suo stile di approccio al testo sarà interessato a una letteratura che abbia la stessa qualità della vita.



Liberato dopo la firma dell’accordo tra i Governi russo e polacco nel 1941, si trasferisce nella Parigi di Proust, dove si dedica all’arte, dipingendo e scrivendo: essa sarà una condizione, uno stato di vita capace di svelare — come, con precisione, ha commentato de la Héronnière — la «vanità del mondo rispetto allo sforzo infinito per trovare la parola giusta dietro la quale sta l’indicibile» (p. 11).








1 J. CZAPSKI, La morte indifferente. Proust nel gulag, Napoli, L’Àncora del Mediterraneo, 2005, 17.



2 Leggendo le parole di Czapski tornano in mente tante immagini della grande letteratura, sino a quelle che lo scrittore Ray Bradbury ha impresso nel suo The Fireman, noto in Italia col titolo Fahrenheit 451, dal film omonimo che F. Trauffaut ha tratto da questo romanzo.



3 G. HERLING, «Nota su Joseph Czapski», in J. CZAPSKI, La morte indifferente…, cit., 84.



4 Cfr i nostri «Marcel Proust e la sapiente bellezza della lettura», in Civ. Catt. 1998 II 480-485 e «Proust e la Bibbia. La “Recherche” come pellegrinaggio», ivi, 1999 IV 154-157.



5 J. CZAPSKI, La morte indifferente…, cit. Le pagine citate nel testo si riferiscono a questo volume.



6 Per comprendere bene questa visione della critica è molto utile leggere La coscienza critica, una raccolta di saggi di Georges Poulet (Genova, Marietti, 1991). Scrive Poulet: è come se, «a partire dal momento in cui mi trovo “posseduto” dalla mia lettura, mi mettessi a condividere l’uso della mia coscienza con quell’essere che ho cercato di definire e che è il soggetto cosciente rintanato al centro dell’opera. Lui ed io cominciamo ad avere una coscienza in comune. […] Io sono coscienza stupita di un’esistenza che non è mia, e che tuttavia sperimento come se fosse mia. Questa coscienza stupita è la coscienza critica: coscienza del lettore, coscienza di un essere a cui è dato comprendere come suo qualcosa che avviene nella coscienza di un altro essere» (p. 241).




© La Civiltà Cattolica 2006 III 145-150 quaderno 3746

Appunti per recuperare novelle

Scrive l'autore de-titolato:



La domanda che mi sorge spontanea è riusciremo ad andare oltre Carver?



è da un po' che me lo chiedo scrivendo.



è un periodo, ormai da maggio, che mi sono messo giù a scrivere e una delle cose che mi torna più insistente è che in un certo senso devo uscire io, ma forse noi tutti, dal carverismo.



come bisogna uscire dal bukowskismo, che è una variante del carversimo.



e non so perché mi viene in mente che l'uscita di tutto questo è guardare indietro alla nostra tradizione, che ha del racconto un'altra idea, diversa da quella anglosassone.



bisogna prendere le novelle: quelle rinascimentali, quelle ottocentesche (partendo dalle Operette Morali fino al Verga) e quelle finali e ultime di Pirandello.



lì forse c'è qualcosa di diverso dal carversimo.



è una idea uno spunto di discussione.

torno in laboratorio.

Appunti per recuperare novelle

Scrive l'autore de-titolato:



La domanda che mi sorge spontanea è riusciremo ad andare oltre Carver?



è da un po' che me lo chiedo scrivendo.



è un periodo, ormai da maggio, che mi sono messo giù a scrivere e una delle cose che mi torna più insistente è che in un certo senso devo uscire io, ma forse noi tutti, dal carverismo.



come bisogna uscire dal bukowskismo, che è una variante del carversimo.



e non so perché mi viene in mente che l'uscita di tutto questo è guardare indietro alla nostra tradizione, che ha del racconto un'altra idea, diversa da quella anglosassone.



bisogna prendere le novelle: quelle rinascimentali, quelle ottocentesche (partendo dalle Operette Morali fino al Verga) e quelle finali e ultime di Pirandello.



lì forse c'è qualcosa di diverso dal carversimo.



è una idea uno spunto di discussione.

torno in laboratorio.

giovedì 20 luglio 2006

Anche le Kukuzze si maritano

Ieri gli altri due soci fondatori delle Kukuzze si sono sposati. G1ga e lilu era abbaglianti, belli come non mai, gli occhi azzurri di g1ga non li avevo mai visti così limpidi.

Sì, ho pianto, e ha pianto pure lei.

E siccome la dieta va avanti e alla foto prima-dopo manca ancora un po', ecco la foto prima e durante.



E sulla scia inaugurata da loro, anche noi ci mettiamo in posa...



Anche le Kukuzze si maritano

Ieri gli altri due soci fondatori delle Kukuzze si sono sposati. G1ga e lilu era abbaglianti, belli come non mai, gli occhi azzurri di g1ga non li avevo mai visti così limpidi.

Sì, ho pianto, e ha pianto pure lei.

E siccome la dieta va avanti e alla foto prima-dopo manca ancora un po', ecco la foto prima e durante.



E sulla scia inaugurata da loro, anche noi ci mettiamo in posa...



lunedì 17 luglio 2006

Speranza nel passato. Su Walter Benjamin

di Peter Szondi





Il libro di Walter Benjamin dedicato alla memoria, Infanzia berlinese intorno al 1900, si apre con le seguenti parole: “Non sapersi orientare in una città non vuol dire molto. Ma smarrirsi in una città come ci si smarrisce in una foresta è una cosa tutta da imparare. I nomi delle strade devono suonare, allora, all’orecchio dell’errabondo come lo scricchiolio dei rami secchi, e le viuzze interne gli devono scandire senza incertezze, come le gole montane, le ore del giorno.

Tardi ho appreso quest’arte; essa ha coronato il sogno, i primi segni del quale furono i labirinti che arabescavano le carte assorbenti dei miei quaderni. No, non i primi, poiché li precedette quell’altro, che ad essi è sopravvissuto. La strada per questo labirinto, cui non è mancata la sua Arianna, passava sul ponte Blender, il cui dolce arco fu per me la prima curva di collina.

Non lontano di lì era la meta: Friedrich Wilhelm e la regina Luise. Sui loro tondi piedistalli si levavano dalle aiuole come se le magiche curve tracciate intorno a loro nella sabbia da un corso d’acqua li avessero imprigionati.

Più ancora che i regnanti mi attiravano i piedistalli, perché le scene che vi si trovavano rappresentate, anche se il contesto non era chiaro, erano più facilmente accessibili. Che in questo vagabondare fosse celato qualcosa, lo avvertii sin dal primo momento nell’ampio, banale spiazzo, che per nulla lasciava presagire come lì, solo a pochi passi dal corso delle vetture e delle carrozze, dormisse la parte più particolare del parco. Già molto presto me ne fu dato un segno.

Appunto lì, o non lontano, deve aver avuto la sua dimora quell’Arianna alla cui presenza per la prima volta, e per non dimenticarlo mai più, avvertii ciò di cui solo più tardi imparai il nome: amore” 1.




L’Infanzia berlinese è nata negli anni dopo il 1930. Benjamin ne fece pubblicare alcune parti su giornali; l’opera apparve nella sua interezza solo nel 1950, dieci anni dopo la morte di Benjamin. Questo libro, una delle più belle composizioni in prosa del nostro tempo, è rimasto a lungo quasi sconosciuto.





1 W. Benjamin, Berliner Kindheit um Neunzehnhundert, Francoforte 1950, p. 9 sg., tr. it. di Marisa Bertolini

Peruzzi, Infanzia berlinese, Torino 1981, p. 9 (le traduzioni riportate sono a volte leggermente modificate

rispetto a quelle citate).



Aut Aut, n. 189-190 [maggio-agosto 1982]

Il testo completo è disponibile in formato pdf nel sito del Centro studi Walter Benjamin



[Diavolo di un Genna! Uno pensa di aver scovato una perla rara per poi scoprire che il testo è stato pure pubblicato su I Miserabili]

Angelus Novus




C’è un quadro di Klee che si chiama Angelus Novus. Vi è rappresentato un angelo che sembra in procinto di allontanarsi da qualcosa su cui ha fisso lo sguardo. I suoi occhi sono spalancati, la bocca è aperta, e le ali sono dispiegate.

L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Là dove davanti a noi appare una catena di avvenimenti, egli vede un’unica catastrofe, che ammassa incessantemente macerie su macerie e le scaraventa ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e riconnettere i frantumi.

Ma dal paradiso soffia una bufera, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che l’angelo non può più chiuderle. Questa bufera lo spinge inarrestabilmente nel futuro, a cui egli volge le spalle, mentre cresce verso il cielo il cumulo delle macerie davanti a lui. Ciò che noi chiamiamo il progresso, è questa bufera.




W. Benjamin, Tesi sul concetto di storia, Einaudi, Torino 1997, pp. 35-7



L'incarnazione che genera il gesto critico

di Antonio Spadaro



È il 1940: quindicimila ufficiali polacchi vengono imprigionati dai russi in campi di concentramento. Joseph Czapski è tra questi. Nato a Praga da una famiglia aristocratica polacca nel 1896, egli fu pittore, critico d’arte, grande lettore e conversatore brillante, vigoroso enfant terribile. Dopo l’invasione della Polonia da parte delle truppe tedesche egli è fatto prigioniero dai russi il 29 settembre 1939 per poi essere liberato nel ’41. Assieme ad altri 450 ufficiali scampò per caso all’orribile e gigantesco massacro di Katyn, perpetrato dalla polizia sovietica. L’esperienza della prigionia fu drammatica: promiscuità, fame, malattie.



A Czapski e ai suoi compagni non restavano altro che la memoria e la ricchezza della cultura che essi portavano nel loro intimo come roccaforte inespugnabile di umanità: scienza, arte, architettura, letteratura, storia. Molti di loro decisero così di lottare contro il degrado spirituale e il decadimento fisico in una maniera singolare: avrebbero tenuto delle conferenze sulle loro rispettive passioni culturali per far trionfare la forza della vita.



In particolare, Czapski fece rivivere per i compagni di prigionia la sua lettura personale de Alla ricerca del tempo perduto, il capolavoro torrenziale di Marcel Proust. Il testo del suo intervento fu dettato e messo per iscritto perché doveva essere sottoposto alla censura del campo. Quando lasciò la Russia, l’autore lo portò con sé. Per questo anche noi oggi possiamo leggerlo (J. CZAPSKI, La morte indifferente. Proust nel gulag, Napoli, L’Ancora del Mediteraneo, 2005.).



Immaginate cosa poteva rappresentare la rievocazione del raffinato mondo dei salotti del faubourg Saint-Germain della fine del diciannovesimo secolo nel contesto di un campo di prigionia. La lettura dell’ufficiale polacco entra nelle vene del testo. Esso custodisce un significato profondo: l’arte aiuta a vivere e, in particolare, permette di salvare l’umanità e il gusto dell’essere interiormente liberi, anche sotto la tirannia più aspra. È la lezione della grande letteratura. Così commenta l’autore: «La gioia di poter partecipare a un’impresa intellettuale in grado di dimostrarci che eravamo ancora capaci di pensare e reagire a realtà dello spirito che non avevano niente in comune con la nostra condizione di allora, trasfigurava ai nostri occhi quelle ore passate nel grande refettorio dell’ex convento, questa strana scuola clandestina dove rivivevamo un mondo che ci sembrava perduto per sempre» (p. 18).



In realtà in questa esperienza è in ballo qualcosa di decisivo: il senso della lettura e della critica letteraria. Il critico è un uomo che «professa» la lettura. Czapski ci offre un modello. Egli parla di un libro che non ha sotto mano, ricordiamolo. Non può citarlo alla perfezione, né indicarne pagine e volumi. Deve affidarsi alla memoria. Scava dunque nelle profondità di sé per recuperare immagini, situazioni, eventi, fidandosi del proprio rapporto col testo. L’opera vive in lui e il suo significato prende corpo in un contesto di disumanità. Proprio questa «inabitazione» o «incarnazione» dell’opera genera il gesto critico. Se l’opera non vive nella coscienza di chi la legge, il commento critico resta qualcosa di esteriore o addirittura di superfluo, futile. Leggendo la Recherche, Czapski legge se stesso, colloca l’opera all’interno di un rapporto singolare e la attualizza nel contesto, per sé assurdo, di un campo di concentramento. Czapski ci fa capire che se la letteratura non vive nel territorio della vita e dei suoi significati, essa è destinata a svanire.



[tratto dalla presentazione del volume La letteratura tra realtà e fantasia. Atti del Convegno. Reggio Calabria, 25-26 febbraio 2005, Reggio Calabria, Laruffa, 2005. Salone della Provincia di Reggio Calabria, 28 ottobre 2005. Il testo completo dell'intervento si può leggere o ascoltare.] [ho già pubblicato questo pezzo su Vibrisse]

Speranza nel passato. Su Walter Benjamin

di Peter Szondi





Il libro di Walter Benjamin dedicato alla memoria, Infanzia berlinese intorno al 1900, si apre con le seguenti parole: “Non sapersi orientare in una città non vuol dire molto. Ma smarrirsi in una città come ci si smarrisce in una foresta è una cosa tutta da imparare. I nomi delle strade devono suonare, allora, all’orecchio dell’errabondo come lo scricchiolio dei rami secchi, e le viuzze interne gli devono scandire senza incertezze, come le gole montane, le ore del giorno.

Tardi ho appreso quest’arte; essa ha coronato il sogno, i primi segni del quale furono i labirinti che arabescavano le carte assorbenti dei miei quaderni. No, non i primi, poiché li precedette quell’altro, che ad essi è sopravvissuto. La strada per questo labirinto, cui non è mancata la sua Arianna, passava sul ponte Blender, il cui dolce arco fu per me la prima curva di collina.

Non lontano di lì era la meta: Friedrich Wilhelm e la regina Luise. Sui loro tondi piedistalli si levavano dalle aiuole come se le magiche curve tracciate intorno a loro nella sabbia da un corso d’acqua li avessero imprigionati.

Più ancora che i regnanti mi attiravano i piedistalli, perché le scene che vi si trovavano rappresentate, anche se il contesto non era chiaro, erano più facilmente accessibili. Che in questo vagabondare fosse celato qualcosa, lo avvertii sin dal primo momento nell’ampio, banale spiazzo, che per nulla lasciava presagire come lì, solo a pochi passi dal corso delle vetture e delle carrozze, dormisse la parte più particolare del parco. Già molto presto me ne fu dato un segno.

Appunto lì, o non lontano, deve aver avuto la sua dimora quell’Arianna alla cui presenza per la prima volta, e per non dimenticarlo mai più, avvertii ciò di cui solo più tardi imparai il nome: amore” 1.




L’Infanzia berlinese è nata negli anni dopo il 1930. Benjamin ne fece pubblicare alcune parti su giornali; l’opera apparve nella sua interezza solo nel 1950, dieci anni dopo la morte di Benjamin. Questo libro, una delle più belle composizioni in prosa del nostro tempo, è rimasto a lungo quasi sconosciuto.





1 W. Benjamin, Berliner Kindheit um Neunzehnhundert, Francoforte 1950, p. 9 sg., tr. it. di Marisa Bertolini

Peruzzi, Infanzia berlinese, Torino 1981, p. 9 (le traduzioni riportate sono a volte leggermente modificate

rispetto a quelle citate).



Aut Aut, n. 189-190 [maggio-agosto 1982]

Il testo completo è disponibile in formato pdf nel sito del Centro studi Walter Benjamin



[Diavolo di un Genna! Uno pensa di aver scovato una perla rara per poi scoprire che il testo è stato pure pubblicato su I Miserabili]

Angelus Novus




C’è un quadro di Klee che si chiama Angelus Novus. Vi è rappresentato un angelo che sembra in procinto di allontanarsi da qualcosa su cui ha fisso lo sguardo. I suoi occhi sono spalancati, la bocca è aperta, e le ali sono dispiegate.

L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Là dove davanti a noi appare una catena di avvenimenti, egli vede un’unica catastrofe, che ammassa incessantemente macerie su macerie e le scaraventa ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e riconnettere i frantumi.

Ma dal paradiso soffia una bufera, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che l’angelo non può più chiuderle. Questa bufera lo spinge inarrestabilmente nel futuro, a cui egli volge le spalle, mentre cresce verso il cielo il cumulo delle macerie davanti a lui. Ciò che noi chiamiamo il progresso, è questa bufera.




W. Benjamin, Tesi sul concetto di storia, Einaudi, Torino 1997, pp. 35-7



L'incarnazione che genera il gesto critico

di Antonio Spadaro



È il 1940: quindicimila ufficiali polacchi vengono imprigionati dai russi in campi di concentramento. Joseph Czapski è tra questi. Nato a Praga da una famiglia aristocratica polacca nel 1896, egli fu pittore, critico d’arte, grande lettore e conversatore brillante, vigoroso enfant terribile. Dopo l’invasione della Polonia da parte delle truppe tedesche egli è fatto prigioniero dai russi il 29 settembre 1939 per poi essere liberato nel ’41. Assieme ad altri 450 ufficiali scampò per caso all’orribile e gigantesco massacro di Katyn, perpetrato dalla polizia sovietica. L’esperienza della prigionia fu drammatica: promiscuità, fame, malattie.



A Czapski e ai suoi compagni non restavano altro che la memoria e la ricchezza della cultura che essi portavano nel loro intimo come roccaforte inespugnabile di umanità: scienza, arte, architettura, letteratura, storia. Molti di loro decisero così di lottare contro il degrado spirituale e il decadimento fisico in una maniera singolare: avrebbero tenuto delle conferenze sulle loro rispettive passioni culturali per far trionfare la forza della vita.



In particolare, Czapski fece rivivere per i compagni di prigionia la sua lettura personale de Alla ricerca del tempo perduto, il capolavoro torrenziale di Marcel Proust. Il testo del suo intervento fu dettato e messo per iscritto perché doveva essere sottoposto alla censura del campo. Quando lasciò la Russia, l’autore lo portò con sé. Per questo anche noi oggi possiamo leggerlo (J. CZAPSKI, La morte indifferente. Proust nel gulag, Napoli, L’Ancora del Mediteraneo, 2005.).



Immaginate cosa poteva rappresentare la rievocazione del raffinato mondo dei salotti del faubourg Saint-Germain della fine del diciannovesimo secolo nel contesto di un campo di prigionia. La lettura dell’ufficiale polacco entra nelle vene del testo. Esso custodisce un significato profondo: l’arte aiuta a vivere e, in particolare, permette di salvare l’umanità e il gusto dell’essere interiormente liberi, anche sotto la tirannia più aspra. È la lezione della grande letteratura. Così commenta l’autore: «La gioia di poter partecipare a un’impresa intellettuale in grado di dimostrarci che eravamo ancora capaci di pensare e reagire a realtà dello spirito che non avevano niente in comune con la nostra condizione di allora, trasfigurava ai nostri occhi quelle ore passate nel grande refettorio dell’ex convento, questa strana scuola clandestina dove rivivevamo un mondo che ci sembrava perduto per sempre» (p. 18).



In realtà in questa esperienza è in ballo qualcosa di decisivo: il senso della lettura e della critica letteraria. Il critico è un uomo che «professa» la lettura. Czapski ci offre un modello. Egli parla di un libro che non ha sotto mano, ricordiamolo. Non può citarlo alla perfezione, né indicarne pagine e volumi. Deve affidarsi alla memoria. Scava dunque nelle profondità di sé per recuperare immagini, situazioni, eventi, fidandosi del proprio rapporto col testo. L’opera vive in lui e il suo significato prende corpo in un contesto di disumanità. Proprio questa «inabitazione» o «incarnazione» dell’opera genera il gesto critico. Se l’opera non vive nella coscienza di chi la legge, il commento critico resta qualcosa di esteriore o addirittura di superfluo, futile. Leggendo la Recherche, Czapski legge se stesso, colloca l’opera all’interno di un rapporto singolare e la attualizza nel contesto, per sé assurdo, di un campo di concentramento. Czapski ci fa capire che se la letteratura non vive nel territorio della vita e dei suoi significati, essa è destinata a svanire.



[tratto dalla presentazione del volume La letteratura tra realtà e fantasia. Atti del Convegno. Reggio Calabria, 25-26 febbraio 2005, Reggio Calabria, Laruffa, 2005. Salone della Provincia di Reggio Calabria, 28 ottobre 2005. Il testo completo dell'intervento si può leggere o ascoltare.] [ho già pubblicato questo pezzo su Vibrisse]

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