mercoledì 30 aprile 2003

Se desidero un'acqua d'Europa, è la pozzanghera
nera e gelida, quando, nell'ora del crepuscolo,
un bimbo malinconico abbandona, in ginocchio,
un battello leggero come farfalla a maggio.


Rimbaud - Il battello ebbro


 


Rimbaud -Deliri II. Alchimia del verbo -da Una stagione all'inferno

Divenni un'opera favolosa: vidi che tutti gli esseri hanno un destino di felicità: l'azione non è la vita, ma un modo di sprecare una qualche forza, uno snervarsi. La morale è la fiacchezza del cervello.
A ogni essere, mi sembravano dovute molte altre vite. Quel signore non sa ciò fa: è un angelo. Questa famiglia è una covata di cani. Di fronte a molti uomini, parlai ad alta voce con un istante di una delle loro altre vite. - Fu così che amai un porco.
Nessuno dei sofismi della follia, - la follia da manicomio, - fu da me dimenticato: potrei ripeterli tutti, detengo il sistema.
La mia salute fu minacciata. Giungeva il terrore. Sprofondavo in sonni di giorni e giorni, e, alzato, continuavo i sogni più tristi. Ero maturo per il trapasso, e lungo una via di rischi la mia debolezza mi conduceva ai confini del mondo e della Cimmeria, patria d'ombra e dei gorghi.
Fui costretto a viaggiare, distrarre gli incantesimi adunati nel mio cervello. Sul mare, che amavo come se avesse dovuto lavarmi da un'immondezza, vedevo levarsi la croce consolatrice. Ero stato dannato dall'arcobaleno. La Felicità era la mia fatalità, il mio rimorso, il mio verme: la mia vita sarebbe stata sempre troppo immensa per dedicarsi alla forza e alla bellezza.
La Felicità! Il suo dente, dolce da morire, mi avvertiva al canto del gallo, - ad matutinum, al Christus venit, - nelle città più oscure...

Se desidero un'acqua d'Europa, è la pozzanghera
nera e gelida, quando, nell'ora del crepuscolo,
un bimbo malinconico abbandona, in ginocchio,
un battello leggero come farfalla a maggio.


Rimbaud - Il battello ebbro


 


Rimbaud -Deliri II. Alchimia del verbo -da Una stagione all'inferno

Divenni un'opera favolosa: vidi che tutti gli esseri hanno un destino di felicità: l'azione non è la vita, ma un modo di sprecare una qualche forza, uno snervarsi. La morale è la fiacchezza del cervello.
A ogni essere, mi sembravano dovute molte altre vite. Quel signore non sa ciò fa: è un angelo. Questa famiglia è una covata di cani. Di fronte a molti uomini, parlai ad alta voce con un istante di una delle loro altre vite. - Fu così che amai un porco.
Nessuno dei sofismi della follia, - la follia da manicomio, - fu da me dimenticato: potrei ripeterli tutti, detengo il sistema.
La mia salute fu minacciata. Giungeva il terrore. Sprofondavo in sonni di giorni e giorni, e, alzato, continuavo i sogni più tristi. Ero maturo per il trapasso, e lungo una via di rischi la mia debolezza mi conduceva ai confini del mondo e della Cimmeria, patria d'ombra e dei gorghi.
Fui costretto a viaggiare, distrarre gli incantesimi adunati nel mio cervello. Sul mare, che amavo come se avesse dovuto lavarmi da un'immondezza, vedevo levarsi la croce consolatrice. Ero stato dannato dall'arcobaleno. La Felicità era la mia fatalità, il mio rimorso, il mio verme: la mia vita sarebbe stata sempre troppo immensa per dedicarsi alla forza e alla bellezza.
La Felicità! Il suo dente, dolce da morire, mi avvertiva al canto del gallo, - ad matutinum, al Christus venit, - nelle città più oscure...

martedì 29 aprile 2003

Boe: Bar Boe! Pronto, chi parla? -


Bart: Pronto? Vorrei parlare con Cool, di nome fa Lou -


Boe: Aspetta che vedo... Lou Cool, Lou Cool?! C'è uno al telefono che vuole Lou Cool! -


Boe: Stammi a sentire, piccolo vomito schifoso, un giorno di questi ti acchiappo e ti incido il mio nome sulla schiena con una piccozza!


(ormai il delirio...)

Boe: Bar Boe! Pronto, chi parla? -


Bart: Pronto? Vorrei parlare con Cool, di nome fa Lou -


Boe: Aspetta che vedo... Lou Cool, Lou Cool?! C'è uno al telefono che vuole Lou Cool! -


Boe: Stammi a sentire, piccolo vomito schifoso, un giorno di questi ti acchiappo e ti incido il mio nome sulla schiena con una piccozza!


(ormai il delirio...)

Parlano di me sul forum della casa editrice Fernandel


Giornata fiacca, la febbre si è stabilizzata. Calo 2 antibiotici al giorno e quasi quasi m'attacco alla tv e mi lascio scivolare sino alla camera 237 dell'Overlook Hotel. Letto il numero 200 di Dylan Dog, ridicolo! Si poteva evitare, i disegni di BB sono fantastici e i colori sono magici ma la sceneggiatura sembra una puntata di una telenovela, il figlio dell'ispettore Bloch, un drogato geloso dell'affetto del vecchio per Dylan, il campanello e il galeone venduti da Hamlin! L'unica cosa bella è Groucho, pimpante ed effervescente che dorme dentro un baule!


Assioma di Ducharme:
Se osservi abbastanza attentamente il tuo problema ti accorgerai di essere parte del problema.


From Guido "Ti spedisco alcuni bei versi su cui riflettere,


I had a false belief

I thought I came here to stay

we're all just visiting

all just breaking like waves

The oceans made me

but who came up with love?


Push me, Pull me, or Put me out


ma non ti dico chi è l'autore, se t'interessa prova a scoprirlo da solo o mettilo come verso della settimana"

Parlano di me sul forum della casa editrice Fernandel


Giornata fiacca, la febbre si è stabilizzata. Calo 2 antibiotici al giorno e quasi quasi m'attacco alla tv e mi lascio scivolare sino alla camera 237 dell'Overlook Hotel. Letto il numero 200 di Dylan Dog, ridicolo! Si poteva evitare, i disegni di BB sono fantastici e i colori sono magici ma la sceneggiatura sembra una puntata di una telenovela, il figlio dell'ispettore Bloch, un drogato geloso dell'affetto del vecchio per Dylan, il campanello e il galeone venduti da Hamlin! L'unica cosa bella è Groucho, pimpante ed effervescente che dorme dentro un baule!


Assioma di Ducharme:
Se osservi abbastanza attentamente il tuo problema ti accorgerai di essere parte del problema.


From Guido "Ti spedisco alcuni bei versi su cui riflettere,


I had a false belief

I thought I came here to stay

we're all just visiting

all just breaking like waves

The oceans made me

but who came up with love?


Push me, Pull me, or Put me out


ma non ti dico chi è l'autore, se t'interessa prova a scoprirlo da solo o mettilo come verso della settimana"

lunedì 28 aprile 2003

"Non è morto ciò che in eterno può attendere"
(Abdul Alhazred)


 

                             NARRATOR (con't)
                             Then, it dropped into darkness.

                             The great machine knew that this
                             tiny scout was reporting back to
                             its parent; but it was too simple,
                             too primative a device to detect
                             the forces that were gathering
                             round it now.

                             Then the pod came, carrying
                             life. The great machine searched
                             its memories.

                             The logic circuits made their
                             decision when the pod had fallen
                             beyond the last faint glow of the
                             reflected Saturnian light.

                             In a moment of time, too short to
                             be measured, space turned and
                             twisted upon itself.

12/9/65                                                    d8
------------------------------------------------------------------------
                          END OF SCREENPLAY
                            END OF FILE


La sceneggiatura è quella scritta da Stanley Kubrick e Arthur C. Clarke, firmata il 9 dicembre 1965, non corrisponde ai dialoghi del film. Questa stesura prevedeva ancora la voce del narratore.


(dall'Archivio Kubrick) 

"Non è morto ciò che in eterno può attendere"
(Abdul Alhazred)


 

                             NARRATOR (con't)
                             Then, it dropped into darkness.

                             The great machine knew that this
                             tiny scout was reporting back to
                             its parent; but it was too simple,
                             too primative a device to detect
                             the forces that were gathering
                             round it now.

                             Then the pod came, carrying
                             life. The great machine searched
                             its memories.

                             The logic circuits made their
                             decision when the pod had fallen
                             beyond the last faint glow of the
                             reflected Saturnian light.

                             In a moment of time, too short to
                             be measured, space turned and
                             twisted upon itself.

12/9/65                                                    d8
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                          END OF SCREENPLAY
                            END OF FILE


La sceneggiatura è quella scritta da Stanley Kubrick e Arthur C. Clarke, firmata il 9 dicembre 1965, non corrisponde ai dialoghi del film. Questa stesura prevedeva ancora la voce del narratore.


(dall'Archivio Kubrick) 

domenica 27 aprile 2003

Senza spiegare nulla, senza dirti dove, ci sarà sempre un mare, che ti chiamerà.


~~~~~~

- Ogni tanto mi chiedo cosa mai stiamo aspettando.
Silenzio
- Che sia troppo tardi, madame ... 


Oceano Mare, Alessandro Baricco


 

Senza spiegare nulla, senza dirti dove, ci sarà sempre un mare, che ti chiamerà.


~~~~~~

- Ogni tanto mi chiedo cosa mai stiamo aspettando.
Silenzio
- Che sia troppo tardi, madame ... 


Oceano Mare, Alessandro Baricco


 

sabato 26 aprile 2003

Bagheria, il mondo non finisce in provincia del nulla


Li ho rivisti tutti, come in quella poesia di Nazim Hikmet, li ho rivisti tutti: erano lì gli amici di ieri. Li ho visti aiutato dal vino ma li ho visti e io scivolavo, scivolavo pensando ai bonobo.
Mi dici che non riesco a sbottonarmi mai, che altrimenti sarei un ottimo santone e un pessimo scrittore.
So scrivere, pensare, aspettare e pedalare. Forse ieri avrei detto che era abbastanza...
Amo le parole e amo i verbi.
Ero strafatto di avverbi e aggettivi, poi ho smesso. Perché le frasi si sposano bene solo con personaggi che vivono sul bordo bianco che lacera l'unità delle vignette, personaggi e azioni schizzate dai verbi.
Amo la filosofia, non so dove ma un giorno ho letto una frase-faro: pericolosi e indispensabili i fari, abbagliano noi, zanzare squillanti che ronziamo nelle orecchie del mondo, col fascino dei loro 10000 watt.
Filosofeggio "per andare al mercato e vedere di quante cose riesco a fare a meno". In questo però resta il dubbio altaniano: vorrei sapere chi è il mandante di tutte le cazzate che faccio.
Pedalo ancora nel fiotto dei ricordi, mi vedo disteso su una balena a parlare dei trucchi di Super Mario, lì, sulla schiena della balena che sbuffa su di me impallindando i ricordi che il mare dei Sargassi lascia in balia delle avances delle anguille.


pensato di traverso su un rutto del Centro Sociale (Montagnola occupata)


 

Scrivi, ti prego. Due righe sole, almeno, anche se l'animo è sconvolto e i nervi non tengono più. Ma ogni giorno. A denti stretti , magari delle cretinate senza senso, ma scrivi. Lo scrivere è una delle più ridicole e patetiche nostre illusioni. Crediamo di fare cosa importante tracciando delle contorte linee nere sopra la carta bianca.[...]
Scrivi, scrivi. Alla fine, fra tonnellate di carta da buttare via, una riga si potrà salvare. (Forse).


da Dino Buzzati, "Siamo spiacenti di"

Bagheria, il mondo non finisce in provincia del nulla


Li ho rivisti tutti, come in quella poesia di Nazim Hikmet, li ho rivisti tutti: erano lì gli amici di ieri. Li ho visti aiutato dal vino ma li ho visti e io scivolavo, scivolavo pensando ai bonobo.
Mi dici che non riesco a sbottonarmi mai, che altrimenti sarei un ottimo santone e un pessimo scrittore.
So scrivere, pensare, aspettare e pedalare. Forse ieri avrei detto che era abbastanza...
Amo le parole e amo i verbi.
Ero strafatto di avverbi e aggettivi, poi ho smesso. Perché le frasi si sposano bene solo con personaggi che vivono sul bordo bianco che lacera l'unità delle vignette, personaggi e azioni schizzate dai verbi.
Amo la filosofia, non so dove ma un giorno ho letto una frase-faro: pericolosi e indispensabili i fari, abbagliano noi, zanzare squillanti che ronziamo nelle orecchie del mondo, col fascino dei loro 10000 watt.
Filosofeggio "per andare al mercato e vedere di quante cose riesco a fare a meno". In questo però resta il dubbio altaniano: vorrei sapere chi è il mandante di tutte le cazzate che faccio.
Pedalo ancora nel fiotto dei ricordi, mi vedo disteso su una balena a parlare dei trucchi di Super Mario, lì, sulla schiena della balena che sbuffa su di me impallindando i ricordi che il mare dei Sargassi lascia in balia delle avances delle anguille.


pensato di traverso su un rutto del Centro Sociale (Montagnola occupata)


 

Scrivi, ti prego. Due righe sole, almeno, anche se l'animo è sconvolto e i nervi non tengono più. Ma ogni giorno. A denti stretti , magari delle cretinate senza senso, ma scrivi. Lo scrivere è una delle più ridicole e patetiche nostre illusioni. Crediamo di fare cosa importante tracciando delle contorte linee nere sopra la carta bianca.[...]
Scrivi, scrivi. Alla fine, fra tonnellate di carta da buttare via, una riga si potrà salvare. (Forse).


da Dino Buzzati, "Siamo spiacenti di"

giovedì 24 aprile 2003

Un nuovo blog, il blog di Veronica... la mia polizzziotta preferita... Ne riporto un pezzettino:


Britomarti dalla scogliera ci si buttò per sfuggire al proprio destino. non so se fosse quella di Gabicce, ma era sicuramente a strapiombo sul mare. E un giorno Britomarti si è ritrovata con Saffo a parlare della loro morte, comune per il modo, ma diversa per il significato. Le due donne, ora morte discutono del loro destino e della loro scelta che le fa sentire lontane da ogni desiderio ma col ricordo vivo di ciò che è stato. Ma Britomarti non può capire le scelte di Saffo, è una ninfa e quindi appartiene all'Olimpo, non riesce a capire i desideri di Saffo "Non sono mai stata felice, Britomarti. Il desiderio non è canto, il desiderio schianta e brucia, come il serpe, come il vento" (C.Pavese, schiuma d'onda, da I Dialoghi con Leucò). Entrambe dalla scogliera hanno buttato, assieme al loro corpo, giù il destino per non rivederlo più risalire.

Un nuovo blog, il blog di Veronica... la mia polizzziotta preferita... Ne riporto un pezzettino:


Britomarti dalla scogliera ci si buttò per sfuggire al proprio destino. non so se fosse quella di Gabicce, ma era sicuramente a strapiombo sul mare. E un giorno Britomarti si è ritrovata con Saffo a parlare della loro morte, comune per il modo, ma diversa per il significato. Le due donne, ora morte discutono del loro destino e della loro scelta che le fa sentire lontane da ogni desiderio ma col ricordo vivo di ciò che è stato. Ma Britomarti non può capire le scelte di Saffo, è una ninfa e quindi appartiene all'Olimpo, non riesce a capire i desideri di Saffo "Non sono mai stata felice, Britomarti. Il desiderio non è canto, il desiderio schianta e brucia, come il serpe, come il vento" (C.Pavese, schiuma d'onda, da I Dialoghi con Leucò). Entrambe dalla scogliera hanno buttato, assieme al loro corpo, giù il destino per non rivederlo più risalire.

Il cilicio dei cloni e le tette saturniste


Dopo aver barbaramente copiato i link di Time, chiedo pubblicamente scusa. Dimesso il cilicio ho trovato il tempo di attivare il blog del saturnismo. Si parla di tette. In modo molto saturnista.

Il cilicio dei cloni e le tette saturniste


Dopo aver barbaramente copiato i link di Time, chiedo pubblicamente scusa. Dimesso il cilicio ho trovato il tempo di attivare il blog del saturnismo. Si parla di tette. In modo molto saturnista.

mercoledì 23 aprile 2003

Dalla lettera del 27/01/04 ad Oscar Pollak


Ma é bene se la coscienza riceve larghe ferite perché in tal modo diventa più sensibile a ogni morso. Bisognerebbe leggere, credo, soltanto libri che mordono e pungono.
Se il libro che leggiamo non ci sveglia con un pugno sul cranio, a che serve leggerlo? Affinché ci renda felici, come scrivi tu? Dio mio, felici saremmo anche se non avessimo libri, e i libri che ci rendono felici potremmo eventualmente scriverli noi. Ma abbiamo bisogno di libri che agiscano su di noi come una disgrazia che ci fa molto male, come la morte di uno che ci era più caro di noi stessi, come se fossimo respinti nei boschi, via da tutti gli uomini, come un suicidio, un libro dev'essere la scure per il mare gelato dentro di noi.


Franz Kafka

Come una luce che si accende con un guizzo, le imposte di una finestra lassù si spalancarono, un uomo debole e sottile in quel punto alto e lontano si chinò d’un colpo molto in avanti e stese le braccia ancor più davanti a sé. Chi era? Un amico? Un brav’uomo? Uno che provava compassione? Uno che voleva aiutare? Era uno solo? Erano tutti? C’era ancora un aiuto possibile? C’erano delle obiezioni che erano state dimenticate? Ce n’erano certamente. La logica, è vero, è incrollabile, ma non si oppone a un uomo che vuole vivere. Dov’era il giudice che non aveva mai visto? Dov’era l’alto tribunale al quale non era mai arrivato? Sollevò le mani distendendo tutte le dita.


Ma uno dei signori mise le mani sul collo di K., mentre l’altro gli immergeva il coltello nel cuore e lo girava due volte. Con gli occhi che si spegnevano K. vide ancora come, vicini al suo volto, i due signori guancia a guancia contemplavano l’esito. "Come un cane!" disse, era come se la vergogna dovesse sopravvivergli.


(la fine de Il processo)

Dalla lettera del 27/01/04 ad Oscar Pollak


Ma é bene se la coscienza riceve larghe ferite perché in tal modo diventa più sensibile a ogni morso. Bisognerebbe leggere, credo, soltanto libri che mordono e pungono.
Se il libro che leggiamo non ci sveglia con un pugno sul cranio, a che serve leggerlo? Affinché ci renda felici, come scrivi tu? Dio mio, felici saremmo anche se non avessimo libri, e i libri che ci rendono felici potremmo eventualmente scriverli noi. Ma abbiamo bisogno di libri che agiscano su di noi come una disgrazia che ci fa molto male, come la morte di uno che ci era più caro di noi stessi, come se fossimo respinti nei boschi, via da tutti gli uomini, come un suicidio, un libro dev'essere la scure per il mare gelato dentro di noi.


Franz Kafka

Come una luce che si accende con un guizzo, le imposte di una finestra lassù si spalancarono, un uomo debole e sottile in quel punto alto e lontano si chinò d’un colpo molto in avanti e stese le braccia ancor più davanti a sé. Chi era? Un amico? Un brav’uomo? Uno che provava compassione? Uno che voleva aiutare? Era uno solo? Erano tutti? C’era ancora un aiuto possibile? C’erano delle obiezioni che erano state dimenticate? Ce n’erano certamente. La logica, è vero, è incrollabile, ma non si oppone a un uomo che vuole vivere. Dov’era il giudice che non aveva mai visto? Dov’era l’alto tribunale al quale non era mai arrivato? Sollevò le mani distendendo tutte le dita.


Ma uno dei signori mise le mani sul collo di K., mentre l’altro gli immergeva il coltello nel cuore e lo girava due volte. Con gli occhi che si spegnevano K. vide ancora come, vicini al suo volto, i due signori guancia a guancia contemplavano l’esito. "Come un cane!" disse, era come se la vergogna dovesse sopravvivergli.


(la fine de Il processo)

LEGGE DI HOLMES E' bene ricordarsi che l'intero universo, con una sola irrilevante eccezione, è composto di altri


LEGGE DI DUNN Una pianificazione attenta non potrà mai sostituire una bella botta di culo


OSSERVAZIONE DI YASENEK Il bacio è una maniera di avvicinare due persone a tal punto che non vedono più niente di male l'uno nell'altra


Da La legge di Murphy del 2000

I diritti del lettore (e ringrazio sedicinove per avermi ricordato Pennac)


1. Il diritto di non leggere
2. Il diritto di saltare le pagine
3. Il diritto di non finire un libro
4. Il diritto di rileggere
5. Il diritto di leggere qualsiasi cosa
6. Il diritto al bovarismo (malattia testualmente contagiosa)
7. Il diritto di leggere ovunque
8. Il diritto di spizzicare
9. Il diritto di leggere a voce alta
10. Il diritto di tacere
 
(da: Daniel Pennac, Come un romanzo. Milano, Feltrinelli, 1993, p. 116)

LEGGE DI HOLMES E' bene ricordarsi che l'intero universo, con una sola irrilevante eccezione, è composto di altri


LEGGE DI DUNN Una pianificazione attenta non potrà mai sostituire una bella botta di culo


OSSERVAZIONE DI YASENEK Il bacio è una maniera di avvicinare due persone a tal punto che non vedono più niente di male l'uno nell'altra


Da La legge di Murphy del 2000

I diritti del lettore (e ringrazio sedicinove per avermi ricordato Pennac)


1. Il diritto di non leggere
2. Il diritto di saltare le pagine
3. Il diritto di non finire un libro
4. Il diritto di rileggere
5. Il diritto di leggere qualsiasi cosa
6. Il diritto al bovarismo (malattia testualmente contagiosa)
7. Il diritto di leggere ovunque
8. Il diritto di spizzicare
9. Il diritto di leggere a voce alta
10. Il diritto di tacere
 
(da: Daniel Pennac, Come un romanzo. Milano, Feltrinelli, 1993, p. 116)

martedì 22 aprile 2003

Altre 50 pagine e finisco I Fratelli Karamazov. L'avevo letto smozzicandolo a 15 anni, non volevo crederci ma ci sono libri che vanno affrontati con maggiore consapevolezza. Leggere è un'esperienza totale, necessita di preparazione, non è mai stato un hobby 'leggero'. Mi scompiscio dalle risate quando intervistano qualche raperonzolo tisicosculettante che sorride dicendo : io amo leggere. Sciacquatevi la bocca, le parole sono pericolose, le parole aiutano ma chiedono il loro tributo. Da sempre. Leggete un romanzo con rispetto: qualcuno ha sudato sangue per partorirlo, voi dovete sudare per arrivare all'ultima pagina. Ne vale la pena.


 

Paolo Papotti  è un bravissimo scrittore e un carissimo amico, come d'altronde lo sono Stas' e Andrea Monda. Che dire? Aggiungete Rai Libro ai vostri preferiti

Altre 50 pagine e finisco I Fratelli Karamazov. L'avevo letto smozzicandolo a 15 anni, non volevo crederci ma ci sono libri che vanno affrontati con maggiore consapevolezza. Leggere è un'esperienza totale, necessita di preparazione, non è mai stato un hobby 'leggero'. Mi scompiscio dalle risate quando intervistano qualche raperonzolo tisicosculettante che sorride dicendo : io amo leggere. Sciacquatevi la bocca, le parole sono pericolose, le parole aiutano ma chiedono il loro tributo. Da sempre. Leggete un romanzo con rispetto: qualcuno ha sudato sangue per partorirlo, voi dovete sudare per arrivare all'ultima pagina. Ne vale la pena.


 

Paolo Papotti  è un bravissimo scrittore e un carissimo amico, come d'altronde lo sono Stas' e Andrea Monda. Che dire? Aggiungete Rai Libro ai vostri preferiti

Giuseppe Fava fu ucciso dalla mafia il 5 gennaio 1984, dopo un anno di inchieste, di battaglie, di denunce.


 Per non dimenticare


 

da "I Siciliani", Giuseppe Fava,  marzo 1983

La mafia nasce, cioè concettualmente si forma in Sicilia, una grande isola per tremila anni violentata da decine di invasioni diverse e che, nonostante guerre, rivolte, ribellioni, splendori e grandezze, battaglie e rivoluzioni tutte tese a conquistare una dignità di nazione, non è mai praticamente riuscita a essere uno Stato. Lo Stato erano gli altri. Lo Stato erano i conquistatori. Lo Stato che amministra, garantisce, impone, costruisce, preleva, insegna, percepisce, fa le leggi, esercita giustizia, questo Stato erano gli altri, cioè i nemici. Per tremila anni lo Stato in Sicilia è stato nemico, cioè una entità quasi sempre assente e che si appalesava soltanto per infliggere danno: le tasse, decime, gli arruolamenti, le confische. Né l'unità d'Italia ha dato questa certezza dello Stato presente e amico, semmai per successivi abbandoni e continue delusioni ha reso più amara questa solitudine. Gli avvenimenti politici per i quali in questi ultimi quarant'anni la capitale Palermo è stata soltanto colonia del potere romano, il fallimento della Cassa per il Mezzogiorno, il bluff delle grandi opere pubbliche mai realizzate, la collusione sempre più spavalda fra vertici di violenza e rappresentanti politici che hanno saccheggiato, diviso, lottizzato, devastato, spartito potere ed economia, e infine la crisi paurosa della giustizia [continua]

Giuseppe Fava fu ucciso dalla mafia il 5 gennaio 1984, dopo un anno di inchieste, di battaglie, di denunce.


 Per non dimenticare


 

da "I Siciliani", Giuseppe Fava,  marzo 1983

La mafia nasce, cioè concettualmente si forma in Sicilia, una grande isola per tremila anni violentata da decine di invasioni diverse e che, nonostante guerre, rivolte, ribellioni, splendori e grandezze, battaglie e rivoluzioni tutte tese a conquistare una dignità di nazione, non è mai praticamente riuscita a essere uno Stato. Lo Stato erano gli altri. Lo Stato erano i conquistatori. Lo Stato che amministra, garantisce, impone, costruisce, preleva, insegna, percepisce, fa le leggi, esercita giustizia, questo Stato erano gli altri, cioè i nemici. Per tremila anni lo Stato in Sicilia è stato nemico, cioè una entità quasi sempre assente e che si appalesava soltanto per infliggere danno: le tasse, decime, gli arruolamenti, le confische. Né l'unità d'Italia ha dato questa certezza dello Stato presente e amico, semmai per successivi abbandoni e continue delusioni ha reso più amara questa solitudine. Gli avvenimenti politici per i quali in questi ultimi quarant'anni la capitale Palermo è stata soltanto colonia del potere romano, il fallimento della Cassa per il Mezzogiorno, il bluff delle grandi opere pubbliche mai realizzate, la collusione sempre più spavalda fra vertici di violenza e rappresentanti politici che hanno saccheggiato, diviso, lottizzato, devastato, spartito potere ed economia, e infine la crisi paurosa della giustizia [continua]

da "I Siciliani", Giuseppe Fava, 1983

Voglio fare un discorso corretto e sereno sui siciliani, premettendo naturalmente che io sono perfettamente siciliano. Un discorso sulla stupidità dei siciliani. Noi affermiamo spesso di essere straordinariamente intelligenti, quanto meno di avere più fantasia e piacere di vivere, rispetto a qualsiasi altro popolo della terra. Non è vero! La storia è là a dimostrarlo. Da migliaia di anni siamo semplicemente terra di conquista, gli altri arrivano, saccheggiano, stuprano, costruiscono qualche monumento, ci insegnano qualcosa, e se ne vanno. Noi ci appropriamo di una parte di quella civiltà, a volte diventiamo anche i custodi del tempio, in attesa che arrivi un'altra ondata saccheggiatrice. Siamo quasi sempre colonia per incapacità di essere veramente popolo. Presi i siciliani ad uno ad uno, può anche accadere che taluno riesca ad esprimere (nella poesia, nel delitto, nella finanza, nell'arte) attimi di ineguagliabile talento. Sono quelli che ci fottono, che ci danno l'impressione, spesso la certezza, di essere i migliori. Nella realtà, presi tutti insieme, siamo quasi sempre un popolo imbecille. [continua]









O Capitano! Mio Capitano!             
 
O Capitano! Mio Capitano! il nostro duro viaggio è finito,
la nave ha scapolato ogni tempesta, il premio che cercavamo ottenuto,
il porto è vicino, sento le campane, la gente esulta,
mentre gli occhi seguono la solida chiglia, il vascello severo e audace:
ma, o cuore, cuore, cuore!
gocce rosse di sangue
dove sul ponte il mio Capitano
giace caduto freddo morto.


O Capitano! Mio Capitano! alzati a sentire le campane;
alzati - per te la bandiera è gettata - per te la tromba suona,
per te i fiori, i nastri, le ghirlande - per te le rive di folla
per te urlano, in massa, oscillanti, i volti accesi verso di te;
ecco Capitano! Padre caro!
Questo mio braccio sotto la nuca!
E' un sogno che sulla tolda
sei caduto freddo, morto.


Il mio Capitano non risponde, esangui e immobili le sue labbra,
non sente il mio braccio, non ha battiti, volontà,
la nave è all'ancora sana e salva, il viaggio finito,
dal duro viaggio la nave vincitrice torna, raggiunta la meta;
esultate rive, suonate campane!
Ma io con passo funebre
cammino sul ponte dove il Capitano
giace freddo, morto.
 


 

(W. Whitman)

da "I Siciliani", Giuseppe Fava, 1983

Voglio fare un discorso corretto e sereno sui siciliani, premettendo naturalmente che io sono perfettamente siciliano. Un discorso sulla stupidità dei siciliani. Noi affermiamo spesso di essere straordinariamente intelligenti, quanto meno di avere più fantasia e piacere di vivere, rispetto a qualsiasi altro popolo della terra. Non è vero! La storia è là a dimostrarlo. Da migliaia di anni siamo semplicemente terra di conquista, gli altri arrivano, saccheggiano, stuprano, costruiscono qualche monumento, ci insegnano qualcosa, e se ne vanno. Noi ci appropriamo di una parte di quella civiltà, a volte diventiamo anche i custodi del tempio, in attesa che arrivi un'altra ondata saccheggiatrice. Siamo quasi sempre colonia per incapacità di essere veramente popolo. Presi i siciliani ad uno ad uno, può anche accadere che taluno riesca ad esprimere (nella poesia, nel delitto, nella finanza, nell'arte) attimi di ineguagliabile talento. Sono quelli che ci fottono, che ci danno l'impressione, spesso la certezza, di essere i migliori. Nella realtà, presi tutti insieme, siamo quasi sempre un popolo imbecille. [continua]









O Capitano! Mio Capitano!             
 
O Capitano! Mio Capitano! il nostro duro viaggio è finito,
la nave ha scapolato ogni tempesta, il premio che cercavamo ottenuto,
il porto è vicino, sento le campane, la gente esulta,
mentre gli occhi seguono la solida chiglia, il vascello severo e audace:
ma, o cuore, cuore, cuore!
gocce rosse di sangue
dove sul ponte il mio Capitano
giace caduto freddo morto.


O Capitano! Mio Capitano! alzati a sentire le campane;
alzati - per te la bandiera è gettata - per te la tromba suona,
per te i fiori, i nastri, le ghirlande - per te le rive di folla
per te urlano, in massa, oscillanti, i volti accesi verso di te;
ecco Capitano! Padre caro!
Questo mio braccio sotto la nuca!
E' un sogno che sulla tolda
sei caduto freddo, morto.


Il mio Capitano non risponde, esangui e immobili le sue labbra,
non sente il mio braccio, non ha battiti, volontà,
la nave è all'ancora sana e salva, il viaggio finito,
dal duro viaggio la nave vincitrice torna, raggiunta la meta;
esultate rive, suonate campane!
Ma io con passo funebre
cammino sul ponte dove il Capitano
giace freddo, morto.
 


 

(W. Whitman)

lunedì 21 aprile 2003

Quanto conta un buon incipit? Abbastanza. Forse anche di più.


Due siti succosi sulle prime roventi righe: Incipitario e un blog ad hoc

Gocce di vita (tonino pintacuda)  


Mi piacerebbe ricordarci tutti come dentro una foto. Sfidando il mondo, noi sempre lì. Stefano era malinconico. Ormai i dicotomici furori s'erano placati. Tutti se ne sbattevano, si lasciavano vivere negli ultimi giorni di quello strano giugno. Fumavano con distacco, maledicendo l'avvicinarsi dell'esame di stato. Tutti lì, a ronfare sul banco di formica con la testa piena di sogni in bikini. Erano cambiati, sicuro, erano cresciuti tutti. Stefano aveva detto pure addio a Stephen King, s'era letto Cuori in Atlantide e aveva smesso. Ora leggeva i classici, uno dopo l'altro, pagina dopo pagina nella sua testa si affollavano Hesse, Vittorini, Kafka, Golding, Beckett, Garcia Marquez. Tutti lì a cercarsi il loro spazio in quel cervello più che confuso. [continua]

Bar Sport (Stefano Benni)
Al bar Sport non si mangia quasi mai. C'è una bacheca con delle paste, ma è puramente coreografica. Sono paste ornamentali, spesso veri e propri pezzi d'artigianato. Sono lì da anni, tanto che i clienti abituali, ormai le conoscono una per una. Entrando dicono: "La meringa è un po' sciupata, oggi. Sarà il caldo". Oppure: "È ora di dar la polvere al krapfen". Solo, qualche volta, il cliente occasionale osa avvicinarsi al sacrario. Una volta, ad esempio, entrò un rappresentante di Milano. Aprì la bacheca e si mise in bocca una pastona bianca e nera, con sopra una spruzzata di quella bellissima granella in duralluminio che sola contraddistingue la pasta veramente cattiva. Subito nel bar si sparse la voce: "Hanno mangiato la Luisona!". La Luisona era la decana delle paste, e si trovava nella bacheca dal 1959.
La lingua salvata (Elias Canetti) 
Il mio più lontano ricordo è intinto di rosso. In braccio a una ragazza esco da una porta, davanti a me il pavimento è rosso e sulla sinistra scende una scala pure rossa. Di fronte a noi, sul nostro stesso piano, si apre una porta e ne esce un uomo sorridente che mi si fa incontro con aria gentile. Mi viene molto vicino, si ferma e mi dice: "Mostrami la lingua!". Io tiro fuori la lingua, lui affonda una mano in tasca, ne estrae un coltellino a serramanico, lo apre e con la lama mi sfiora la lingua. Dice: "Adesso gli tagliamo la lingua". Io non oso ritirarla, l'uomo si fa sempre più vicino, ora toccherà la lingua con la lama. All'ultimo momento ritira la lama e dice: "Oggi no, domani". Richiude il coltellino con un colpo secco e se lo ficca in tasca
Lo straniero (Albert Camus)
Oggi la mamma è morta. O forse ieri, non so. Ho ricevuto un telegramma dall'ospizio: "Madre deceduta. Funerali domani. Distinti saluti." Questo non dice nulla: è stato forse ieri.
L'ospizio dei vecchi è a Marengo, a ottanta chilometri da Algeri. Prenderò l'autobus delle due e arriverò ancora nel pomeriggio. Così potrò vegliarla e essere di ritorno domani sera. Ho chiesto due giorni di libertà al principale e con una scusa simile non poteva dirmi di no. Ma non aveva l'aria contenta. Gli ho persino detto: "Non è colpa mia." Lui non mi ha risposto. Allora ho pensato che non avrei dovuto dirglielo.

Quanto conta un buon incipit? Abbastanza. Forse anche di più.


Due siti succosi sulle prime roventi righe: Incipitario e un blog ad hoc

Gocce di vita (tonino pintacuda)  


Mi piacerebbe ricordarci tutti come dentro una foto. Sfidando il mondo, noi sempre lì. Stefano era malinconico. Ormai i dicotomici furori s'erano placati. Tutti se ne sbattevano, si lasciavano vivere negli ultimi giorni di quello strano giugno. Fumavano con distacco, maledicendo l'avvicinarsi dell'esame di stato. Tutti lì, a ronfare sul banco di formica con la testa piena di sogni in bikini. Erano cambiati, sicuro, erano cresciuti tutti. Stefano aveva detto pure addio a Stephen King, s'era letto Cuori in Atlantide e aveva smesso. Ora leggeva i classici, uno dopo l'altro, pagina dopo pagina nella sua testa si affollavano Hesse, Vittorini, Kafka, Golding, Beckett, Garcia Marquez. Tutti lì a cercarsi il loro spazio in quel cervello più che confuso. [continua]

Bar Sport (Stefano Benni)
Al bar Sport non si mangia quasi mai. C'è una bacheca con delle paste, ma è puramente coreografica. Sono paste ornamentali, spesso veri e propri pezzi d'artigianato. Sono lì da anni, tanto che i clienti abituali, ormai le conoscono una per una. Entrando dicono: "La meringa è un po' sciupata, oggi. Sarà il caldo". Oppure: "È ora di dar la polvere al krapfen". Solo, qualche volta, il cliente occasionale osa avvicinarsi al sacrario. Una volta, ad esempio, entrò un rappresentante di Milano. Aprì la bacheca e si mise in bocca una pastona bianca e nera, con sopra una spruzzata di quella bellissima granella in duralluminio che sola contraddistingue la pasta veramente cattiva. Subito nel bar si sparse la voce: "Hanno mangiato la Luisona!". La Luisona era la decana delle paste, e si trovava nella bacheca dal 1959.
La lingua salvata (Elias Canetti) 
Il mio più lontano ricordo è intinto di rosso. In braccio a una ragazza esco da una porta, davanti a me il pavimento è rosso e sulla sinistra scende una scala pure rossa. Di fronte a noi, sul nostro stesso piano, si apre una porta e ne esce un uomo sorridente che mi si fa incontro con aria gentile. Mi viene molto vicino, si ferma e mi dice: "Mostrami la lingua!". Io tiro fuori la lingua, lui affonda una mano in tasca, ne estrae un coltellino a serramanico, lo apre e con la lama mi sfiora la lingua. Dice: "Adesso gli tagliamo la lingua". Io non oso ritirarla, l'uomo si fa sempre più vicino, ora toccherà la lingua con la lama. All'ultimo momento ritira la lama e dice: "Oggi no, domani". Richiude il coltellino con un colpo secco e se lo ficca in tasca
Lo straniero (Albert Camus)
Oggi la mamma è morta. O forse ieri, non so. Ho ricevuto un telegramma dall'ospizio: "Madre deceduta. Funerali domani. Distinti saluti." Questo non dice nulla: è stato forse ieri.
L'ospizio dei vecchi è a Marengo, a ottanta chilometri da Algeri. Prenderò l'autobus delle due e arriverò ancora nel pomeriggio. Così potrò vegliarla e essere di ritorno domani sera. Ho chiesto due giorni di libertà al principale e con una scusa simile non poteva dirmi di no. Ma non aveva l'aria contenta. Gli ho persino detto: "Non è colpa mia." Lui non mi ha risposto. Allora ho pensato che non avrei dovuto dirglielo.

Io sono il treno. Vi sento seduti su di me e vi vedo mentre mi entrate nella pancia. Adolescenti assoluti, donne incazzate, uomini con la faccia storta sulla Gazzetta dello Sport. Siete qui. Avete gli occhi incrostati di sonno.
Io sono il treno. Devo solo portarvi a destinazione. I binari mi grattano le ruote e arrivati nelle stazioni vi lascio andare per le vostre strade. Va così il mondo. Non mastico pensieri troppo profondi e mi spaventa chi lo fa. Voi non perdete tempo, scendete subito, come se vi facesse schifo restare anche un altro minuto dentro di me.
Io sono il treno, sui miei sedili si incrociano migliaia di vite, vedete il cielo nei miei finestrini e sono io che vi cullo sino alla vostra stazione. Pagate il biglietto, svelti, inizia un altro viaggio. Porterò voi e i vostri pensieri sulla rotta degli aquiloni.
Io sono il treno e voi siete i miei figli. Sento paure, angosce, felicità rare e sempre stanchezza. Pagate il biglietto, obliteratelo e rispettate le giacche verdi. Non cercate specchi vuoti, il vuoto è nei vostri occhi.
Io sono il treno. Io vi conosco.Io vi amo.Io sono voi. Voi siete miei.


(l'altro giorno, appuntata sul retro del programma di Storia della filosofia medievale)

Io sono il treno. Vi sento seduti su di me e vi vedo mentre mi entrate nella pancia. Adolescenti assoluti, donne incazzate, uomini con la faccia storta sulla Gazzetta dello Sport. Siete qui. Avete gli occhi incrostati di sonno.
Io sono il treno. Devo solo portarvi a destinazione. I binari mi grattano le ruote e arrivati nelle stazioni vi lascio andare per le vostre strade. Va così il mondo. Non mastico pensieri troppo profondi e mi spaventa chi lo fa. Voi non perdete tempo, scendete subito, come se vi facesse schifo restare anche un altro minuto dentro di me.
Io sono il treno, sui miei sedili si incrociano migliaia di vite, vedete il cielo nei miei finestrini e sono io che vi cullo sino alla vostra stazione. Pagate il biglietto, svelti, inizia un altro viaggio. Porterò voi e i vostri pensieri sulla rotta degli aquiloni.
Io sono il treno e voi siete i miei figli. Sento paure, angosce, felicità rare e sempre stanchezza. Pagate il biglietto, obliteratelo e rispettate le giacche verdi. Non cercate specchi vuoti, il vuoto è nei vostri occhi.
Io sono il treno. Io vi conosco.Io vi amo.Io sono voi. Voi siete miei.


(l'altro giorno, appuntata sul retro del programma di Storia della filosofia medievale)

e i pensieri sbiadiscono, il passato è meglio lasciarlo lì.


A che serve ricordare? Ogni parola,


ogni azione vista e rivista alla moviola


e io che volevo scrivere, scrivere e magari sceneggiare qualche buon film. film zeppi di dialoghi dannatamente buoni con conflitti generazionali e scazzottate, amori impossibili e il mare il mare solo il mare e Quel pugno, quei discorsi umidi di martini da Mario e le dita di Lisa macchiate dal sangue del fico e mi sta guardando. e che le dico? Sono stato io a creare la Grande Dicotomia... e manco sapevo bene che cazzo avevo in testa e quel tema libero che avevo riempito con spiedini di pensieri con la stilografica che mi macchiava la mano quella mano e quel pugno e quei pensieri che battevano veloci sulla strada SE FOSSERO I POETI E I FILOSOFI A GOVERNARE... avevo macinato parole su parole manco l'avevo riletto e la prof entusiasta l'aveva portato in trionfo quelle gocce di follia mi sembravano così reali così giuste e Paolino mi guardava mi guardava strano dopo quel pugno e mi teneva la mano e m'accarezzava il mento prima d'addormentarsi e veniva a farsi mettere le scarpe da me e le mie scarpe erano infangate e pioveva e io amavo la pioggia e correvo senza ombrelli e il sangue scivolava senza far rumore e la neve aspettava orme di passi diceva Garvajal e tubetti d'attack nuove rotture e la Grande dicotomia non sarebbe mai stata sanata e Platone m'aveva messo quella pulce e io cercavo di non pensarci ma vedevo mio padre e la sua cazzuola e la sua pancia tirata su a birre e insulti e gli occhi dietro la paura di qualche altro pugno e poi avevo fatto il borsone e alla stazione mio padre non c'era e poi l'eliminazione e la mia divisa immacolata e quei due serpeti che continuavano a mordersi la coda e soltanto pazzi come noi potevano crederci e ci stavamo riuscendo e c'avevano acclamato scegliendo tra noi e la morte e ora vorrei morire amando Lisa lasciandole la sua purezza ritrovata e continua a guardarmi con quel sangue di fico che le sgocciola sulle labbra e la bacio e per un pò non penso che a lei e ai suoi occhi e ai fantasmi delle sue cicatrici e Sylvya Plath mi sorride con quel suo cappello di paglia e il vecchio Ernest aveva lasciato che i pescicani divorassero la vittoria di Santiago e l'aveva lasciato lì in mezzo al mare ci son camin che fumano e i capelli di Lisa neri come i suoi occhi neri come quello che c'aspetta e il mio indice sinistro ormnai è cibo per vermi e non scrivo più e la morte avrà i suoi occhi e morirò guardandola pensando alla luna gitana che sorride da troppi secoli e i tori a Pamplona continuano a correre per la gioia nostra e di Ernest e quel colpo di fucile gli aveva cancellato il sorriso e la faccia e addio al mondo e alle armi e la luna gitana sempre lì.

Un cancello cigola, nessuno li segue.


Alessandro sbuccia per Lisa un fico d'india, uno di quelli rossi e polposi. Le mani ricordano la lezione del padre, lo tiene dai lati, incide la scorza spinata all'estremità e con un taglio preciso gl'apre la pancia. Gliel'aveva insegnato secoli prima e lui aveva seguito con attenzione quelle mani, quelle grandi mani callose, mani da muratore. Pensava a quel lontano dicembre.


...Era arrivato primo al traguardo, aveva sorpassato tutti e ora si aspettava onori e gloria. I Beatles dallo stereo cantavano Obladì Obladà e lui Fischiettava ma quella canzoncina spensierata stavolta non riesce a farlo sorridere e Il busto di gesso di Kafka lo guarda dalla sua postazione lì, accanto al telefono, quel faccione bianco vorrebbe qualche delucidazione ma La sua scrivania è invasa da foglietti appiccicati su qualsiasi cosa e tutti quei libri formano una specie di scaletta verso il poster dell'urlo che riempie la parete più luminosa. La sua macchina da scrivere, la vecchia olivetti 98 con nastro bicolore è affamata, vorrebbe addentare qualche nuovo foglio bianco, sbranarlo con i suoi tasti grippati ma non ha voglia di scrivere, non è il momento. Si alza dal letto e guarda lo specchio, la sua faccia, poche strisce di pelle sgombre da capelli e barba. Il resto è un ammasso informe di gel, peli e capelli sotto il cappello di lana con i colori della Giamaica. Non ha fame non ha sonno. Il quadro di Gesù e i pargoli gli è sempre piaciuto, forse non condivide la gerarchia della Chiesa ma Cristo gli ha fatto sempre simpatia, hanno perfino lo stesso look. ha pensato abbastanza, qualche pagina l'ha meditata. Scende le scale con la coscienza a posto. La sacra famiglia è tutta in salotto, stanno montando il presepe e Qualche anno prima gli piaceva partecipare a quel rito immutabile, sempre la stessa struttura, la stessa angolazione della capanna, gli stessi ciuffi di muschio sintetico, le stesse pecorelle. Tutto come sempre, il pater familias che sistema le lucine, la sorella che bada a Paolino, la mater con quello sguardo sintetico come il muschio. vuole bene a tutti ma il suo preferito resta Paolino. Ha smesso d'andare in chiesa quando ha visto gli occhi a mandorla del pupetto e in testa quel dottore che fa la faccia impassibile e quella condanna: TRISOMIA 21 "Nemmeno si saluta più? Si mangia e si dorme, meglio del Ritz!" suo padre bloccato al mitico tempo in cui ai genitori si dava del lei, rispetto e silenzio. Il binomio perfetto, il dialogo serve solo a far venire su capelloni buoni solo a leggere libri. "Io non so che fare con te, le ho provate tutte. Guarda quelle foto, eri così saggio!" la discussione si scalda, la signora ha smesso di pensare al suo grande problema di Paolino e ora sventaglia i suoi argomenti migliori. E quell'indice accusatore termina con un'unghia laccata di un rosso pompeiano, la stessa tonalità del rossetto. La traiettoria è chiara, tra le tante foto che fanno bella mostra sul pianoforte, lui a sei anni, con in faccia il il migliore sorriso del repertorio sotto i capelli a caschetto e i suoi primi occhiali con la montatura in plastica. definire saggio un bambino di sei anni solo perché riesce a scrivere parole come sciabordio, becchettio e acquedotto all'esame di primina niente di più. E lui non replica, preferisce evitare discussioni che servono solo a far piangere Paolino. Paolino che parla come un megafono della stazione di Palermo , Paolino che sa capire le persone. E Selene, sedici anni pronti a dare il loro contributo alla discussione. "Guardalo, papi, con quel cappello sempre buono a criticare. forse frequenta brutte compagnie... sembra un tossico" e lei, la dolce sorellina, tutta casa e chiesa che gira l'angolo, sale sulla Z3 di quel pervertito che cerca di plagiarla E i capelli pettinati da chirichetta diventano la chioma dell'ultimo dei Mohicani, e la discussione scivola verso Marco, il ragazzo di Selene e lui Può finalmente uscire senza affogare nelle paranoie medio-borghesi della sacra famiglia. Il presepe s'è fermato, Selene ha ancora in mano l'angioletto che annuncia la grande notizia ai pastori semiaddormentati; Paolino sta facendo belare le pecorelle facendole uscire dal recinto che le teneva prigioniere. Ride di gusto, spensierato, nemmeno sa che la mammina che adora lo veda come un inghippo, un errore tecnico. e lui saluta tutti per l'ultima volta e un cerino accende una sigaretta al mentolo. Fuori piove e la pioggia gli piace. Preferisce camminare lontano da quella gabbia che sente sempre più stretta. Cammina svelto, senza ombrello col cappuccio della giacca a vento sul cappello di lana, solo venti minuti alle otto. Dovevano rovesciare il mondo e poteva andare solo da Mario. Entra, la giacca nell'appendipanni e va nella zona biliardo. Ci sono già tutti e la Grande Dicotomia era appena iniziata e poi quel pugno. Lui aveva colpito suo padre e con quello aveva messo fine a ogni cosa S'era scordato dei fichi d'india e i filosofi avevano rovesciato il mondo.

e i pensieri sbiadiscono, il passato è meglio lasciarlo lì.


A che serve ricordare? Ogni parola,


ogni azione vista e rivista alla moviola


e io che volevo scrivere, scrivere e magari sceneggiare qualche buon film. film zeppi di dialoghi dannatamente buoni con conflitti generazionali e scazzottate, amori impossibili e il mare il mare solo il mare e Quel pugno, quei discorsi umidi di martini da Mario e le dita di Lisa macchiate dal sangue del fico e mi sta guardando. e che le dico? Sono stato io a creare la Grande Dicotomia... e manco sapevo bene che cazzo avevo in testa e quel tema libero che avevo riempito con spiedini di pensieri con la stilografica che mi macchiava la mano quella mano e quel pugno e quei pensieri che battevano veloci sulla strada SE FOSSERO I POETI E I FILOSOFI A GOVERNARE... avevo macinato parole su parole manco l'avevo riletto e la prof entusiasta l'aveva portato in trionfo quelle gocce di follia mi sembravano così reali così giuste e Paolino mi guardava mi guardava strano dopo quel pugno e mi teneva la mano e m'accarezzava il mento prima d'addormentarsi e veniva a farsi mettere le scarpe da me e le mie scarpe erano infangate e pioveva e io amavo la pioggia e correvo senza ombrelli e il sangue scivolava senza far rumore e la neve aspettava orme di passi diceva Garvajal e tubetti d'attack nuove rotture e la Grande dicotomia non sarebbe mai stata sanata e Platone m'aveva messo quella pulce e io cercavo di non pensarci ma vedevo mio padre e la sua cazzuola e la sua pancia tirata su a birre e insulti e gli occhi dietro la paura di qualche altro pugno e poi avevo fatto il borsone e alla stazione mio padre non c'era e poi l'eliminazione e la mia divisa immacolata e quei due serpeti che continuavano a mordersi la coda e soltanto pazzi come noi potevano crederci e ci stavamo riuscendo e c'avevano acclamato scegliendo tra noi e la morte e ora vorrei morire amando Lisa lasciandole la sua purezza ritrovata e continua a guardarmi con quel sangue di fico che le sgocciola sulle labbra e la bacio e per un pò non penso che a lei e ai suoi occhi e ai fantasmi delle sue cicatrici e Sylvya Plath mi sorride con quel suo cappello di paglia e il vecchio Ernest aveva lasciato che i pescicani divorassero la vittoria di Santiago e l'aveva lasciato lì in mezzo al mare ci son camin che fumano e i capelli di Lisa neri come i suoi occhi neri come quello che c'aspetta e il mio indice sinistro ormnai è cibo per vermi e non scrivo più e la morte avrà i suoi occhi e morirò guardandola pensando alla luna gitana che sorride da troppi secoli e i tori a Pamplona continuano a correre per la gioia nostra e di Ernest e quel colpo di fucile gli aveva cancellato il sorriso e la faccia e addio al mondo e alle armi e la luna gitana sempre lì.

Un cancello cigola, nessuno li segue.


Alessandro sbuccia per Lisa un fico d'india, uno di quelli rossi e polposi. Le mani ricordano la lezione del padre, lo tiene dai lati, incide la scorza spinata all'estremità e con un taglio preciso gl'apre la pancia. Gliel'aveva insegnato secoli prima e lui aveva seguito con attenzione quelle mani, quelle grandi mani callose, mani da muratore. Pensava a quel lontano dicembre.


...Era arrivato primo al traguardo, aveva sorpassato tutti e ora si aspettava onori e gloria. I Beatles dallo stereo cantavano Obladì Obladà e lui Fischiettava ma quella canzoncina spensierata stavolta non riesce a farlo sorridere e Il busto di gesso di Kafka lo guarda dalla sua postazione lì, accanto al telefono, quel faccione bianco vorrebbe qualche delucidazione ma La sua scrivania è invasa da foglietti appiccicati su qualsiasi cosa e tutti quei libri formano una specie di scaletta verso il poster dell'urlo che riempie la parete più luminosa. La sua macchina da scrivere, la vecchia olivetti 98 con nastro bicolore è affamata, vorrebbe addentare qualche nuovo foglio bianco, sbranarlo con i suoi tasti grippati ma non ha voglia di scrivere, non è il momento. Si alza dal letto e guarda lo specchio, la sua faccia, poche strisce di pelle sgombre da capelli e barba. Il resto è un ammasso informe di gel, peli e capelli sotto il cappello di lana con i colori della Giamaica. Non ha fame non ha sonno. Il quadro di Gesù e i pargoli gli è sempre piaciuto, forse non condivide la gerarchia della Chiesa ma Cristo gli ha fatto sempre simpatia, hanno perfino lo stesso look. ha pensato abbastanza, qualche pagina l'ha meditata. Scende le scale con la coscienza a posto. La sacra famiglia è tutta in salotto, stanno montando il presepe e Qualche anno prima gli piaceva partecipare a quel rito immutabile, sempre la stessa struttura, la stessa angolazione della capanna, gli stessi ciuffi di muschio sintetico, le stesse pecorelle. Tutto come sempre, il pater familias che sistema le lucine, la sorella che bada a Paolino, la mater con quello sguardo sintetico come il muschio. vuole bene a tutti ma il suo preferito resta Paolino. Ha smesso d'andare in chiesa quando ha visto gli occhi a mandorla del pupetto e in testa quel dottore che fa la faccia impassibile e quella condanna: TRISOMIA 21 "Nemmeno si saluta più? Si mangia e si dorme, meglio del Ritz!" suo padre bloccato al mitico tempo in cui ai genitori si dava del lei, rispetto e silenzio. Il binomio perfetto, il dialogo serve solo a far venire su capelloni buoni solo a leggere libri. "Io non so che fare con te, le ho provate tutte. Guarda quelle foto, eri così saggio!" la discussione si scalda, la signora ha smesso di pensare al suo grande problema di Paolino e ora sventaglia i suoi argomenti migliori. E quell'indice accusatore termina con un'unghia laccata di un rosso pompeiano, la stessa tonalità del rossetto. La traiettoria è chiara, tra le tante foto che fanno bella mostra sul pianoforte, lui a sei anni, con in faccia il il migliore sorriso del repertorio sotto i capelli a caschetto e i suoi primi occhiali con la montatura in plastica. definire saggio un bambino di sei anni solo perché riesce a scrivere parole come sciabordio, becchettio e acquedotto all'esame di primina niente di più. E lui non replica, preferisce evitare discussioni che servono solo a far piangere Paolino. Paolino che parla come un megafono della stazione di Palermo , Paolino che sa capire le persone. E Selene, sedici anni pronti a dare il loro contributo alla discussione. "Guardalo, papi, con quel cappello sempre buono a criticare. forse frequenta brutte compagnie... sembra un tossico" e lei, la dolce sorellina, tutta casa e chiesa che gira l'angolo, sale sulla Z3 di quel pervertito che cerca di plagiarla E i capelli pettinati da chirichetta diventano la chioma dell'ultimo dei Mohicani, e la discussione scivola verso Marco, il ragazzo di Selene e lui Può finalmente uscire senza affogare nelle paranoie medio-borghesi della sacra famiglia. Il presepe s'è fermato, Selene ha ancora in mano l'angioletto che annuncia la grande notizia ai pastori semiaddormentati; Paolino sta facendo belare le pecorelle facendole uscire dal recinto che le teneva prigioniere. Ride di gusto, spensierato, nemmeno sa che la mammina che adora lo veda come un inghippo, un errore tecnico. e lui saluta tutti per l'ultima volta e un cerino accende una sigaretta al mentolo. Fuori piove e la pioggia gli piace. Preferisce camminare lontano da quella gabbia che sente sempre più stretta. Cammina svelto, senza ombrello col cappuccio della giacca a vento sul cappello di lana, solo venti minuti alle otto. Dovevano rovesciare il mondo e poteva andare solo da Mario. Entra, la giacca nell'appendipanni e va nella zona biliardo. Ci sono già tutti e la Grande Dicotomia era appena iniziata e poi quel pugno. Lui aveva colpito suo padre e con quello aveva messo fine a ogni cosa S'era scordato dei fichi d'india e i filosofi avevano rovesciato il mondo.

domenica 20 aprile 2003

nuova, inquietante grafica per il blog: da sx a dx... IT, Homer, un teschio, la foto della carta d'identità, il diavolo senza mutande di Mucca e Pollo, Trinity, Morpheus e Neo, ElTofo e Sisifo. Bella combriccola... /risoluzione consigliata 1024 X 768.

nuova, inquietante grafica per il blog: da sx a dx... IT, Homer, un teschio, la foto della carta d'identità, il diavolo senza mutande di Mucca e Pollo, Trinity, Morpheus e Neo, ElTofo e Sisifo. Bella combriccola... /risoluzione consigliata 1024 X 768.

S. Kierkegaard, Il concetto dell’angoscia


L’angoscia è la possibilità della libertà; soltanto quest’angoscia ha, mediante la fede, la capacità di formare assolutamente, in quanto distrugge tutte le finitezze scoprendo tutte le loro illusioni. E nessun grande inquisitore tien pronte torture cosí terribili come l’angoscia; nessuna spia sa attaccare con tanta astuzia la persona sospetta, proprio nel momento in cui è piú debole, né sa preparare cosí bene i lacci per accalappiarla come sa l’angoscia; nessun giudice, per sottile che sia, sa esaminare cosí a fondo l’accusato come l’angoscia che non se lo lascia mai sfuggire, né nel divertimento, né nel chiasso, né sotto il lavoro, né di giorno, né di notte.


Colui ch’è formato dall’angoscia, è formato mediante possibilità; e soltanto chi è formato dalla possibilità, è formato secondo la sua infinità. Perciò la possibilità è la piú pesante di tutte le categorie. (...)

I. Kant, Critica della ragion pratica, Conclusione


Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto piú spesso e piú a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me. Queste due cose io non ho bisogno di cercarle e semplicemente supporle come se fossero avvolte nell’oscurità, o fossero nel trascendente fuori del mio orizzonte; io le vedo davanti a me e le connetto immediatamente con la coscienza della mia esistenza. La prima comincia dal posto che io occupo nel mondo sensibile esterno, ed estende la connessione in cui mi trovo a una grandezza interminabile, con mondi e mondi, e sistemi di sistemi; e poi ancora ai tempi illimitati del loro movimento periodico, del loro principio e della loro durata. La seconda comincia dal mio io indivisibile, dalla mia personalità, e mi rappresenta in un mondo che ha la vera infinitezza, ma che solo l’intelletto può penetrare, e con cui (ma perciò anche in pari tempo con tutti quei mondi visibili) io mi riconosco in una connessione non, come là, semplicemente accidentale, ma universale e necessaria. Il primo spettacolo di una quantità innumerevole di mondi annulla affatto la mia importanza di creatura animale che deve restituire al pianeta (un semplice punto nell’Universo) la materia della quale si formò, dopo essere stata provvista per breve tempo (e non si sa come) della forza vitale. Il secondo, invece, eleva infinitamente il mio valore, come [valore] di una intelligenza, mediante la mia personalità in cui la legge morale mi manifesta una vita indipendente dall’animalità e anche dall’intero mondo sensibile, almeno per quanto si può riferire dalla determinazione conforme ai fini della mia esistenza mediante questa legge: la quale determinazione non è ristretta alle condizioni e ai limiti di questa vita, ma si estende all’infinito.

S. Kierkegaard, Il concetto dell’angoscia


L’angoscia è la possibilità della libertà; soltanto quest’angoscia ha, mediante la fede, la capacità di formare assolutamente, in quanto distrugge tutte le finitezze scoprendo tutte le loro illusioni. E nessun grande inquisitore tien pronte torture cosí terribili come l’angoscia; nessuna spia sa attaccare con tanta astuzia la persona sospetta, proprio nel momento in cui è piú debole, né sa preparare cosí bene i lacci per accalappiarla come sa l’angoscia; nessun giudice, per sottile che sia, sa esaminare cosí a fondo l’accusato come l’angoscia che non se lo lascia mai sfuggire, né nel divertimento, né nel chiasso, né sotto il lavoro, né di giorno, né di notte.


Colui ch’è formato dall’angoscia, è formato mediante possibilità; e soltanto chi è formato dalla possibilità, è formato secondo la sua infinità. Perciò la possibilità è la piú pesante di tutte le categorie. (...)

I. Kant, Critica della ragion pratica, Conclusione


Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto piú spesso e piú a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me. Queste due cose io non ho bisogno di cercarle e semplicemente supporle come se fossero avvolte nell’oscurità, o fossero nel trascendente fuori del mio orizzonte; io le vedo davanti a me e le connetto immediatamente con la coscienza della mia esistenza. La prima comincia dal posto che io occupo nel mondo sensibile esterno, ed estende la connessione in cui mi trovo a una grandezza interminabile, con mondi e mondi, e sistemi di sistemi; e poi ancora ai tempi illimitati del loro movimento periodico, del loro principio e della loro durata. La seconda comincia dal mio io indivisibile, dalla mia personalità, e mi rappresenta in un mondo che ha la vera infinitezza, ma che solo l’intelletto può penetrare, e con cui (ma perciò anche in pari tempo con tutti quei mondi visibili) io mi riconosco in una connessione non, come là, semplicemente accidentale, ma universale e necessaria. Il primo spettacolo di una quantità innumerevole di mondi annulla affatto la mia importanza di creatura animale che deve restituire al pianeta (un semplice punto nell’Universo) la materia della quale si formò, dopo essere stata provvista per breve tempo (e non si sa come) della forza vitale. Il secondo, invece, eleva infinitamente il mio valore, come [valore] di una intelligenza, mediante la mia personalità in cui la legge morale mi manifesta una vita indipendente dall’animalità e anche dall’intero mondo sensibile, almeno per quanto si può riferire dalla determinazione conforme ai fini della mia esistenza mediante questa legge: la quale determinazione non è ristretta alle condizioni e ai limiti di questa vita, ma si estende all’infinito.

sabato 19 aprile 2003

(STROZZARICORDI - toninopintacuda)


Slaccia quella cintura. La spia s'è spenta e il comandante e l'equipaggio ringraziano.
Tieniti solo quel nome e tutti i ricordi che strozza. Vent'anni dopo torni a casa, avevi detto al mare che non saresti più tornato ma lascia perdere le vecchie promesse nell'abbraccio di tua madre e nella stitica mano di suo marito.
Ti dicono tutti di non farlo ma già lo sai che quella foto tornerà, tutte le notti ti ripeterà dagli angoli che non sei riuscito ad aiutarlo.
Diglielo.
Diglielo ai suoi genitori che avevi solo vent'anni e c'erano ancora i Beatles, tutti e quattro a cantare che all you need is love, tattararaaa... Hai perso la grinta, l'hai persa in troppi bar a vomitare in quei cessi e Kafka alla fine ce la farà a mangiare come un uomo, si toglierà la bombetta e suo padre sarà finalmente felice.
Sarai fiero pure tu, papà, che le basette e la barba sono state scopate via dal barbiere. Pure tu, mamma, sarai fiera ma questo cemento m'aspetta da troppo tempo.
Il vento mi soffia sul borsone e quello lì vende ancora le castagne calde calde e racconta ancora com'era buona la cioccolata degli alleati alla fine del 43. Il presente non esiste che appena parlo il futuro è già passato e quante schedine strappate e sbagliate solo per tre X. L'indice esita su quel dannato campanello bitonale con i suoi din don sempre uguali e magari ce la faccio a dire che Gianluca è morto. La voce è mia a in testa ancora Kafka con la sua faccia storta sotto la bombetta per le vie di Praga con troppi sogni tormentati da cui svegliarsi sulle zampine di Gregor.
Gianluca è morto e io odiavo il suo lampadario a forma di Snoopy, ci sbattevo sempre la testa quando salivo sulla sedia per prendere i giornaletti da quattro Pater Noster e due Ave Maria.
Sapevano già, i suoi genitori sapevano tutto. Lo capivi solo ora che gli scheletri stanno sempre in buona compagnia, fai quel gioco, rinsegui i pensieri al contrario e non capisci ancora che quel taglio a Y ce l'hai pure tu, nel petto, che tutte quelle corse sulla vespa non le metteranno nella formalina, tra cuore e cervello solo lo Spaventapasseri e l'uomo di latta sapevano scegliere ma nessun sentiero dorato da seguire e nessun pensiero felice per volare su Bagheria.
Gli aquiloni si sono impiccati sulle antenne e non puoi liberarli.
Ti resta solo polvere nell'imbottitura di velluto, solo sangue sui bisturi che sgocciola nel buco del tavolo d'acciaio.
Solo sangue sui bisturi. Scivola via.
Dal taglio a Y.
Dal biglietto obliterato sui sassi d'Itaca.


«il mio viaggio a Buenos Aires lo faccio in compagnia di un angelo. Ho bevuto un bel po’ e mangiato tantissimo. Come dicono i vecchi emigranti ai nuovi:- devi mangiare molto se vuoi essere forte qui in America. – Penso abbiano ragione.
Qui in America devi essere forte, non puoi permetterti di essere come in Italia.»


terzo messaggio da Eltofo in Argentina (il resto sul suo blog)

Ricordo: la maestra arpia dell'asilo che mi strappa Skeletor e lo scaglia su un armadio alto quanto il gigante di Pollicino/ Ricordo: i puzzle dell'asilo e la ragazzina dai capelli gialli/ Ricordo: i pensierini, dieci per ogni parola/Ricordo: mia sorella che snocciola filastrocche giocando a pallavolo col muro/Ricordo: Uan e la caciotta fetecchia che non finisce nella secchia perché piace pure alla vecchia/Ricordo: Odi et amo, la strada del cimitero, la giacca di pelle, ricordo il primo bacio con la lingua e troppi pensieri in testa e il profumo caldo e le mani sui capelli.../Ricordo: i viaggi con l'oratorio e le pomiciate da Palermo a Bologna, andata e ritorno/Ricordo: la prima volta che ho sfilato uno slip e il cervello fuso e ricordi e istinto  e fretta e calma e tutto quell'odore "che non va più via"/Ricordo: l'odore di tutte le donne che ho amato/Ricordo: le sigarette in bagno e la campanella delle 14,10/Ricordo: la bicicletta in discesa sulle curve della litoranea/Ricordo: il fandango che balla il cuore nel primo esame universitario/Ricordo: l'emozione del primo trenta sul libretto/Ricordo: la caldarella e la cazzuola e il finto dialetto siciliano svenduto in cantiere/Ricordo: la voce del prof. e il primo 10 in pagella/Ricordo: le notti insonni a non riuscire a credere di stare con lei/Ricordo: la sala d'attesa del veterinario con tutti i cani del mondo venuti lì a pisciare/Ricordo: la Renò 4 verde pisello/Ricordo: quando qualcuna ti chiama "il mio ragazzo": bella definizione, pesante, rivoltante, fuggi, scappa che è meglio così perchè il primo bacio è bello, svegliarsi abbracciati è stupendo ma poi cominciano le stronzate e tu sei fottuto, distrutto, rotto che manco tutti i tubetti attack del mondo riescono a rimetterti insieme


Ogni tanto il passato va ricordato...

5 anni dopo


La descrizione di un attimo. La ascolto mentre scrivo. Eh, già, la descrizione di un attimo è stata la prima cosa pensata nel rivederti. E tutta l'allegra combriccola col cervello ancora più trifolato, molta più barba, meno illusioni e più disamori nelle dita.
Ma quale attimo mi hai ricordato?
Troppi e tutti assieme. L'altra notte ti pensavo, capita spesso quando l'unica voce nella notte è quella dello scaldabagno. Ci sono notti che il letto a due piazze è troppo grande, anche per i ricordi. Il presente non esisteva.  C'ero io e c'eri tu, ci bastava. E pensavo che magari potevo diventare Qualcuno e  avere almeno tre cani e sei gatti e vedere crescere loro e noi su una spiaggia greca, sì una casa in Grecia, a respirare la stessa aria di Platone, di Socrate, di Omero... Vivevo di immagini e di tramonti starnutiti sulla terra solo per noi.
Sì, l'altra notte era troppo vuoto il letto. Mi perdo ancora a Palermo e voglio girare il mondo con l'infinito che mi mastica il futuro. Non leggo più tanti libri, ne leggo abbastanza per riempire un'altra riga del libretto universitario, mancano una manciata di materie e poi sarò pronto per la depressione da disoccupato. Bacerò un'altra donna  e cercherò ancora i tuoi occhi, avrò abbastanza da dire?
Amo le canzoni dei Beatles solo se le cantano i Beatles, amo quella sfumatura di occhi solo nei tuoi occhi.

(STROZZARICORDI - toninopintacuda)


Slaccia quella cintura. La spia s'è spenta e il comandante e l'equipaggio ringraziano.
Tieniti solo quel nome e tutti i ricordi che strozza. Vent'anni dopo torni a casa, avevi detto al mare che non saresti più tornato ma lascia perdere le vecchie promesse nell'abbraccio di tua madre e nella stitica mano di suo marito.
Ti dicono tutti di non farlo ma già lo sai che quella foto tornerà, tutte le notti ti ripeterà dagli angoli che non sei riuscito ad aiutarlo.
Diglielo.
Diglielo ai suoi genitori che avevi solo vent'anni e c'erano ancora i Beatles, tutti e quattro a cantare che all you need is love, tattararaaa... Hai perso la grinta, l'hai persa in troppi bar a vomitare in quei cessi e Kafka alla fine ce la farà a mangiare come un uomo, si toglierà la bombetta e suo padre sarà finalmente felice.
Sarai fiero pure tu, papà, che le basette e la barba sono state scopate via dal barbiere. Pure tu, mamma, sarai fiera ma questo cemento m'aspetta da troppo tempo.
Il vento mi soffia sul borsone e quello lì vende ancora le castagne calde calde e racconta ancora com'era buona la cioccolata degli alleati alla fine del 43. Il presente non esiste che appena parlo il futuro è già passato e quante schedine strappate e sbagliate solo per tre X. L'indice esita su quel dannato campanello bitonale con i suoi din don sempre uguali e magari ce la faccio a dire che Gianluca è morto. La voce è mia a in testa ancora Kafka con la sua faccia storta sotto la bombetta per le vie di Praga con troppi sogni tormentati da cui svegliarsi sulle zampine di Gregor.
Gianluca è morto e io odiavo il suo lampadario a forma di Snoopy, ci sbattevo sempre la testa quando salivo sulla sedia per prendere i giornaletti da quattro Pater Noster e due Ave Maria.
Sapevano già, i suoi genitori sapevano tutto. Lo capivi solo ora che gli scheletri stanno sempre in buona compagnia, fai quel gioco, rinsegui i pensieri al contrario e non capisci ancora che quel taglio a Y ce l'hai pure tu, nel petto, che tutte quelle corse sulla vespa non le metteranno nella formalina, tra cuore e cervello solo lo Spaventapasseri e l'uomo di latta sapevano scegliere ma nessun sentiero dorato da seguire e nessun pensiero felice per volare su Bagheria.
Gli aquiloni si sono impiccati sulle antenne e non puoi liberarli.
Ti resta solo polvere nell'imbottitura di velluto, solo sangue sui bisturi che sgocciola nel buco del tavolo d'acciaio.
Solo sangue sui bisturi. Scivola via.
Dal taglio a Y.
Dal biglietto obliterato sui sassi d'Itaca.


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