venerdì 27 febbraio 2004

candele

Stanno i giorni futuri innanzi a noi
come una fila di candele accese -
dorate, calde, e vivide.


Restano indietro i giorni del passato,
penosa riga di candele spente:
le più vicine danno fumo ancora,
fredde, disfatte, e storte.


Non le voglio vedere: m'accora il loro aspetto,
la memoria m'accora del loro antico lume.
E guardo avanti le candele accese.


Non mi voglio voltare, ch'io non scorga, in un brivido,
come s'allunga presto la tenebrosa riga,
come crescono presto le mie candele spente


(c.kavafis- candele)

[...] Due sono le qu...

[...] Due sono le qualità che fanno la narrativa: una è il senso del mistero, l’ altra il senso dei costumi. Quest’ultimo lo ricaviamo dal tessuto dell’ esistenza che ci circonda. Il grande vantaggio d’essere uno scrittore del sud è quello di non dovere andare lontano a cercarseli; buoni o cattivi che siano, ne abbiamo in abbondanza. Noi del sud viviamo in una società ricca di contraddizioni, d’ironia, di contrasti, ma soprattutto ricca di lingua. Eppure, ecco qua sei racconti di gente del Sud dove non si fa quasi uso delle nostre ricchezze. Forse ilo motivo è che avete assistito a un tale abuso di questi elementi da sentirvi imbarazzati a continuare ad usarli. Non c’è niente di peggio di uno scrittore che, invece di far uso delle ricchezze regionali, ci sguazza dentro. Allora tutto diventa così tipicamente meridionale da risultare stomachevole, così locale da essere incomprensibile, così riprodotto alla lettera da non comunicare più nulla. Il generale si perde nel particolare, anziché svelarsi attraverso di esso. D’altra parte, se la vita reale che ci circonda viene completamente ignorata e i nostri modelli di linguaggio del tutto trascurati, allora c’è qualcosa che non va. Lo scrittore dovrebbe chiedersi se non sta per caso rincorrendo un tipo di vita che gli è innaturale. Una società è caratterizzata dal suo idioma, e ignorandolo si rischia di ignorare anche l’intero tessuto sociale che rende significativo un personaggio. Se tagli fuori i personaggi dalla società in cui vivono, non potrai dir molto di loro in quanto individui. Non si può dir niente di interessante sul mistero di una personalità, senza inserirla in un contesto sociale credibile e significativo. E il modo migliore per farlo è mediante l ’idioma stesso del personaggio. Quando la vecchia signora di un racconto di Andrea Lyte dice sprezzante che il suo mulo è più vecchio di Birmingham, in tutta quest’unica affermazione noi avvertiamo tutto il senso di una società e della sua storia. Uno scrittore del Sud si ritrova con gran parte del lavoro già fatto ancor prima di cominciare, perché nella nostra parlata vive la nostra storia. In un racconto di Eudora Welty, un personaggio dice:”Dalle mie parti usiamo le volpi al posto dei cani e i gufi al posto dei polli, però le cantiamo che è una bellezza”. In un’affermazione del genere c’è un intero libro; e se la gente delle tue parti parla così e tu fai il sordo, vuol dire che non sai approfittare di ciò che è tuo. La nostra parlata ha un suono troppo preciso per essere impunemente messa da parte, e se lo scrittore cerca di sbarazzarsene, rischia di distruggere il meglio della sua forza creativa. Un’altra cosa che ho osservato in questi racconti è che non scavano quasi mai a fondo nei personaggi, che non rivelano molto il loro carattere. Non dico che non si calino nella mente del personaggio, ma non mostrano che ha una personalità: Il che si riallaccia, in parte al problema della lingua. I personaggi non hanno una voce atta a rivelarli; e talvolta non hanno nemmeno tratti propri a contraddistinguerli. Alla fine hai la sensazione che nessuna personalità emerga perché non c’è nessuna personalità. Spesso in un buon racconto è proprio il carattere del personaggio a determinare lo sviluppo dell’azione. Mentre, in questi racconti, mi sembra quasi che lo scrittore abbia prima pensato all’azione, e poi rimediato alla meglio un personaggio in grado di compierla. Facendo il contrario, di solito, le cose riescono meglio. Se cominci da una personalità vera, da un vero personaggio, qualcosa accadrà per forza; e non c’è bisogno di sapere cosa sia prima d’iniziare. Anzi, devi scoprire qualcosa di nuovo dai tuoi racconti, perché se non ci riesci tu, sarà difficile che ci riesca qualcun altro. ( da Writing short stories di Flannery O’Connor)



candele

Stanno i giorni futuri innanzi a noi
come una fila di candele accese -
dorate, calde, e vivide.


Restano indietro i giorni del passato,
penosa riga di candele spente:
le più vicine danno fumo ancora,
fredde, disfatte, e storte.


Non le voglio vedere: m'accora il loro aspetto,
la memoria m'accora del loro antico lume.
E guardo avanti le candele accese.


Non mi voglio voltare, ch'io non scorga, in un brivido,
come s'allunga presto la tenebrosa riga,
come crescono presto le mie candele spente


(c.kavafis- candele)

[...] Due sono le qu...

[...] Due sono le qualità che fanno la narrativa: una è il senso del mistero, l’ altra il senso dei costumi. Quest’ultimo lo ricaviamo dal tessuto dell’ esistenza che ci circonda. Il grande vantaggio d’essere uno scrittore del sud è quello di non dovere andare lontano a cercarseli; buoni o cattivi che siano, ne abbiamo in abbondanza. Noi del sud viviamo in una società ricca di contraddizioni, d’ironia, di contrasti, ma soprattutto ricca di lingua. Eppure, ecco qua sei racconti di gente del Sud dove non si fa quasi uso delle nostre ricchezze. Forse ilo motivo è che avete assistito a un tale abuso di questi elementi da sentirvi imbarazzati a continuare ad usarli. Non c’è niente di peggio di uno scrittore che, invece di far uso delle ricchezze regionali, ci sguazza dentro. Allora tutto diventa così tipicamente meridionale da risultare stomachevole, così locale da essere incomprensibile, così riprodotto alla lettera da non comunicare più nulla. Il generale si perde nel particolare, anziché svelarsi attraverso di esso. D’altra parte, se la vita reale che ci circonda viene completamente ignorata e i nostri modelli di linguaggio del tutto trascurati, allora c’è qualcosa che non va. Lo scrittore dovrebbe chiedersi se non sta per caso rincorrendo un tipo di vita che gli è innaturale. Una società è caratterizzata dal suo idioma, e ignorandolo si rischia di ignorare anche l’intero tessuto sociale che rende significativo un personaggio. Se tagli fuori i personaggi dalla società in cui vivono, non potrai dir molto di loro in quanto individui. Non si può dir niente di interessante sul mistero di una personalità, senza inserirla in un contesto sociale credibile e significativo. E il modo migliore per farlo è mediante l ’idioma stesso del personaggio. Quando la vecchia signora di un racconto di Andrea Lyte dice sprezzante che il suo mulo è più vecchio di Birmingham, in tutta quest’unica affermazione noi avvertiamo tutto il senso di una società e della sua storia. Uno scrittore del Sud si ritrova con gran parte del lavoro già fatto ancor prima di cominciare, perché nella nostra parlata vive la nostra storia. In un racconto di Eudora Welty, un personaggio dice:”Dalle mie parti usiamo le volpi al posto dei cani e i gufi al posto dei polli, però le cantiamo che è una bellezza”. In un’affermazione del genere c’è un intero libro; e se la gente delle tue parti parla così e tu fai il sordo, vuol dire che non sai approfittare di ciò che è tuo. La nostra parlata ha un suono troppo preciso per essere impunemente messa da parte, e se lo scrittore cerca di sbarazzarsene, rischia di distruggere il meglio della sua forza creativa. Un’altra cosa che ho osservato in questi racconti è che non scavano quasi mai a fondo nei personaggi, che non rivelano molto il loro carattere. Non dico che non si calino nella mente del personaggio, ma non mostrano che ha una personalità: Il che si riallaccia, in parte al problema della lingua. I personaggi non hanno una voce atta a rivelarli; e talvolta non hanno nemmeno tratti propri a contraddistinguerli. Alla fine hai la sensazione che nessuna personalità emerga perché non c’è nessuna personalità. Spesso in un buon racconto è proprio il carattere del personaggio a determinare lo sviluppo dell’azione. Mentre, in questi racconti, mi sembra quasi che lo scrittore abbia prima pensato all’azione, e poi rimediato alla meglio un personaggio in grado di compierla. Facendo il contrario, di solito, le cose riescono meglio. Se cominci da una personalità vera, da un vero personaggio, qualcosa accadrà per forza; e non c’è bisogno di sapere cosa sia prima d’iniziare. Anzi, devi scoprire qualcosa di nuovo dai tuoi racconti, perché se non ci riesci tu, sarà difficile che ci riesca qualcun altro. ( da Writing short stories di Flannery O’Connor)



sabato 21 febbraio 2004

Apre finalmente La c...

Apre finalmente La casa di Asterione, prossimamente qualche dicotomico furore lo troverete anche lì...


La casa di Asterione (J.L.Borges)
So che mi accusano di superbia, e forse di misantropia, o di pazzia. Tali accuse (che punirò al momento giusto) sono ridicole. E vero che non esco di casa, ma è anche vero che le porte (il cui numero è infinito)1 restano aperte giorno e notte agli uomini e agli animali. Entri chi vuole. Non troverà qui lussi donneschi ne' la splendida pompa dei palazzi, ma la quiete e la solitudine. E troverà una casa come non ce n'è altre sulla faccia della terra. (Mente chi afferma che in Egitto ce n'è una simile.) Perfino i miei calunniatori ammettono che nella casa non c'è un solo mobile. Un'altra menzogna ridicola è che io, Asterione, sia un prigioniero. Dovrò ripetere che non c'è una porta chiusa, e aggiungere che non c'è una sola serratura? D'altronde, una volta al calare del sole percorsi le strade; e se prima di notte tornai, fu per il timore che m'infondevano i volti della folla, volti scoloriti e spianati, come una mano aperta. Il sole era già tramontato, ma il pianto accorato d'un bambino e le rozze preghiere del gregge dissero che mi avevano riconosciuto. La gente pregava, fuggiva, si prosternava; alcuni si arrampicavano sullo stilobate del tempio delle Fiaccole, altri ammucchiavano pietre. Qualcuno, credo, cercò rifugio nel mare. Non per nulla mia madre fu una regina; non posso confondermi col volgo, anche se la mia modestia lo vuole.


La verità è che sono unico. Non m'interessa ciò che un uomo può trasmettere ad altri uomini; come il filosofo, penso che nulla può essere comunicato attraverso l'arte della scrittura. Le fastidiose e volgari minuzie non hanno ricetto nel mio spirito, che è atto solo al grande; non ho mai potuto ricordare la differenza che distingue una lettera dall'altra. Un'impazienza generosa non ha consentito che imparassi a leggere. A volte me ne dolgo, perché le notti e i giorni sono lunghi.


Certo, non mi mancano distrazioni. Come il montone che s'avventa, corro pei corridoi di pietra fino a cadere al suolo in preda alla vertigine. Mi acquatto all'ombra di una cisterna e all'angolo d'un corridoio e giuoco a rimpiattino. Ci sono terrazze dalle quali mi lascio cadere, finché resto insanguinato. In qualunque momento posso giocare a fare l'addormentato, con gli occhi chiusi e il respiro pesante (a volte m'addormento davvero; a volte, quando riapro gli occhi, il colore del giorno è cambiato).
Ma, fra tanti giuochi, preferisco quello di un altro Asterione. Immagino ch'egli venga a farmi visita e che io gli mostri la casa. Con grandi inchini, gli dico: "Adesso torniamo all'angolo di prima," o: "Adesso sbocchiamo in un altro cortile," o: "Lo dicevo io che ti sarebbe piaciuto il canale dell'acqua," oppure: "Ora ti faccio vedere una cisterna che s'è riempita di sabbia," o anche: "Vedrai come si biforca la cantina." A volte mi sbaglio, e ci mettiamo a ridere entrambi.


Ma non ho soltanto immaginato giuochi; ho anche meditato sulla casa. Tutte le parti della casa si ripetono, qualunque luogo di essa e un altro luogo. Non ci sono una cisterna, un cortile, una fontana, una stalla; sono infinite le stalle, le fontane, i cortili, le cisterne. La casa è grande come il mondo. Tuttavia, a forza di percorrere cortili con una cisterna e polverosi corridoi di pietra grigia, raggiunsi la strada e vidi il tempio delle Fiaccole e il mare. Non compresi, finché una visione notturna mi rivelò che anche i mari e i templi sono infiniti. Tutto esiste molte volte, infinite volte; soltanto due cose al mondo sembrano esistere una sola volta: in alto, l'intricato sole; in basso, Asterione. Forse fui io a creare le stelle e il sole e questa enorme casa, ma non me ne ricordo.


Ogni nove anni entrano nella casa nove uomini, perché io li liberi da ogni male. Odo i loro passi o la loro voce in fondo ai corridoi di pietra e corro lietamente incontro ad essi. La cerimonia dura pochi minuti. Cadono uno dopo l'altro; senza che io mi mac-chi le mani di sangue. Dove sono caduti restano, e i cadaveri aiutano a distinguere un corridoio dagli altri. Ignoro chi siano, ma so che uno di essi profetizzò, sul punto di morire, che un giorno sarebbe giunto il mio redentore. Da allora la solitudine non mi duole, perché so che il mio redentore vive e un giorno sorgerà dalla polvere. Se il mio udito potesse percepire tutti i rumori del mondo, io sentirei i suoi passi. Mi portasse a un luogo con meno corridoi e meno porte! Come sarà il mio redentore? Sarà forse un toro con volto d'uomo? O sarà come me?


Il sole della mattina brillò sulla spada di bronzo. Non restava più traccia di sangue.


"Lo crederesti, Arianna?" disse Teseo. "Il Minotauro non s'è quasi difeso."


1) - L'originale dice quattordici, ma non mancano motivi per inferire che, in bocca di Asterione, questo aggettivo numerale vale infiniti.

BombaSicilia. Essenz...

BombaSicilia. Essenza e Sostanza


In questi due anni e mezzo la virulenta BS è stata troppo legata alla mia crescita personale e questo è stata la sua forza e il suo limite: da un lato l'euforia e l'entusiasmo che mi galoppa in testa per i miei 22 dicotomici anni è una fonte inesauribile di spunti che sono uno dei tanti segni delle potenzialità di BombaCarta; dall'altro lato però proprio quei DICOTOMICI furori le hanno impedito uno sviluppo autonomo. E questo è un peccato. Ho pescato in rete tante belle teste brillanti: Laura Caroniti, Marco Candida, Teresa Zuccaro, Maria "pattyPiperita" Guglielmino, Lo Scrittore Fantasma... Ora è tempo di decidere, la libertà dei redattori è stata una bella oasi, io stesso scrivo solo quando ho qualcosa da comunicare, altrimenti mi gusto il silenzio. ma la scelta di un legame più marcato con la mailing list di Bc ha evidenziato un altro limite: così com'è BS non è troppo diversa da Gasoline, la nostra webzine (http://www.bombacarta.it/gasoline).
Che facciamo?


La rinnoviamo nella forma e nel contenuto?
Che cosa vogliamo fare con la piccola BS?
O ci impegniamo semplicemente tutti un pò di più? Basterebbe poco, più lavoro redazionale e scegliere che taglio dare al sito. Così com'è non mi è ben chiaro, è un ibrido tra gasoline e il mio taccuino di elucubrazioni. Non voglio un altro sito per esordienti che si contentano di una pagina html in cui vedere scintillare le loro sudate parole (oramai con i blog tutti possono crearsi il proprio bacino d'utenza senza passare da nessun filtro).


Ci sono varie strade:
1) una maggiore aderenza alla realtà regionale. E in questo caso sarebbe davvero BombaCarta di Sicilia (anche se anni fa scegliemmo di lasciare la Sicilia come orizzonte metafisico, aggrappandoci alla stessa origine della poesia italiana fiorita alla corte di Federico II proprio all'ombra di qualche fico d'india)
2) una scelta di campo, invece di proporre altri racconti e altre poesie, assurgere a un livello più astratto e lasciarsi guidare da meta-riflessioni sull'essenza della Lettura e della Scrittura, facendoci magari guidare da COME UN ROMANZO di Pennac, dal saggio di Antonio (A che cosa "serve" la letteratura?) e da George Steiner e le sue grammatiche della creazione. E questa scelta mi piacerebbe assai che attualizzerei tutto quello che ho faticosamente accumulato in tutti i pomeriggi che ho passato curvo sui libri.
3) intimamente connesso al punto 2: scegliamo giovani teste luccicanti che abbiano scelto di mettersi in cammino verso un proprio linguaggio e qui ci sarebbe utile valorizzare i contributi di Marco Candida e magari tirare in ballo pure Paolo Papotti.
4) aspetto le VOSTRE proposte


Continuo a dubitare e passo a considerare l'essenza e l'utilità della Poesia in vista della tesi.

Ricominciamo? Mi ve...

Ricominciamo?


Mi vedo come una foto, seduto sul divano a parlare con Gesù che vuole sapere perché sono ridotto così. Gli parlo della mia vita, della piega che ha preso. Lui già lo sa, sa che mi chiamo Ulisse e sa della mia storia con Lisa e lo vuole sapere da me. E io lo accontento, erano anni che non riuscivo a parlare così bene.
Il pavimento puzza di sambuca, ho scagliato la bottiglia io e lui sa anche questo.


Ulisse, lumache e cioccolatini| 2.0 (1)

Apre finalmente La c...

Apre finalmente La casa di Asterione, prossimamente qualche dicotomico furore lo troverete anche lì...


La casa di Asterione (J.L.Borges)
So che mi accusano di superbia, e forse di misantropia, o di pazzia. Tali accuse (che punirò al momento giusto) sono ridicole. E vero che non esco di casa, ma è anche vero che le porte (il cui numero è infinito)1 restano aperte giorno e notte agli uomini e agli animali. Entri chi vuole. Non troverà qui lussi donneschi ne' la splendida pompa dei palazzi, ma la quiete e la solitudine. E troverà una casa come non ce n'è altre sulla faccia della terra. (Mente chi afferma che in Egitto ce n'è una simile.) Perfino i miei calunniatori ammettono che nella casa non c'è un solo mobile. Un'altra menzogna ridicola è che io, Asterione, sia un prigioniero. Dovrò ripetere che non c'è una porta chiusa, e aggiungere che non c'è una sola serratura? D'altronde, una volta al calare del sole percorsi le strade; e se prima di notte tornai, fu per il timore che m'infondevano i volti della folla, volti scoloriti e spianati, come una mano aperta. Il sole era già tramontato, ma il pianto accorato d'un bambino e le rozze preghiere del gregge dissero che mi avevano riconosciuto. La gente pregava, fuggiva, si prosternava; alcuni si arrampicavano sullo stilobate del tempio delle Fiaccole, altri ammucchiavano pietre. Qualcuno, credo, cercò rifugio nel mare. Non per nulla mia madre fu una regina; non posso confondermi col volgo, anche se la mia modestia lo vuole.


La verità è che sono unico. Non m'interessa ciò che un uomo può trasmettere ad altri uomini; come il filosofo, penso che nulla può essere comunicato attraverso l'arte della scrittura. Le fastidiose e volgari minuzie non hanno ricetto nel mio spirito, che è atto solo al grande; non ho mai potuto ricordare la differenza che distingue una lettera dall'altra. Un'impazienza generosa non ha consentito che imparassi a leggere. A volte me ne dolgo, perché le notti e i giorni sono lunghi.


Certo, non mi mancano distrazioni. Come il montone che s'avventa, corro pei corridoi di pietra fino a cadere al suolo in preda alla vertigine. Mi acquatto all'ombra di una cisterna e all'angolo d'un corridoio e giuoco a rimpiattino. Ci sono terrazze dalle quali mi lascio cadere, finché resto insanguinato. In qualunque momento posso giocare a fare l'addormentato, con gli occhi chiusi e il respiro pesante (a volte m'addormento davvero; a volte, quando riapro gli occhi, il colore del giorno è cambiato).
Ma, fra tanti giuochi, preferisco quello di un altro Asterione. Immagino ch'egli venga a farmi visita e che io gli mostri la casa. Con grandi inchini, gli dico: "Adesso torniamo all'angolo di prima," o: "Adesso sbocchiamo in un altro cortile," o: "Lo dicevo io che ti sarebbe piaciuto il canale dell'acqua," oppure: "Ora ti faccio vedere una cisterna che s'è riempita di sabbia," o anche: "Vedrai come si biforca la cantina." A volte mi sbaglio, e ci mettiamo a ridere entrambi.


Ma non ho soltanto immaginato giuochi; ho anche meditato sulla casa. Tutte le parti della casa si ripetono, qualunque luogo di essa e un altro luogo. Non ci sono una cisterna, un cortile, una fontana, una stalla; sono infinite le stalle, le fontane, i cortili, le cisterne. La casa è grande come il mondo. Tuttavia, a forza di percorrere cortili con una cisterna e polverosi corridoi di pietra grigia, raggiunsi la strada e vidi il tempio delle Fiaccole e il mare. Non compresi, finché una visione notturna mi rivelò che anche i mari e i templi sono infiniti. Tutto esiste molte volte, infinite volte; soltanto due cose al mondo sembrano esistere una sola volta: in alto, l'intricato sole; in basso, Asterione. Forse fui io a creare le stelle e il sole e questa enorme casa, ma non me ne ricordo.


Ogni nove anni entrano nella casa nove uomini, perché io li liberi da ogni male. Odo i loro passi o la loro voce in fondo ai corridoi di pietra e corro lietamente incontro ad essi. La cerimonia dura pochi minuti. Cadono uno dopo l'altro; senza che io mi mac-chi le mani di sangue. Dove sono caduti restano, e i cadaveri aiutano a distinguere un corridoio dagli altri. Ignoro chi siano, ma so che uno di essi profetizzò, sul punto di morire, che un giorno sarebbe giunto il mio redentore. Da allora la solitudine non mi duole, perché so che il mio redentore vive e un giorno sorgerà dalla polvere. Se il mio udito potesse percepire tutti i rumori del mondo, io sentirei i suoi passi. Mi portasse a un luogo con meno corridoi e meno porte! Come sarà il mio redentore? Sarà forse un toro con volto d'uomo? O sarà come me?


Il sole della mattina brillò sulla spada di bronzo. Non restava più traccia di sangue.


"Lo crederesti, Arianna?" disse Teseo. "Il Minotauro non s'è quasi difeso."


1) - L'originale dice quattordici, ma non mancano motivi per inferire che, in bocca di Asterione, questo aggettivo numerale vale infiniti.

BombaSicilia. Essenz...

BombaSicilia. Essenza e Sostanza


In questi due anni e mezzo la virulenta BS è stata troppo legata alla mia crescita personale e questo è stata la sua forza e il suo limite: da un lato l'euforia e l'entusiasmo che mi galoppa in testa per i miei 22 dicotomici anni è una fonte inesauribile di spunti che sono uno dei tanti segni delle potenzialità di BombaCarta; dall'altro lato però proprio quei DICOTOMICI furori le hanno impedito uno sviluppo autonomo. E questo è un peccato. Ho pescato in rete tante belle teste brillanti: Laura Caroniti, Marco Candida, Teresa Zuccaro, Maria "pattyPiperita" Guglielmino, Lo Scrittore Fantasma... Ora è tempo di decidere, la libertà dei redattori è stata una bella oasi, io stesso scrivo solo quando ho qualcosa da comunicare, altrimenti mi gusto il silenzio. ma la scelta di un legame più marcato con la mailing list di Bc ha evidenziato un altro limite: così com'è BS non è troppo diversa da Gasoline, la nostra webzine (http://www.bombacarta.it/gasoline).
Che facciamo?


La rinnoviamo nella forma e nel contenuto?
Che cosa vogliamo fare con la piccola BS?
O ci impegniamo semplicemente tutti un pò di più? Basterebbe poco, più lavoro redazionale e scegliere che taglio dare al sito. Così com'è non mi è ben chiaro, è un ibrido tra gasoline e il mio taccuino di elucubrazioni. Non voglio un altro sito per esordienti che si contentano di una pagina html in cui vedere scintillare le loro sudate parole (oramai con i blog tutti possono crearsi il proprio bacino d'utenza senza passare da nessun filtro).


Ci sono varie strade:
1) una maggiore aderenza alla realtà regionale. E in questo caso sarebbe davvero BombaCarta di Sicilia (anche se anni fa scegliemmo di lasciare la Sicilia come orizzonte metafisico, aggrappandoci alla stessa origine della poesia italiana fiorita alla corte di Federico II proprio all'ombra di qualche fico d'india)
2) una scelta di campo, invece di proporre altri racconti e altre poesie, assurgere a un livello più astratto e lasciarsi guidare da meta-riflessioni sull'essenza della Lettura e della Scrittura, facendoci magari guidare da COME UN ROMANZO di Pennac, dal saggio di Antonio (A che cosa "serve" la letteratura?) e da George Steiner e le sue grammatiche della creazione. E questa scelta mi piacerebbe assai che attualizzerei tutto quello che ho faticosamente accumulato in tutti i pomeriggi che ho passato curvo sui libri.
3) intimamente connesso al punto 2: scegliamo giovani teste luccicanti che abbiano scelto di mettersi in cammino verso un proprio linguaggio e qui ci sarebbe utile valorizzare i contributi di Marco Candida e magari tirare in ballo pure Paolo Papotti.
4) aspetto le VOSTRE proposte


Continuo a dubitare e passo a considerare l'essenza e l'utilità della Poesia in vista della tesi.

Ricominciamo? Mi ve...

Ricominciamo?


Mi vedo come una foto, seduto sul divano a parlare con Gesù che vuole sapere perché sono ridotto così. Gli parlo della mia vita, della piega che ha preso. Lui già lo sa, sa che mi chiamo Ulisse e sa della mia storia con Lisa e lo vuole sapere da me. E io lo accontento, erano anni che non riuscivo a parlare così bene.
Il pavimento puzza di sambuca, ho scagliato la bottiglia io e lui sa anche questo.


Ulisse, lumache e cioccolatini| 2.0 (1)

giovedì 19 febbraio 2004

Sono uno scrittore f...

Sono uno scrittore finito.
Fatto e finito.
Un macchiafogli che già ha attraversato a velocità ombromantica tutte le tappe che m'avrebbero portato nell'empireo dei bestsellers ma non troppo, con uno schizzo di snobismo intellettualoide che sempre spacca il mare ghiacciato che i critici brutti e pelosi si portano nel petto. Avevo già masticato tutte le tappe, tutte: nei miei 20 e passa anni sotto il cielo e sopra la sabbia ero stato rapito dal silenzio delle sirene e avevo iniziato a danzare sui tasti dell'olivetti di famiglia. 12 pagine di un giallissimo pronto per finire nella serie mondadori con annessa copertina sanguinante. Stavo lì e mi capita tra le mani un vademecum indispensabile per capire bene quello che stavo facendo. A scherzare con le parole si ci brucia presto. Formano il nostro mondo e mettono le ali ai sogni e ti lasciano sempre il santissimo dubbio che quello che ti dicono le donne nel post-amplesso siano solo una manciata di belle bugie in cui affondare i canini del sarcasmo. Stavo lì a far collidere metafore per spupazzarmi qualche donnetta attirata nella mia tana dal mio saperci fare con le donne e con le parole, stavo lì con l'aria da acciuga sotto sale, solo che masticavo o pensavo di masticare tabacco e bacco me l'ero scolato per scalzare via lo spirito e le patate.
Non è mai come prima, collezionavo tappi di birra analcolica e triste e citazioni dai libri che maneggiavo con sacralità. ne avevo qualcuna veramente bella, degna di finire in quei manualetti da segaioli che credono davvero di conquistare con la ricetta della felicità una donna comprando l'ultima guida che vendono in abbianamento a qualche rivista pseudo-osè.


...rileggo quello che ho scritto e capisco che qualcosa s'è davvero guastata. Non ho più storie da raccontare. Ma dovrei aiutare il mio paese, dovrei scrivere qualche libro per segaioli, intitolarlo "Centouno colpi di mazza prima di andare a condire ravioli" e vedere quante settimane mi crogiuolo nella rosa dei libercoli con più appeal. Lo potrei fare, con la mia vitazza da sfigato di prima classe potrei coccolare i ricordi e farli nitrire felici, componendo sonetti erotici in prosa tardoadolescenziale ma poi che farebbero i miei lettori? Dopo aver benedetto con una dozzina di seghe ogni pagina di ogni capitolo conterebbero i brufolazzi sulla fronte e aspetterebbero il seguito.

Sono uno scrittore f...

Sono uno scrittore finito.
Fatto e finito.
Un macchiafogli che già ha attraversato a velocità ombromantica tutte le tappe che m'avrebbero portato nell'empireo dei bestsellers ma non troppo, con uno schizzo di snobismo intellettualoide che sempre spacca il mare ghiacciato che i critici brutti e pelosi si portano nel petto. Avevo già masticato tutte le tappe, tutte: nei miei 20 e passa anni sotto il cielo e sopra la sabbia ero stato rapito dal silenzio delle sirene e avevo iniziato a danzare sui tasti dell'olivetti di famiglia. 12 pagine di un giallissimo pronto per finire nella serie mondadori con annessa copertina sanguinante. Stavo lì e mi capita tra le mani un vademecum indispensabile per capire bene quello che stavo facendo. A scherzare con le parole si ci brucia presto. Formano il nostro mondo e mettono le ali ai sogni e ti lasciano sempre il santissimo dubbio che quello che ti dicono le donne nel post-amplesso siano solo una manciata di belle bugie in cui affondare i canini del sarcasmo. Stavo lì a far collidere metafore per spupazzarmi qualche donnetta attirata nella mia tana dal mio saperci fare con le donne e con le parole, stavo lì con l'aria da acciuga sotto sale, solo che masticavo o pensavo di masticare tabacco e bacco me l'ero scolato per scalzare via lo spirito e le patate.
Non è mai come prima, collezionavo tappi di birra analcolica e triste e citazioni dai libri che maneggiavo con sacralità. ne avevo qualcuna veramente bella, degna di finire in quei manualetti da segaioli che credono davvero di conquistare con la ricetta della felicità una donna comprando l'ultima guida che vendono in abbianamento a qualche rivista pseudo-osè.


...rileggo quello che ho scritto e capisco che qualcosa s'è davvero guastata. Non ho più storie da raccontare. Ma dovrei aiutare il mio paese, dovrei scrivere qualche libro per segaioli, intitolarlo "Centouno colpi di mazza prima di andare a condire ravioli" e vedere quante settimane mi crogiuolo nella rosa dei libercoli con più appeal. Lo potrei fare, con la mia vitazza da sfigato di prima classe potrei coccolare i ricordi e farli nitrire felici, componendo sonetti erotici in prosa tardoadolescenziale ma poi che farebbero i miei lettori? Dopo aver benedetto con una dozzina di seghe ogni pagina di ogni capitolo conterebbero i brufolazzi sulla fronte e aspetterebbero il seguito.

mercoledì 18 febbraio 2004

La prima volta che h...

La prima volta che ho visto il Piccolo Principe era stampato su una maglietta. Stava lì, sulla panza di un adoloscente a contemplare l'infinito. Poi l'ho rincontrato su un treno, lo leggeva un mio amico che poi me l'ha passato. Ero lì, in cuffia qualcosa di Ligabue e Carmelo mi passa quel piccolo libro. Siamo in una cuccetta di 2^ classe, stiamo tornando da Cortona, da un convegno organizzato dall'oratorio. In cuccetta siamo 5, tre ragazze, due che parlano di libri di medicina e un'altra che ascolta un walkman più grosso di lei. E poi io e Carmelo. E in più quel piccolo principe con la sua giubba e la piccola sciabola appuntita, l'ho letto tra Roma e Napoli col treno che sferragliava costante sui binari e niente è stato più come prima.
Qualche pezzo del capolavoro dell'Aviatore l'avevo già trovato in qualche antologia o su qualche fotocopia che quelli dell'oratorio ti passavano per la Condivisione, la chiamavano così il momento di tortura finale delle riunioni. Dovevi alzarti e condividere le tue riflessioni con gente che la sera prma ti aveva magari visto vomitare ubriaco come un gibbone. E dovevi farlo cavando fuori qualche bel concetto lucido come un candito da offrire soprattutto al vecchio gesuita che si sedeva in un angolo buio della stanzetta. Quelli erano bei tempi, ti facevi le ossa per la vita "sociale": davanti al tuo padre spirituale ti mostravi degno dell'aureola e nelle trasferte cuccavi disperatamente.
Ma quando conobbi quel bimbetto con la zazzera bionda e la malinconia nel cuore qualcosa cambiò, mi era rimasto appiccicato quell'amore per la sua rosa, che aveva amato e coccolato scacciando via i bruchi e lasciandone solo uno per vederlo trasformarsi in una farfalla. Quel viaggio del principe nei vari pianeti, la sua purezza che cozzava contro il re, contro il vanitoso, contro il geografo e l'ubriacone e trovava qualche sollievo nel lavoro del lampionaio e nell'amicizia della volpe... e muore, decide di morire nel morso del serpente giallo per lasciarsi alle spalle la sua buccia di carne e volare felice nel cielo per ritrovare il suo pianeta e i suoi vulcani e soprattutto la sua bella rosa e, con lei accanto, aspettare un altro tramonto.

30 e lode in Filosof...

30 e lode in Filosofia della Scienza

La prima volta che h...

La prima volta che ho visto il Piccolo Principe era stampato su una maglietta. Stava lì, sulla panza di un adoloscente a contemplare l'infinito. Poi l'ho rincontrato su un treno, lo leggeva un mio amico che poi me l'ha passato. Ero lì, in cuffia qualcosa di Ligabue e Carmelo mi passa quel piccolo libro. Siamo in una cuccetta di 2^ classe, stiamo tornando da Cortona, da un convegno organizzato dall'oratorio. In cuccetta siamo 5, tre ragazze, due che parlano di libri di medicina e un'altra che ascolta un walkman più grosso di lei. E poi io e Carmelo. E in più quel piccolo principe con la sua giubba e la piccola sciabola appuntita, l'ho letto tra Roma e Napoli col treno che sferragliava costante sui binari e niente è stato più come prima.
Qualche pezzo del capolavoro dell'Aviatore l'avevo già trovato in qualche antologia o su qualche fotocopia che quelli dell'oratorio ti passavano per la Condivisione, la chiamavano così il momento di tortura finale delle riunioni. Dovevi alzarti e condividere le tue riflessioni con gente che la sera prma ti aveva magari visto vomitare ubriaco come un gibbone. E dovevi farlo cavando fuori qualche bel concetto lucido come un candito da offrire soprattutto al vecchio gesuita che si sedeva in un angolo buio della stanzetta. Quelli erano bei tempi, ti facevi le ossa per la vita "sociale": davanti al tuo padre spirituale ti mostravi degno dell'aureola e nelle trasferte cuccavi disperatamente.
Ma quando conobbi quel bimbetto con la zazzera bionda e la malinconia nel cuore qualcosa cambiò, mi era rimasto appiccicato quell'amore per la sua rosa, che aveva amato e coccolato scacciando via i bruchi e lasciandone solo uno per vederlo trasformarsi in una farfalla. Quel viaggio del principe nei vari pianeti, la sua purezza che cozzava contro il re, contro il vanitoso, contro il geografo e l'ubriacone e trovava qualche sollievo nel lavoro del lampionaio e nell'amicizia della volpe... e muore, decide di morire nel morso del serpente giallo per lasciarsi alle spalle la sua buccia di carne e volare felice nel cielo per ritrovare il suo pianeta e i suoi vulcani e soprattutto la sua bella rosa e, con lei accanto, aspettare un altro tramonto.

30 e lode in Filosof...

30 e lode in Filosofia della Scienza

sabato 14 febbraio 2004

IL POETA RABONI<B...

IL POETA
RABONI
LO SCIENZIATO
BONCINELLI (paolo di stefano, corriere della sera)


A mio parere il bisogno di esprimersi in un linguaggio artistico sorge da una profonda mancanza del vivere, da uno stato di sofferenza



Il significato della poesia, la sua «necessità», la sua attualità e la sua capacità di parlare all’uomo d’oggi: sono le questioni che abbiamo posto a uno scienziato, a un filosofo e a un poeta. Ecco il risultato di una tavola rotonda con Edoardo Boncinelli, Emanuele Severino, Giovanni Raboni, organizzata dal Corriere della Sera . A proposito di Leopardi, Severino ha parlato di poesia come rimedio. Se si può accettare questa definizione, la poesia è un rimedio a che cosa?
SEVERINO La poesia appartiene al linguaggio festivo, e cioè si rifà alle origini della nostra civiltà, cioè alla festa arcaica, che è insieme poetica, tecnico-sapienziale e mistico-religiosa. Nella situazione festiva tutte queste componenti sono fuse per costituire una forma di rimedio contro la pericolosità della vita. Da questo coagulo originario, le componenti del linguaggio festivo si distaccano e danno luogo al propriamente religioso, al propriamente poetico e così via. In origine uno strumento funziona solo se protetto dal divino, e dal momento in cui va in crisi il divino, la poesia non acquista più il carattere del rimedio in quanto modo di esprimere e svelare il divino, ma in quanto è una forma che ha una forza tale da consentire all’uomo di prendere distanza dal pericolo del mondo e di trovare salvezza.
BONCINELLI La parola «rimedio» non mi piace. In realtà la poesia è un di più, un’esuberanza, deborda dalla quotidianità e secondo me ha qualcosa in comune con la musica, che però è ancora più universale e come la poesia contiene il concetto di ripetizione. Gli animali in difficoltà si dondolano, fanno gesti ripetuti, anche i vecchi fanno gesti ripetuti e involontari. Si tratta veramente di una sorta di esigenza biologica. A pensarci bene, la poesia si basava molto sulla ripetizione: il ritornello, la metrica, la rima... Sicuramente è nata per fini sociali, collettivi e religiosi. Ma questo aspetto si è perso ed è un peccato. Lo stesso vale per le altre arti: oggi c’è un divorzio dal magico, dal mistico e dal collettivo. Forse c’è più poesia oggi nelle canzoni che nei poeti laureati; forse c’è più arte nelle locomotive e nei jet che nelle mostre. Il che rivendica l'origine di queste cose come fenomeni non solo collettivi ma anche utili e inclusivi della capacità tecnica.
RABONI A me l’idea della poesia, anzi dell’arte, come rimedio non dispiace affatto. Credo che il bisogno di esprimersi con un linguaggio artistico nasca da una mancanza del vivere, da uno stato di disagio o di sofferenza. In un mondo felice uno vorrebbe solo vivere, anche se è un’ipotesi estrema. L’importante è non tradurre questo nell’idea di consolazione. La poesia è soprattutto un linguaggio molto particolare. Rispetto ad altri linguaggi e ad altre arti compresa la musica, comunica dei pensieri e suscita delle emozioni inarticolabili. Il suo pensiero è raddoppiato oppure contraddetto oppure reso ambiguo da altri segnali, che sono quelli della forma e della parola nascosta.
Che rapporto c’è, nel testo poetico e nel fare poesia, tra l’aspetto emotivo e l’aspetto razionale? E oggi possiamo ancora usare un termine un po’ desueto come quello di ispirazione?
SEVERINO Leopardi parla molto presto di unità tra filosofia e poesia: è un binomio che ha sempre presente fin dall’inizio. Ma nei pensieri, mentre scrive «L’infinito», dice che intende l’infinito come l’illusione, come rimedio. Anche l’esuberanza, del resto, è un modo di difendersi dal pericolo.
BONCINELLI Qual è il nemico?
SEVERINO Il nemico è la morte, il dolore. Mi auguro che tu non abbia questo nemico, ma gli uomini hanno sempre sentito come nemico la morte: se non siamo in relazione con una lacuna, che senso ha l’indaffararsi dell’uomo?
BONCINELLI Ma è la nostra forza.
SEVERINO Non lo nego, o meglio lo metto tra parentesi. Torniamo a Leopardi. Nei pensieri, mentre scrive «L’infinito», sostiene che l’infinito è un’idea che aiuta a sollevarsi di fronte al pericolo della morte e del dolore. Poi cambia prospettiva e sostiene che ormai la poesia non inganna nemmeno la fantasia, si rende conto che questa scissione è insostenibile e che la poesia è pensiero poetante. Leopardi abbandona l’infinito, poiché sa che nessun giorno può tornare e che gli dèi sono morti. Il concetto di rimedio rimane in un altro senso: l’infinito, che prima era un contenuto illusorio, diventa la potenza infinita del genio, cioè il poeta, il quale con forza non finita parla della caducità e della morte. Il concetto di rimedio rimane proprio in questa unità di ispirazione e di razionalità.
BONCINELLI E’ una vita che mi chiedo se c’è e che cos’è l’ispirazione. Studiarla da fuori è quasi impossibile, perché l’ispirazione capita di rado a poche persone e la scienza per definizione studia i fenomeni ripetuti. Uno dovrebbe averla vissuta, per parlarne. Per me la poesia è innanzitutto scelta e giustapposizione di parole, perché il contenuto è espresso meglio dalla scienza o dalla filosofia. Dante, Shakespeare e Leopardi, se quelle cose non le avessero dette in quella maniera, sarebbero dei pensatori falliti o dei letterati. Noi parliamo perché nel cervello disponiamo di un enorme vocabolario e ogni volta dobbiamo valutare per quella particolare posizione quale parola andare a pigliare da questo inventario. Un fenomeno molto interessante da studiare.
RABONI Non si tratta della parola giusta per dire ciò che ho chiaramente in testa di dire. Io penso che la parola giusta sia la parola che misteriosamente aggiunge senso a quel che il poeta vuol dire. Altrimenti, il poeta sarebbe il più chiaro espositore del pensiero. Invece la poesia è altro: è pensiero, però emozionato, pensiero assolutamente inscindibile da una serie di emozioni che non sono contenute nel pensiero razionale. Quindi, io non so bene da dove vengano le «parole giuste». E’ vero, ispirazione è qualcosa di desueto, che sa di romanticheria. Valéry diceva: il primo verso viene da Dio, tutti gli altri dal lavoro. Ciò vuol dire che c’è un momento in cui il poeta sa di dover parlare di quella determinata cosa e non sa né come, né di che cosa esattamente si tratti. Sente una necessità, magari legata a un accostamento di parole o a un giro di frase o a un fantasma sonoro, un ritmo, una cadenza. Vien voglia di chiamarlo un momento di aspirazione, come fosse un vuoto da cui si è aspirati e che ti fa precipitare in qualcosa che ancora non sappiamo ma che sentiamo di dover dire.
Come può un comune lettore accostarsi a un testo tanto complesso, tenendo presenti tutti gli aspetti inscindibili che fanno il senso del linguaggio poetico?
SEVERINO E’ impossibile prescindere dal contenuto. Un lettore che si lasci trascinare solo dal ritmo non capirebbe. E’ la storia del contenuto a determinare la storia della poesia. Io vorrei sottolineare la necessità di non considerare la poesia come un fenomeno separato dalla storia della nostra civiltà occidentale, che per me è storia della follia. Sarebbe impossibile capire la poesia indipendentemente da ciò che è stata la storia dell’essenza della nostra civiltà, e cioè un transito dal riferimento al divino alla cancellazione del divino.
BONCINELLI Ho sempre letto poesia e continuo a leggerla. Mi piacciono i greci, Shakespeare, Leopardi. Però se uno mi chiedesse perché e come leggo, non sarei sicuro di saper rispondere. Direi forse per una specie di intossicazione, di abitudine. Rispetto a quel che diceva Raboni aggiungerei due ingredienti della poesia: la concisione, e cioè l’espressione di pensieri come grumi e in una grande intensità; e poi il suo valore collettivo. Si cercano le parole sapendo che arriveranno a qualcuno. E poi abbiamo dimenticato l’immagine, che non è né suono né pensiero. I poeti sono dei creatori capaci di trovare una sintesi solidale di immagini e parole. L’aspetto creativo, l’inventare qualcosa che non c’era, unisce poesia, filosofia e scienza. Ma dovremmo chiederci perché questa immagine, quando è poetica, viene condivisa da un altissimo numero di persone.
Perché, Raboni?
RABONI La poesia raggiunge una quantità nettamente superiore di persone rispetto a una verità scientifica o filosofica perché arriva anche ad altre parti dell’attenzione umana e non solo al cervello. Insomma, arriva a colpire anche con un’emozione, mentre la filosofia non emoziona, persuade. La poesia si rivolge all’uomo nella sua totalità di essere pensante e emozionabile. Le immagini non sono esclusive della poesia. Credo che lo specifico della poesia sia avere tutto questo in forma sincretica, se si può dire. Ha la capacità di emozionare con il suono come la musica, ha la capacità di comunicare con le immagini come la pittura o la scultura, ha la capacità anche di trasmettere contenuti intellettuali come la filosofia. Di tutto questo il lettore può cogliere quel che gli interessa o lo colpisce di più.
Si è parlato di necessità della poesia da parte di chi scrive. Ma in generale, capovolgendo le cose, si può dire che oggi la nostra società ha necessità di poesia? O la poesia viene percepita come qualcosa in più che riguarda più l’individuo che la collettività?
BONCINELLI La società di oggi ha tutto e vuole tutto e il contrario di tutto. Ha tempo libero e lo deve spendere in qualche maniera. C’è la droga, c’è la violenza e fortunatamente ci sono anche la scienza, la filosofia e la poesia. Ci siamo specializzati, è vero, ma questo è avvenuto perché siamo cresciuti di numero e si è stimolata una diversificazione a volte anche a detrimento della qualità. Siamo talmente tanti e diversi, nonostante quel che si dice abbiamo un livello di diversità biologica infinitamente maggiore che in passato. Quindi è giusto che ci sia una offerta diversificata. Non so se sia necessaria, ma direi che uno che si accosta alla poesia ha un’acquisizione perenne.
SEVERINO La poesia non è nata come individualità, perché il linguaggio festivo si costituisce nel sacro. Il linguaggio profano, invece, per lo più è parlato dai singoli: affinché un linguaggio venga riconosciuto e diventi linguaggio sociale bisogna che le parole dei singoli si confrontino in quel luogo che è la festa. La festa si lega al teatro, alla chiesa, a qualcosa di collettivo e di corale. Se pensiamo a ciò, allora è una decadenza per la poesia diventare una lettura dell’individuo scisso dagli altri individui. E’ un fenomeno che conferma l’atomizzazione della nostra società.
RABONI Io non so se ci sia necessità di poesia. Però nel linguaggio comune sia il sostantivo sia l’aggettivo vengono usati metaforicamente per indicare un valore, per indicare qualcosa di bello, di importante, di alto. Qualcosa vorrà pur dire.

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IL POETA
RABONI
LO SCIENZIATO
BONCINELLI (paolo di stefano, corriere della sera)


A mio parere il bisogno di esprimersi in un linguaggio artistico sorge da una profonda mancanza del vivere, da uno stato di sofferenza



Il significato della poesia, la sua «necessità», la sua attualità e la sua capacità di parlare all’uomo d’oggi: sono le questioni che abbiamo posto a uno scienziato, a un filosofo e a un poeta. Ecco il risultato di una tavola rotonda con Edoardo Boncinelli, Emanuele Severino, Giovanni Raboni, organizzata dal Corriere della Sera . A proposito di Leopardi, Severino ha parlato di poesia come rimedio. Se si può accettare questa definizione, la poesia è un rimedio a che cosa?
SEVERINO La poesia appartiene al linguaggio festivo, e cioè si rifà alle origini della nostra civiltà, cioè alla festa arcaica, che è insieme poetica, tecnico-sapienziale e mistico-religiosa. Nella situazione festiva tutte queste componenti sono fuse per costituire una forma di rimedio contro la pericolosità della vita. Da questo coagulo originario, le componenti del linguaggio festivo si distaccano e danno luogo al propriamente religioso, al propriamente poetico e così via. In origine uno strumento funziona solo se protetto dal divino, e dal momento in cui va in crisi il divino, la poesia non acquista più il carattere del rimedio in quanto modo di esprimere e svelare il divino, ma in quanto è una forma che ha una forza tale da consentire all’uomo di prendere distanza dal pericolo del mondo e di trovare salvezza.
BONCINELLI La parola «rimedio» non mi piace. In realtà la poesia è un di più, un’esuberanza, deborda dalla quotidianità e secondo me ha qualcosa in comune con la musica, che però è ancora più universale e come la poesia contiene il concetto di ripetizione. Gli animali in difficoltà si dondolano, fanno gesti ripetuti, anche i vecchi fanno gesti ripetuti e involontari. Si tratta veramente di una sorta di esigenza biologica. A pensarci bene, la poesia si basava molto sulla ripetizione: il ritornello, la metrica, la rima... Sicuramente è nata per fini sociali, collettivi e religiosi. Ma questo aspetto si è perso ed è un peccato. Lo stesso vale per le altre arti: oggi c’è un divorzio dal magico, dal mistico e dal collettivo. Forse c’è più poesia oggi nelle canzoni che nei poeti laureati; forse c’è più arte nelle locomotive e nei jet che nelle mostre. Il che rivendica l'origine di queste cose come fenomeni non solo collettivi ma anche utili e inclusivi della capacità tecnica.
RABONI A me l’idea della poesia, anzi dell’arte, come rimedio non dispiace affatto. Credo che il bisogno di esprimersi con un linguaggio artistico nasca da una mancanza del vivere, da uno stato di disagio o di sofferenza. In un mondo felice uno vorrebbe solo vivere, anche se è un’ipotesi estrema. L’importante è non tradurre questo nell’idea di consolazione. La poesia è soprattutto un linguaggio molto particolare. Rispetto ad altri linguaggi e ad altre arti compresa la musica, comunica dei pensieri e suscita delle emozioni inarticolabili. Il suo pensiero è raddoppiato oppure contraddetto oppure reso ambiguo da altri segnali, che sono quelli della forma e della parola nascosta.
Che rapporto c’è, nel testo poetico e nel fare poesia, tra l’aspetto emotivo e l’aspetto razionale? E oggi possiamo ancora usare un termine un po’ desueto come quello di ispirazione?
SEVERINO Leopardi parla molto presto di unità tra filosofia e poesia: è un binomio che ha sempre presente fin dall’inizio. Ma nei pensieri, mentre scrive «L’infinito», dice che intende l’infinito come l’illusione, come rimedio. Anche l’esuberanza, del resto, è un modo di difendersi dal pericolo.
BONCINELLI Qual è il nemico?
SEVERINO Il nemico è la morte, il dolore. Mi auguro che tu non abbia questo nemico, ma gli uomini hanno sempre sentito come nemico la morte: se non siamo in relazione con una lacuna, che senso ha l’indaffararsi dell’uomo?
BONCINELLI Ma è la nostra forza.
SEVERINO Non lo nego, o meglio lo metto tra parentesi. Torniamo a Leopardi. Nei pensieri, mentre scrive «L’infinito», sostiene che l’infinito è un’idea che aiuta a sollevarsi di fronte al pericolo della morte e del dolore. Poi cambia prospettiva e sostiene che ormai la poesia non inganna nemmeno la fantasia, si rende conto che questa scissione è insostenibile e che la poesia è pensiero poetante. Leopardi abbandona l’infinito, poiché sa che nessun giorno può tornare e che gli dèi sono morti. Il concetto di rimedio rimane in un altro senso: l’infinito, che prima era un contenuto illusorio, diventa la potenza infinita del genio, cioè il poeta, il quale con forza non finita parla della caducità e della morte. Il concetto di rimedio rimane proprio in questa unità di ispirazione e di razionalità.
BONCINELLI E’ una vita che mi chiedo se c’è e che cos’è l’ispirazione. Studiarla da fuori è quasi impossibile, perché l’ispirazione capita di rado a poche persone e la scienza per definizione studia i fenomeni ripetuti. Uno dovrebbe averla vissuta, per parlarne. Per me la poesia è innanzitutto scelta e giustapposizione di parole, perché il contenuto è espresso meglio dalla scienza o dalla filosofia. Dante, Shakespeare e Leopardi, se quelle cose non le avessero dette in quella maniera, sarebbero dei pensatori falliti o dei letterati. Noi parliamo perché nel cervello disponiamo di un enorme vocabolario e ogni volta dobbiamo valutare per quella particolare posizione quale parola andare a pigliare da questo inventario. Un fenomeno molto interessante da studiare.
RABONI Non si tratta della parola giusta per dire ciò che ho chiaramente in testa di dire. Io penso che la parola giusta sia la parola che misteriosamente aggiunge senso a quel che il poeta vuol dire. Altrimenti, il poeta sarebbe il più chiaro espositore del pensiero. Invece la poesia è altro: è pensiero, però emozionato, pensiero assolutamente inscindibile da una serie di emozioni che non sono contenute nel pensiero razionale. Quindi, io non so bene da dove vengano le «parole giuste». E’ vero, ispirazione è qualcosa di desueto, che sa di romanticheria. Valéry diceva: il primo verso viene da Dio, tutti gli altri dal lavoro. Ciò vuol dire che c’è un momento in cui il poeta sa di dover parlare di quella determinata cosa e non sa né come, né di che cosa esattamente si tratti. Sente una necessità, magari legata a un accostamento di parole o a un giro di frase o a un fantasma sonoro, un ritmo, una cadenza. Vien voglia di chiamarlo un momento di aspirazione, come fosse un vuoto da cui si è aspirati e che ti fa precipitare in qualcosa che ancora non sappiamo ma che sentiamo di dover dire.
Come può un comune lettore accostarsi a un testo tanto complesso, tenendo presenti tutti gli aspetti inscindibili che fanno il senso del linguaggio poetico?
SEVERINO E’ impossibile prescindere dal contenuto. Un lettore che si lasci trascinare solo dal ritmo non capirebbe. E’ la storia del contenuto a determinare la storia della poesia. Io vorrei sottolineare la necessità di non considerare la poesia come un fenomeno separato dalla storia della nostra civiltà occidentale, che per me è storia della follia. Sarebbe impossibile capire la poesia indipendentemente da ciò che è stata la storia dell’essenza della nostra civiltà, e cioè un transito dal riferimento al divino alla cancellazione del divino.
BONCINELLI Ho sempre letto poesia e continuo a leggerla. Mi piacciono i greci, Shakespeare, Leopardi. Però se uno mi chiedesse perché e come leggo, non sarei sicuro di saper rispondere. Direi forse per una specie di intossicazione, di abitudine. Rispetto a quel che diceva Raboni aggiungerei due ingredienti della poesia: la concisione, e cioè l’espressione di pensieri come grumi e in una grande intensità; e poi il suo valore collettivo. Si cercano le parole sapendo che arriveranno a qualcuno. E poi abbiamo dimenticato l’immagine, che non è né suono né pensiero. I poeti sono dei creatori capaci di trovare una sintesi solidale di immagini e parole. L’aspetto creativo, l’inventare qualcosa che non c’era, unisce poesia, filosofia e scienza. Ma dovremmo chiederci perché questa immagine, quando è poetica, viene condivisa da un altissimo numero di persone.
Perché, Raboni?
RABONI La poesia raggiunge una quantità nettamente superiore di persone rispetto a una verità scientifica o filosofica perché arriva anche ad altre parti dell’attenzione umana e non solo al cervello. Insomma, arriva a colpire anche con un’emozione, mentre la filosofia non emoziona, persuade. La poesia si rivolge all’uomo nella sua totalità di essere pensante e emozionabile. Le immagini non sono esclusive della poesia. Credo che lo specifico della poesia sia avere tutto questo in forma sincretica, se si può dire. Ha la capacità di emozionare con il suono come la musica, ha la capacità di comunicare con le immagini come la pittura o la scultura, ha la capacità anche di trasmettere contenuti intellettuali come la filosofia. Di tutto questo il lettore può cogliere quel che gli interessa o lo colpisce di più.
Si è parlato di necessità della poesia da parte di chi scrive. Ma in generale, capovolgendo le cose, si può dire che oggi la nostra società ha necessità di poesia? O la poesia viene percepita come qualcosa in più che riguarda più l’individuo che la collettività?
BONCINELLI La società di oggi ha tutto e vuole tutto e il contrario di tutto. Ha tempo libero e lo deve spendere in qualche maniera. C’è la droga, c’è la violenza e fortunatamente ci sono anche la scienza, la filosofia e la poesia. Ci siamo specializzati, è vero, ma questo è avvenuto perché siamo cresciuti di numero e si è stimolata una diversificazione a volte anche a detrimento della qualità. Siamo talmente tanti e diversi, nonostante quel che si dice abbiamo un livello di diversità biologica infinitamente maggiore che in passato. Quindi è giusto che ci sia una offerta diversificata. Non so se sia necessaria, ma direi che uno che si accosta alla poesia ha un’acquisizione perenne.
SEVERINO La poesia non è nata come individualità, perché il linguaggio festivo si costituisce nel sacro. Il linguaggio profano, invece, per lo più è parlato dai singoli: affinché un linguaggio venga riconosciuto e diventi linguaggio sociale bisogna che le parole dei singoli si confrontino in quel luogo che è la festa. La festa si lega al teatro, alla chiesa, a qualcosa di collettivo e di corale. Se pensiamo a ciò, allora è una decadenza per la poesia diventare una lettura dell’individuo scisso dagli altri individui. E’ un fenomeno che conferma l’atomizzazione della nostra società.
RABONI Io non so se ci sia necessità di poesia. Però nel linguaggio comune sia il sostantivo sia l’aggettivo vengono usati metaforicamente per indicare un valore, per indicare qualcosa di bello, di importante, di alto. Qualcosa vorrà pur dire.

lunedì 9 febbraio 2004

Dal blog di Giulio M...

Dal blog di Giulio Mozzi (http://giuliomozzi.clarence.com)


 


Corso di scrittura e narrazione, 22


 


Buongiorno. Un giorno sì e un giorno no c’è un lettore (quasi mai una lettrice: ne parliamo settimana prossima) che mi domanda: “Ma se io voglio mandare un dattiloscritto alle case editrici, come devo presentarlo?”. La domanda sembra banale e non lo è. Io ricevo due o tre dattiloscritti al giorno (a casa mia; altrettanti ne arrivano in casa editrice) e naturalmente non mi è possibile leggerli tutti integralmente. Ho imparato con l’esperienza che alcune caratteristiche del dattiloscritto, anche caratteristiche fisiche, sono significative. Ogni tanto mi viene in mente che si potrebbe inventare una disciplina simile alla grafologia, ma per i dattiloscritti (“dattilografologia”?). Quindi, in somma, qui cerco di dare alcuni consigli per la presentazione dei dattiloscritti alle case editrici. Cominciamo:


1. Il dattiloscritto deve essere leggibile. Sembra un consiglio stupido per eccesso di ovvietà; ma non è così. Ricevo parecchi dattiloscritti quasi illeggibili. La leggibilità è assicurata da: corpo del carattere non troppo grande e non troppo piccolo (l’ideale è l’11 o il 12); carattere non troppo semplice e non troppo elaborato (Garamond e Times sono l’ideale; Arial, Helvetica e simili sono più faticosi da leggere; assolutamente da evitare i caratteri più complicati, in particolare quelli che imitano il corsivo); foglio con ampi margini (diciamo 4 centimetri per parte); interlinea normale, non più stretto né più largo di quello che il vostro sistema di scrittura propone come standard; rientro a inizio paragrafo (di 0,25 centimetri, in linea di massima). In particolare, spesso ricevo dattiloscritti con margini minimi, tipo un centimetro e mezzo: la riga di testo risulta così lunga che la lettura è faticosissima. Immaginate: se questo foglio di giornale non fosse impaginato sei colonne, ma fosse tutto un colonnone unico, riuscireste a leggerlo?


2. Sul dattiloscritto scrivete il vostro nome, cognome, indirizzo, numero di telefono, e-mail, tutto quanto. Mi è successo di ricevere dattiloscritti senza i dati dell’autore.


3. Mandate il dattiloscritto intero. Non mandate due capitoli scrivendo: “Se vi sembrerà interessante, chiedetemi pure i successivi: sarò felice di mandarveli”). Non esiste. Non mandate una lettera con una “scheda” del vostro romanzo: mandate il romanzo.


4. Se mandate il vostro dattiloscritto a una casa editrice, cioè a un’azienda, mandatelo pure senza preavviso. Se lo mandate a una persona privata (ad esempio a me) e avete la possibilità di chiedere permesso (per telefono, via posta elettronica) fàtelo: è una gentilezza.


5. Non mandate un file via posta elettronica, a meno che vi sia esplicitamente richiesto. Già mi sobbarco l’onere di leggervi, perché mai dovrei mettere io i soldi dell’inchiostro e della stampa? (Nonché il tempo per stampare).


6. Mandate un dattiloscritto rilegato con la spirale di plastica, cioè con una rilegatura che possa essere facilmente disfata. In questo modo, se l’editore vorrà fotocopiarlo (per passarlo a più lettori, ad esempio), gli basterà sfilare la spirale e passare tutto nella copiatrice automatica. Se rilegate con graffe, colla, spirali di metallo ecc., l’editore dovrà far fotocopiare il libro pagina per pagina (in alternativa, sfascerà il vostro bell’oggetto rilegato).


7. Non mandate dattiloscritti “per ricevere un giudizio”. Se io comincio a leggere un testo, e a pagina 10 mi rendo conto che chi l’ha scritto non sa l’italiano, è chiaro che interrompo la lettura (magari sfogliacchio un po’, tanto per essere sicuro). A quel punto io so che quel testo non è leggibile; ma non posso emettere un “giudizio”. Io sono pagato (dall’editore) per scegliere libri da pubblicare: non per fare il critico letterario su tutto ciò che mi arriva in casa. Oltretutto, il giudizio è quasi sempre negativo (statistica: su mille dattiloscritti, non più di cento sono leggibili; non più di dieci sono davvero interessanti; uno o due sono pubblicabili). E nessun editore (nemmeno io) ha voglia di spendere tempo su un testo, nel momento in cui ha deciso che quel testo non è almeno davvero interessante. Io inizialmente cedevo: dicevo alla persona che cosa effettivamente pensavo di ciò che avevo letto. Quindi mi toccava dire: “Guardi, il suo romanzo mi è sembrato bruttissimo. È evidente che lei non ha la minima idea di che cosa sia la lingua italiana”, eccetera. In cambio ricevevo insulti. Vale la pena di conversare un po’ con l’autore, ed eventualmente di avviare un rapporto continuativo, se il testo, alla prova della lettura, sembra avere più potenzialità che risultati. Ma sono, al solito, assai pochi casi.


8. È bene se unite al dattiloscritto una lettera di autopresentazione. Dite chi siete, di che campate, se avete figli, cose così. Se avete vinto premi letterari per racconti e romanzi inediti, non scrivetelo. Se il vostro professore d’italiano del liceo diceva che scrivevate benissimo, non scrivetelo. Se siete laureati, non fatevi fare una lettera di raccomandazione dal professore con cui avete fatta la tesi. Se avete pubblicato un libro a vostre spese, allegàtelo al dattiloscritto; ma non allegate gli articoli che sono usciti sui giornali locali. In somma, ricordàtevi di questo: il lettore professionista che legge il vostro dattiloscritto, è interessato solo al dattiloscritto.


9. Scegliete bene la casa editrice alla quale mandare il dattiloscritto. Andate in libreria, guardate che cosa pubblica l’editore Tale e che cos’altro pubblica l’editore Talaltro, e fate la vostra scelta. Mi ricordo di un tizio, di professione geometra, che aveva mandati i suoi romanzi agli editori Pirola e Maggioli. Pirola e Maggioli fanno libri di argomento legale, fiscale, economico, edile: non certo romanzi. Ma lui, il geometra, conosceva solo Pirola e Maggioli. Sia Mondadori sia Einaudi o Garzanti o Guanda fanno narrativa, ma non esattamente lo stesso tipo di narrativa. Se scrivete poesie, non mandatele a me: lavoro per un editore che fa solo prosa. E così via. Bene. Questo è tutto. Alla prossima. Arrivederci.



 


Corso di scrittura e narrazione, 23

Dal blog di Giulio M...

Dal blog di Giulio Mozzi (http://giuliomozzi.clarence.com)


 


Corso di scrittura e narrazione, 22


 


Buongiorno. Un giorno sì e un giorno no c’è un lettore (quasi mai una lettrice: ne parliamo settimana prossima) che mi domanda: “Ma se io voglio mandare un dattiloscritto alle case editrici, come devo presentarlo?”. La domanda sembra banale e non lo è. Io ricevo due o tre dattiloscritti al giorno (a casa mia; altrettanti ne arrivano in casa editrice) e naturalmente non mi è possibile leggerli tutti integralmente. Ho imparato con l’esperienza che alcune caratteristiche del dattiloscritto, anche caratteristiche fisiche, sono significative. Ogni tanto mi viene in mente che si potrebbe inventare una disciplina simile alla grafologia, ma per i dattiloscritti (“dattilografologia”?). Quindi, in somma, qui cerco di dare alcuni consigli per la presentazione dei dattiloscritti alle case editrici. Cominciamo:


1. Il dattiloscritto deve essere leggibile. Sembra un consiglio stupido per eccesso di ovvietà; ma non è così. Ricevo parecchi dattiloscritti quasi illeggibili. La leggibilità è assicurata da: corpo del carattere non troppo grande e non troppo piccolo (l’ideale è l’11 o il 12); carattere non troppo semplice e non troppo elaborato (Garamond e Times sono l’ideale; Arial, Helvetica e simili sono più faticosi da leggere; assolutamente da evitare i caratteri più complicati, in particolare quelli che imitano il corsivo); foglio con ampi margini (diciamo 4 centimetri per parte); interlinea normale, non più stretto né più largo di quello che il vostro sistema di scrittura propone come standard; rientro a inizio paragrafo (di 0,25 centimetri, in linea di massima). In particolare, spesso ricevo dattiloscritti con margini minimi, tipo un centimetro e mezzo: la riga di testo risulta così lunga che la lettura è faticosissima. Immaginate: se questo foglio di giornale non fosse impaginato sei colonne, ma fosse tutto un colonnone unico, riuscireste a leggerlo?


2. Sul dattiloscritto scrivete il vostro nome, cognome, indirizzo, numero di telefono, e-mail, tutto quanto. Mi è successo di ricevere dattiloscritti senza i dati dell’autore.


3. Mandate il dattiloscritto intero. Non mandate due capitoli scrivendo: “Se vi sembrerà interessante, chiedetemi pure i successivi: sarò felice di mandarveli”). Non esiste. Non mandate una lettera con una “scheda” del vostro romanzo: mandate il romanzo.


4. Se mandate il vostro dattiloscritto a una casa editrice, cioè a un’azienda, mandatelo pure senza preavviso. Se lo mandate a una persona privata (ad esempio a me) e avete la possibilità di chiedere permesso (per telefono, via posta elettronica) fàtelo: è una gentilezza.


5. Non mandate un file via posta elettronica, a meno che vi sia esplicitamente richiesto. Già mi sobbarco l’onere di leggervi, perché mai dovrei mettere io i soldi dell’inchiostro e della stampa? (Nonché il tempo per stampare).


6. Mandate un dattiloscritto rilegato con la spirale di plastica, cioè con una rilegatura che possa essere facilmente disfata. In questo modo, se l’editore vorrà fotocopiarlo (per passarlo a più lettori, ad esempio), gli basterà sfilare la spirale e passare tutto nella copiatrice automatica. Se rilegate con graffe, colla, spirali di metallo ecc., l’editore dovrà far fotocopiare il libro pagina per pagina (in alternativa, sfascerà il vostro bell’oggetto rilegato).


7. Non mandate dattiloscritti “per ricevere un giudizio”. Se io comincio a leggere un testo, e a pagina 10 mi rendo conto che chi l’ha scritto non sa l’italiano, è chiaro che interrompo la lettura (magari sfogliacchio un po’, tanto per essere sicuro). A quel punto io so che quel testo non è leggibile; ma non posso emettere un “giudizio”. Io sono pagato (dall’editore) per scegliere libri da pubblicare: non per fare il critico letterario su tutto ciò che mi arriva in casa. Oltretutto, il giudizio è quasi sempre negativo (statistica: su mille dattiloscritti, non più di cento sono leggibili; non più di dieci sono davvero interessanti; uno o due sono pubblicabili). E nessun editore (nemmeno io) ha voglia di spendere tempo su un testo, nel momento in cui ha deciso che quel testo non è almeno davvero interessante. Io inizialmente cedevo: dicevo alla persona che cosa effettivamente pensavo di ciò che avevo letto. Quindi mi toccava dire: “Guardi, il suo romanzo mi è sembrato bruttissimo. È evidente che lei non ha la minima idea di che cosa sia la lingua italiana”, eccetera. In cambio ricevevo insulti. Vale la pena di conversare un po’ con l’autore, ed eventualmente di avviare un rapporto continuativo, se il testo, alla prova della lettura, sembra avere più potenzialità che risultati. Ma sono, al solito, assai pochi casi.


8. È bene se unite al dattiloscritto una lettera di autopresentazione. Dite chi siete, di che campate, se avete figli, cose così. Se avete vinto premi letterari per racconti e romanzi inediti, non scrivetelo. Se il vostro professore d’italiano del liceo diceva che scrivevate benissimo, non scrivetelo. Se siete laureati, non fatevi fare una lettera di raccomandazione dal professore con cui avete fatta la tesi. Se avete pubblicato un libro a vostre spese, allegàtelo al dattiloscritto; ma non allegate gli articoli che sono usciti sui giornali locali. In somma, ricordàtevi di questo: il lettore professionista che legge il vostro dattiloscritto, è interessato solo al dattiloscritto.


9. Scegliete bene la casa editrice alla quale mandare il dattiloscritto. Andate in libreria, guardate che cosa pubblica l’editore Tale e che cos’altro pubblica l’editore Talaltro, e fate la vostra scelta. Mi ricordo di un tizio, di professione geometra, che aveva mandati i suoi romanzi agli editori Pirola e Maggioli. Pirola e Maggioli fanno libri di argomento legale, fiscale, economico, edile: non certo romanzi. Ma lui, il geometra, conosceva solo Pirola e Maggioli. Sia Mondadori sia Einaudi o Garzanti o Guanda fanno narrativa, ma non esattamente lo stesso tipo di narrativa. Se scrivete poesie, non mandatele a me: lavoro per un editore che fa solo prosa. E così via. Bene. Questo è tutto. Alla prossima. Arrivederci.



 


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