venerdì 28 aprile 2006

Pagine e almanacchi

Su Vibrisse trovate la guerra degli allegati, una mia piccola riflessione sulle biblioteche che vogliono affibbiarci col Corriere della Sera  e con tutti gli altri quotidiani e periodici.

Poi nei pochi scampoli di tempo libero, il calendario scorre inesorabile e devo mettere mano SERIAMENTE alla tesi di specializzazione, sto facendo qualche pagina statica per integrare questo blog, ho iniziato con una mia piccola presentazione.

Buon ponte del primo maggio.

Pagine e almanacchi

Su Vibrisse trovate la guerra degli allegati, una mia piccola riflessione sulle biblioteche che vogliono affibbiarci col Corriere della Sera  e con tutti gli altri quotidiani e periodici.

Poi nei pochi scampoli di tempo libero, il calendario scorre inesorabile e devo mettere mano SERIAMENTE alla tesi di specializzazione, sto facendo qualche pagina statica per integrare questo blog, ho iniziato con una mia piccola presentazione.

Buon ponte del primo maggio.

puffi massoni

Puffi, una setta massonica?


Ma vi sono anche altre interpretazioni: gli ometti colorati sarebbero la risposta del Kgb alla guerra fredda. O invece dei perfetti nazisti, o dei manicheisti. Insomma, le letture si sprecano...

Di Roberto Beretta

«Noi puffi siamo così...». Già: ma così come? Massoni o comunisti, cattolici o atei, positivisti o gay? La canzoncina mica lo spiega, limitandosi ad enfatizzare il colore blu che - da solo - non dice granché.
E allora ha avuto buon gioco un sardo studioso di scintoismo, Antonio Soro, ad arruolare le buffe creature del belga Peyo in una loggia. Ne I Puffi, la «vera» conoscenza e la massoneria (Edes), Soro argomenta infatti la sua tesi secondo la quale i curiosi gnomi non sarebbero altro che una setta di iniziati gnostici, di una tendenza tuttavia minoritaria rispetto al razionalismo seguito dai riti massonici più moderni. Il Grande Puffo come un «gran maestro», insomma, e sotto di lui 99 puffi (99 come i gradi della massoneria) che vivono in case a forma di fungo in una sorta di Eden, preoccupati soltanto di sfuggire a Gargamella. Il quale simboleggia il «non iniziato» e veste di nero come un prete: non a caso, un «nemico» delle Logge. C'è poi un dettaglio filologico che induce a vedere i puffi col grembiulino addosso: la loro prima avventura si intitola «alla ricerca del flauto magico».

La vicenda potrebbe anche finire qui, in una stramberia fondata su qualche analogia azzeccata e molte illazioni peregrine. Senonché, il lavoro di Soro induce a rispolverare altre letture della medesima saga; anzitutto quella socialista. Sono tutti uguali - persino nel vestito -, vivono in una specie di comune forestale ad economia centralizzata tipo kolkhoz, non hanno nome se non per la funzione sociale che rivestono e il Grande Puffo ha la barba come Karl Marx (e non a caso è l'unico che porta calzoni e berretto rossi)... Anche questa teoria ha trovato i suoi sostenitori, Christian Fineschi e Geroge Guiggiani, che in un sito Internet di contro-informazione sui fumetti hanno spinto l'analogia alquanto in là. Puffo Quattrocchi, ad esempio, assomiglia parecchio a Trockij, e difatti lo buttano regolarmente fuori dal villaggio; lo stesso appellativo egualitario di «puffo» sarebbe un cripto-riferimento al termine «compagno», mentre Gargamella rappresenta il sistema capitalista - infatti vorrebbe tramutare gli omini blu in oro. Secondo i due interpreti, anzi, le storie puffesche costituiscono addirittura un tentativo del sinistrorso Peyo per indottrinare le masse alle idee socialiste.
Grande Puffo uguale «piccolo padre»? L'analisi è alquanto approfondita e nota ancora come nel cartoon non si faccia uso di denaro, i lavoratori cantino come tanti bravi stakanovisti e persino la marcetta che li accompagna sia piuttosto simile all'inno dell'Urss! A ciò s'aggiunga che i puffi sono nati nel 1958, in piena guerra fredda, e non ci si stupirà dunque se qualcuno non si perita di arruolarli - in modo conscio o no, su questo il dubbio resta: c'è chi sostiene che dietro il progetto di disinformazione di cartoon ci fosse il Kgb... - come quinta colonna del mondo sovietico in Occidente, in diretta contrapposizione con il «capitalista» Walt Disney. O come apologia di Cuba (il piccolo popolo di Castro e dei suoi barbudos prendono il potere nel 1959) contro l'orco americano.

Come ha notato però Massimo Introvigne, esperto di esoterismi e molto altro, Peyo alias Pierre Cuillford, morto nel 1992, era in realtà cattolico e la scuola belga cui apparteneva si richiamava alle «linee chiare» proprio in contrapposizione ai fumetti americani più violenti e meno «familiari». Se dunque i puffi adombrassero lo stile di vita della prima comunità cristiana, capace di condividere ogni cosa e costretti a nascondersi per non incappare in qualche feroce persecutore e nel suo gatto Birba (magari Nerone e i leoni del Colosseo)? Tra l'altro, il gruppo è governato da un anziano - un «presbitero» - e non comprende donne: come in un grande seminario.
Che il mondo dei puffi sia debitore in qualche modo all'universo religioso sembrano testimoniarlo pure altri particolari. Per esempio il berretto frigio, derivante dagli ambienti magici d'Oriente: lo portavano anche i re magi, quindi i sacerdoti caldei e gli adepti dei culti mitraici. E qui torna il collegamento con la gnosi e il manicheismo: in effetti (ma come in parecchi altri fumetti o nelle fiabe) la società puffosa è estremamente manichea, con bene e male nettamente separati. E c'è chi nella Puffetta ha visto incarnata la Sophia, la Sapienza esoterica riservata agli eletti.

D'altra parte, indizi diversi depongono anche per influssi paganeggianti: a cominciare dal genere stesso dei puffi, che sono gnomi o folletti dei boschi. Certi aspetti magici sono poi dichiarati, come il libro delle formule di Gargamella e gli intrugli del Grande Puffo; in fondo lo stesso linguaggio dei puffi, che sostituisce ogni verbo con «puffare», costituisce una sorta di lingua per riti o sortilegi. Altri dettagli sono più sottili: ad esempio i funghi in cui vive la popolazione bluastra richiamano da vicino certe specie allucinogene come l'amanita muscaria, usato sia dagli stregoni indiani che dagli hippies, o il peyote (anche se pare che l'autore fosse soprannominato Peyo per tutt'altro motivo: era il nomignolo che un nipotino inglese gli aveva assegnato). Dicerie di satanismo legate ai puffi sono del resto circolate negli anni Ottanta a Porto Rico e tra i gruppi cristiani fondamentalisti negli Stati Uniti, mentre in Francia il sito tradizionalista «Salve Regina» ha qualche riserva sul far vedere ai figli i puffi perché «di ispirazione comunista».

Tuttavia il più inquietante parallelo tracciato con le creature alte «due mele o poco più» riguarda indubbiamente il nazismo. Non solo Gargamella è stato trovato possedere caratteristiche caricaturali da rabbino (naso adunco, gobba, veste lunga nera) e il suo gatto, nella versione inglese, porta un nome ebraico: Azreal, come l'angelo della morte che conduce le anime al Giudice supremo. Non solo vuol mangiare i piccoli puffi, come la propaganda antisemita accusava gli ebrei di fare coi bambini. Qualcuno (in Internet) sostiene che «i puffi praticano forme nazi-platoniche di eugenetica integrale. Tutti i puffi si conformano fisicamente all'ideale del perfetto puffo, incarnato nella realtà da Puffo Forzuto, al tempo stesso Faust, Sigfrido e Arbeiter jungeriano. Puffetta è l'unica donna: ariana, bionda e con gli occhi azzurri». Nel villaggio della foresta si celebrano «liturgie politico-pagane» e tutti sono ordinati, laboriosi, virili e obbedienti come in una falange hitleriana. Sarà per questo che - pare - i cartoni animati dei puffi non vengono trasmessi in Israele?
Altre ipotesi paragonano l'ordinamento puffesco alle «città utopiche» dei filosofi illuministi, in particolare all'Eldorado descritto nel Candido di Voltaire o dal «buon selvaggio» di Rousseau o - prima ancora - nella Nuova Atlantide di Francesco Bacone: realtà in cui regna una felicità da paradiso terrestre, grazie soprattutto all'assenza di denaro; per venire invece più presso ai nostri giorni, qualche legame si può trovare con certe «comuni» ecologiche sessantottine. Chi accentua invece l'aspetto repressivo nella società degli gnomi colorati preferisce avvicinarla alle banlieues monocordi (grigie loro, blu il mondo dei puffi), che sfogano la frustrazione facendo dispetti atroci al Gargamella-sistema e agli artigli del suo gatto-polizia.

Ma l'ultima possibile lettura è legata alla storia italiana. In effetti, la serie televisiva dei Puffi è andata in onda in Italia con immenso successo dall'inizio degli anni Ottanta, contribuendo al lancio delle neonate reti Mediaset. Anzi, il gradimento popolare del cartone fu uno degli argomenti che indusse a superare molti ostacoli che i pretori mettevano allo sviluppo delle tv private. Forza Italia era di là da venire, ma un popolo azzurro esisteva già. Altro che «comunisti»...

puffi massoni

Puffi, una setta massonica?


Ma vi sono anche altre interpretazioni: gli ometti colorati sarebbero la risposta del Kgb alla guerra fredda. O invece dei perfetti nazisti, o dei manicheisti. Insomma, le letture si sprecano...

Di Roberto Beretta

«Noi puffi siamo così...». Già: ma così come? Massoni o comunisti, cattolici o atei, positivisti o gay? La canzoncina mica lo spiega, limitandosi ad enfatizzare il colore blu che - da solo - non dice granché.
E allora ha avuto buon gioco un sardo studioso di scintoismo, Antonio Soro, ad arruolare le buffe creature del belga Peyo in una loggia. Ne I Puffi, la «vera» conoscenza e la massoneria (Edes), Soro argomenta infatti la sua tesi secondo la quale i curiosi gnomi non sarebbero altro che una setta di iniziati gnostici, di una tendenza tuttavia minoritaria rispetto al razionalismo seguito dai riti massonici più moderni. Il Grande Puffo come un «gran maestro», insomma, e sotto di lui 99 puffi (99 come i gradi della massoneria) che vivono in case a forma di fungo in una sorta di Eden, preoccupati soltanto di sfuggire a Gargamella. Il quale simboleggia il «non iniziato» e veste di nero come un prete: non a caso, un «nemico» delle Logge. C'è poi un dettaglio filologico che induce a vedere i puffi col grembiulino addosso: la loro prima avventura si intitola «alla ricerca del flauto magico».

La vicenda potrebbe anche finire qui, in una stramberia fondata su qualche analogia azzeccata e molte illazioni peregrine. Senonché, il lavoro di Soro induce a rispolverare altre letture della medesima saga; anzitutto quella socialista. Sono tutti uguali - persino nel vestito -, vivono in una specie di comune forestale ad economia centralizzata tipo kolkhoz, non hanno nome se non per la funzione sociale che rivestono e il Grande Puffo ha la barba come Karl Marx (e non a caso è l'unico che porta calzoni e berretto rossi)... Anche questa teoria ha trovato i suoi sostenitori, Christian Fineschi e Geroge Guiggiani, che in un sito Internet di contro-informazione sui fumetti hanno spinto l'analogia alquanto in là. Puffo Quattrocchi, ad esempio, assomiglia parecchio a Trockij, e difatti lo buttano regolarmente fuori dal villaggio; lo stesso appellativo egualitario di «puffo» sarebbe un cripto-riferimento al termine «compagno», mentre Gargamella rappresenta il sistema capitalista - infatti vorrebbe tramutare gli omini blu in oro. Secondo i due interpreti, anzi, le storie puffesche costituiscono addirittura un tentativo del sinistrorso Peyo per indottrinare le masse alle idee socialiste.
Grande Puffo uguale «piccolo padre»? L'analisi è alquanto approfondita e nota ancora come nel cartoon non si faccia uso di denaro, i lavoratori cantino come tanti bravi stakanovisti e persino la marcetta che li accompagna sia piuttosto simile all'inno dell'Urss! A ciò s'aggiunga che i puffi sono nati nel 1958, in piena guerra fredda, e non ci si stupirà dunque se qualcuno non si perita di arruolarli - in modo conscio o no, su questo il dubbio resta: c'è chi sostiene che dietro il progetto di disinformazione di cartoon ci fosse il Kgb... - come quinta colonna del mondo sovietico in Occidente, in diretta contrapposizione con il «capitalista» Walt Disney. O come apologia di Cuba (il piccolo popolo di Castro e dei suoi barbudos prendono il potere nel 1959) contro l'orco americano.

Come ha notato però Massimo Introvigne, esperto di esoterismi e molto altro, Peyo alias Pierre Cuillford, morto nel 1992, era in realtà cattolico e la scuola belga cui apparteneva si richiamava alle «linee chiare» proprio in contrapposizione ai fumetti americani più violenti e meno «familiari». Se dunque i puffi adombrassero lo stile di vita della prima comunità cristiana, capace di condividere ogni cosa e costretti a nascondersi per non incappare in qualche feroce persecutore e nel suo gatto Birba (magari Nerone e i leoni del Colosseo)? Tra l'altro, il gruppo è governato da un anziano - un «presbitero» - e non comprende donne: come in un grande seminario.
Che il mondo dei puffi sia debitore in qualche modo all'universo religioso sembrano testimoniarlo pure altri particolari. Per esempio il berretto frigio, derivante dagli ambienti magici d'Oriente: lo portavano anche i re magi, quindi i sacerdoti caldei e gli adepti dei culti mitraici. E qui torna il collegamento con la gnosi e il manicheismo: in effetti (ma come in parecchi altri fumetti o nelle fiabe) la società puffosa è estremamente manichea, con bene e male nettamente separati. E c'è chi nella Puffetta ha visto incarnata la Sophia, la Sapienza esoterica riservata agli eletti.

D'altra parte, indizi diversi depongono anche per influssi paganeggianti: a cominciare dal genere stesso dei puffi, che sono gnomi o folletti dei boschi. Certi aspetti magici sono poi dichiarati, come il libro delle formule di Gargamella e gli intrugli del Grande Puffo; in fondo lo stesso linguaggio dei puffi, che sostituisce ogni verbo con «puffare», costituisce una sorta di lingua per riti o sortilegi. Altri dettagli sono più sottili: ad esempio i funghi in cui vive la popolazione bluastra richiamano da vicino certe specie allucinogene come l'amanita muscaria, usato sia dagli stregoni indiani che dagli hippies, o il peyote (anche se pare che l'autore fosse soprannominato Peyo per tutt'altro motivo: era il nomignolo che un nipotino inglese gli aveva assegnato). Dicerie di satanismo legate ai puffi sono del resto circolate negli anni Ottanta a Porto Rico e tra i gruppi cristiani fondamentalisti negli Stati Uniti, mentre in Francia il sito tradizionalista «Salve Regina» ha qualche riserva sul far vedere ai figli i puffi perché «di ispirazione comunista».

Tuttavia il più inquietante parallelo tracciato con le creature alte «due mele o poco più» riguarda indubbiamente il nazismo. Non solo Gargamella è stato trovato possedere caratteristiche caricaturali da rabbino (naso adunco, gobba, veste lunga nera) e il suo gatto, nella versione inglese, porta un nome ebraico: Azreal, come l'angelo della morte che conduce le anime al Giudice supremo. Non solo vuol mangiare i piccoli puffi, come la propaganda antisemita accusava gli ebrei di fare coi bambini. Qualcuno (in Internet) sostiene che «i puffi praticano forme nazi-platoniche di eugenetica integrale. Tutti i puffi si conformano fisicamente all'ideale del perfetto puffo, incarnato nella realtà da Puffo Forzuto, al tempo stesso Faust, Sigfrido e Arbeiter jungeriano. Puffetta è l'unica donna: ariana, bionda e con gli occhi azzurri». Nel villaggio della foresta si celebrano «liturgie politico-pagane» e tutti sono ordinati, laboriosi, virili e obbedienti come in una falange hitleriana. Sarà per questo che - pare - i cartoni animati dei puffi non vengono trasmessi in Israele?
Altre ipotesi paragonano l'ordinamento puffesco alle «città utopiche» dei filosofi illuministi, in particolare all'Eldorado descritto nel Candido di Voltaire o dal «buon selvaggio» di Rousseau o - prima ancora - nella Nuova Atlantide di Francesco Bacone: realtà in cui regna una felicità da paradiso terrestre, grazie soprattutto all'assenza di denaro; per venire invece più presso ai nostri giorni, qualche legame si può trovare con certe «comuni» ecologiche sessantottine. Chi accentua invece l'aspetto repressivo nella società degli gnomi colorati preferisce avvicinarla alle banlieues monocordi (grigie loro, blu il mondo dei puffi), che sfogano la frustrazione facendo dispetti atroci al Gargamella-sistema e agli artigli del suo gatto-polizia.

Ma l'ultima possibile lettura è legata alla storia italiana. In effetti, la serie televisiva dei Puffi è andata in onda in Italia con immenso successo dall'inizio degli anni Ottanta, contribuendo al lancio delle neonate reti Mediaset. Anzi, il gradimento popolare del cartone fu uno degli argomenti che indusse a superare molti ostacoli che i pretori mettevano allo sviluppo delle tv private. Forza Italia era di là da venire, ma un popolo azzurro esisteva già. Altro che «comunisti»...

martedì 25 aprile 2006

Che sarà, sarà...

Incagliavo spesso nei ricordi, che a leggerli bene ci danno direzione e senso. Del liceo tutti ricordiamo il senso bello e pieno di serenità diffuso, minchiate orbe, stavamo male nei nostri corpi che cambiavano così veloci da non darci il tempo di capire. Ripenso a Salvino, Calogero, Paride che rivedo sempre più di raro, con nessuna voglia di finire nel loro paesino per ripettinare quei ricordi che sanno di stantìo oramai. E dire che addentavo il liceo per non perderlo subito, per non lasciarlo in mano all'oblio. Dubitavo che potesse durare quello stallo ma non pensavo neanche che sarebbe successo così, senza nemmeno avere il tempo di salutarli.

Li ho rivisti alla mia laurea, alcuni, quelli più vicini, quelli che mi piace pensare non fossero solo amici dei miei quaderni ad anelli in cui riassumevo e schematizzavo le materie. Gettonati come i secchioni alla vigilia di un'interrogazione non c'è nessuno. Ora tutti ci affanniamo a realizzare i nostri piccoli sogni che spesso sono sempre ridimensionati e ridimensionabili.

Nel secondo episodio di Lost di ieri sera, nel flashback dedicato al coreano, Jin, c'era una frase segnadestino. Alla domanda del padre di Sun sui sogni del promesso sposo, lui se ne esce cambiando sogni per amore della sua bella, perché è lei il suo sogno. Ecco, questa è una buona strada. Magari un giorno parleremo compiutamente di come si vive in un Comune commissariato per infiltrazioni mafiose che da quella mafia ha ricevuto affetto (guardate il Corriere di oggi...), sino a che i commercianti di Bagheria che si trasferiscono a Palermo non pagano subito il pizzo per volere dello stesso Zu Binnu.

E pensare che una sera su Sky davano la puntata dei Simpson in cui Bart scopre una stella che poi si scopre essere un meteorite in rotta su Springfield, finisce che tutti i gialli si nascondono nel rifugio di Flanders e il povero baffuto deve uscire per dare spazio agli altri cantando "Che sarà, sarà...". Quella sera, in quella cena a base di pizza con melanzane sono cresciuto di botto. Sempre per quelle lezioni di vita che l'Isola triangolare, la vecchia terra di Demetra ci dona senza preavviso. Fu una lezione lunga e dolorosa.

Fra qualche anno, quando non ci sarà più nessuno dei protagonisti pronto a intentarmi causa magari vi racconterò che cosa successe quella lunga notte, in quel balcone in cui ho fumato l'ultima Marlboro della mia vita.

Che sarà, sarà...

Incagliavo spesso nei ricordi, che a leggerli bene ci danno direzione e senso. Del liceo tutti ricordiamo il senso bello e pieno di serenità diffuso, minchiate orbe, stavamo male nei nostri corpi che cambiavano così veloci da non darci il tempo di capire. Ripenso a Salvino, Calogero, Paride che rivedo sempre più di raro, con nessuna voglia di finire nel loro paesino per ripettinare quei ricordi che sanno di stantìo oramai. E dire che addentavo il liceo per non perderlo subito, per non lasciarlo in mano all'oblio. Dubitavo che potesse durare quello stallo ma non pensavo neanche che sarebbe successo così, senza nemmeno avere il tempo di salutarli.

Li ho rivisti alla mia laurea, alcuni, quelli più vicini, quelli che mi piace pensare non fossero solo amici dei miei quaderni ad anelli in cui riassumevo e schematizzavo le materie. Gettonati come i secchioni alla vigilia di un'interrogazione non c'è nessuno. Ora tutti ci affanniamo a realizzare i nostri piccoli sogni che spesso sono sempre ridimensionati e ridimensionabili.

Nel secondo episodio di Lost di ieri sera, nel flashback dedicato al coreano, Jin, c'era una frase segnadestino. Alla domanda del padre di Sun sui sogni del promesso sposo, lui se ne esce cambiando sogni per amore della sua bella, perché è lei il suo sogno. Ecco, questa è una buona strada. Magari un giorno parleremo compiutamente di come si vive in un Comune commissariato per infiltrazioni mafiose che da quella mafia ha ricevuto affetto (guardate il Corriere di oggi...), sino a che i commercianti di Bagheria che si trasferiscono a Palermo non pagano subito il pizzo per volere dello stesso Zu Binnu.

E pensare che una sera su Sky davano la puntata dei Simpson in cui Bart scopre una stella che poi si scopre essere un meteorite in rotta su Springfield, finisce che tutti i gialli si nascondono nel rifugio di Flanders e il povero baffuto deve uscire per dare spazio agli altri cantando "Che sarà, sarà...". Quella sera, in quella cena a base di pizza con melanzane sono cresciuto di botto. Sempre per quelle lezioni di vita che l'Isola triangolare, la vecchia terra di Demetra ci dona senza preavviso. Fu una lezione lunga e dolorosa.

Fra qualche anno, quando non ci sarà più nessuno dei protagonisti pronto a intentarmi causa magari vi racconterò che cosa successe quella lunga notte, in quel balcone in cui ho fumato l'ultima Marlboro della mia vita.

razionalità

Ho scritto racconti, ricordi e altre amenità (perfino un'antologia sulla vita precarizzata).
E' giunto il momento di dare una sistemata a questo blog con un uso razionale delle categorie. A presto nuovi sviluppi, intanto rileggetevi i racconti...

razionalità

Ho scritto racconti, ricordi e altre amenità (perfino un'antologia sulla vita precarizzata).
E' giunto il momento di dare una sistemata a questo blog con un uso razionale delle categorie. A presto nuovi sviluppi, intanto rileggetevi i racconti...

lunedì 24 aprile 2006

La mela bucata

L'estate lumacava scodinzolandoci sui banchi e la panza dello Zio Filippo emergeva viscida e lasciva, tra i pelazzi della zona ombellicale facevano mostra di sé residui antecedenti alla morte di Taninu u panellaru. Si capiva che ci sarebbe successo qualcosa in quei tre mesi di libertà che albeggiavano appena. Il professore manco ci provò a tenerci ancorati ai banchi, si stette tutta la mattina a leggersi il giornaletto porno che aveva infilato tra le pagine del Manifesto.

La campanella si era allenata sin da maggio, giorno dopo giorno suonava sempre più presto, un minuto alla volta aveva guadagnato mezz'ora nel personalissimo fuso orario dello zio Filippo. Alle 12 e 35 il trillo rimbalzò sui banchi e sulle lavagne in cui tutti avevano scritto i loro buoni propositi, in cui campeggiava l'impegno comune di infilare lo sfilatino in più fanciulle possibili, era quello uno dei pochi pregi nel frequentare l'istituto tecnico, essendo tutti maschi uno poteva tranquillamente puzzare, scoreggiare e fuggire dalla doccia quotidiana che quelli del Liceo dovevano farsi per convivere accanto ai brufoli delle verginelle. Noi potevamo saltare tutta la trafila ormonale e piazzarci subito in pole position con le donnine appena sbocciate.

Eravamo rozzi e bisognosi di cure e le donne si sa, aspirano ad avere un cucciolotto da crescere e svezzare. Se sei bello pettinato e profumato non attiri la pietà femminile, basta trascurare per qualche mese le più elementari norme igieniche per trovare un plotone di infermierine pronte a metterti in tiro.
O almeno così ci aveva detto Francesco Paolo rincoglionendoci ricreazione dopo ricreazione.

Noi ci affidavamo a lui che si vantava di aver visto più fiche di tutto l'ordine mondiale dei ginecologi. Qualcuno malignava che poteva essere pur vero se si faceva rientrare nel computo tutte le fiche slabbrate stampate su carta su cui Francesco Paolo aveva perso la vista. Lui non si curava delle malelingue, si pettinava le sopracciglia con una spazzola d'acciaio fregata all'officina dello zio e si smerigliava qualche brufolo sparandosi un segone tra le pagine del manuale di informatica.

Francesco Paolo aveva organizzato tutta la nostra estate, in cambio di venti euro a testa ci avrebbe portato lì dove le fiche abbondavano vogliose. Lui era cresciuto a colpi di cinghia e bestemmie, suo padre gli aveva raddrizzato la schiena e i sogni e ora lui spiccava nel mucchio. Si faceva strada con intrallazzi e piccole estorsioni, gli piaceva cucire ragnatele di dissapori che servivano a ristabilire il suo ruolo di capo. Noi che manco avevamo il coraggio di andare all'edicola a comprare il calendario di Max lo veneravamo.

Era lucido e pratico nelle sue decisioni: forse un pò squadrato ma con tutti quei colpi di cinghia e quei segoni non potevamo aspettarci di meglio. Noi eravamo una dozzina di sbarbatelli, così timidi da nasconderci dietro i brufolazzi che ci sfregiavano la faccia. Avevamo la voce bianchiccia, appena ingrigita da qualche incontrollabile tono basso. Per capirci, sembravamo i cugini di campagna con i pantaloni ancora più stretti.

Tutto l'anno avevamo risparmiato per riuscire a frequentare il prestigioso tour erotico che Francesco Paolo in un impeto di creatività aveva intitolato "La Mela Bucata". Ciccio Spastico gli aveva chiesto delucidazioni sul nome. Ciccio era in grado di stare attaccato alla playstation per tredici giorni di fila, rimandando l'inevitabile evacuazione sino a diventare dello stesso colore della Preside che soffriva di una stitichezza incrosta-budella da quando aveva trovato suo marito che stantuffava una bambola gonfiabile ordinata sul sito della MariuzzAngel Sucking Cock Enterprise.
Francesco Paolo gli aveva risposto: - Hai presente la favola di Adamo ed Eva, il serpente, la mela e tutto il resto? Bene, io la vedo così: quella gran troiona di Eva stufa di quel paradiso voleva impiccantire la situazione con uno spettacolino hard, aveva chiesto aiuto al biscione che le aveva consigliato di usare la mela, Eva doveva alzarsi sulla punta dei piedi per acchiappare la melaccia che penzolava tranquilla dall'albero. E, nel farlo, doveva far vedere a quel gonzo d'Adamo uno sculettamento da manuale. La mela bucata si riferisce all'inevitabile conclusione della prima pornonovella della nostra cultura. Noi faremo pure così, bucheremo più mele possibili. Parola di Francesco Paolo, il leggendario Sfardamutande. O ci riesco o vi restituisco tutti i picciuli. Lo giuro su tua madre.

A Ciccio Spastico ciondolava la testa, si figurava tutta la faccenda secondo la rigida logica dei videogiochi, uno sparatutto in 3D, lui aveva solo la sua mazza e una missione: soddisfare sino all'estasi più donne possibili. Avrebbe bucato almeno due dozzine di mele.

Francesco Paolo aveva avuto un'idea geniale: accodarsi al viaggio dell'oratorio. Con la sua parlantina spaccacoglioni era andato da Padre Barbone, un gesuita vecchio, sputacchiante e con le piattole. Al parrino s'era presentato come un peccatore bisognoso di sostegno spirituale, una pecorella sperduta che aveva taciuto per troppo tempo la sua giovane coscienza per dedicarsi con ardore a migliaia di atti impuri. Padre Barbone si grattò la minchia in segno di ammirazione, riversò un doblone di catarro nella sputacchiera e dette il suo assenso: Francesco Paolo e quelle altre dodici anime perdute potevano seguire la settimana di silenzio e preghiera.
Il vero obiettivo di noi tredici peccatori erano le tette delle quindici giovinette del dopocomunione, era una verità universalmente riconosciuta, le baciapile erano delle grandissime troione. E avevano dei capezzolini che frizzavano contro le magliettine che il sudore le appiccicava alla pelle, ne sentivamo l'odore a metri e metri di distanza.

E così siamo partiti con dieci scatole di preservativi a testa, male che vada li lanceremo pieni d'acqua su Francesco Paolo se ci tira la sola.
Perché sta cosa del viaggio della speranza incominciava a puzzare di marcio, il volpone era pimpante, con 240 euro in più in saccoccia aveva già messo gli occhi e una decina di spunti per seghe su Marcella, la stratettuta responsabile del ritiro spirituale. Era lei che doveva tenere separati noi maschi dalle sue bambine. Lei e le sue tette ce la mettevano tutta, tra noi e le fanciulle aveva messo pure due piani zeppi di gesuiti, il ritiro si svolgeva nella bella villa che un signorotto aveva lasciato in eredità ai gesuiti. 6 piani in stile liberty.

Francesco Paolo non l'avevamo mai visto così servizievole ed educato, s'era pure pettinato i peli del culo per fare colpo su Marcella che, da grande e consumata puttanona, agitava il suo potenziale erotico per far sfacchinare il poveraccio. Non sapeva più che fare per sedurla, aveva già speso più della metà del capitale nello spaccio della canonica dove il prete portinaio arrotondava le entrate vendendoci magnum e cuccioloni a prezzi astronomici. L'astinenza dai dolci era compresa nella settimana di silenzio e preghiera, quindi le trasgressioni dovevamo pagarle a caro prezzo.

Noi avevamo adocchiato le pupe giuste per noi, Ciccio Spastico aveva puntato lo sfilatino su Maria Eleonora che portava un vestitino fiorato semitrasparente che dopo una giornata di lavoro e preghiere le si attaccava addosso mettendo in risalto il suo fisico in piena fioritura, ogni volta che il vento le alzava di qualche millimetro l'orlo del vestito, Ciccio aveva un attacco, finiva a terra a incularsi i lombrichi per stemperare l'eccitazione. Il massimo della sua vita sessuale sino ad allora era stato sognarsi Lara Croft con le zizze appuntite che, a colpi di pistola, gli faceva saltare via i vestiti prima di saltargli addosso.

Luigi Sciddicato aveva scoperto che con la poesia riusciva a rincitrullire Luisetta che era piccola e pelosa, a ogni endecasillabo Luisetta si slacciava un bottoncino della maglietta, consapevole che passata una certa età i suoi peli sarebbero stati un ostacolo blocca-approcci.
E poi scoprimmo che almeno su una cosa Francesco Paolo non aveva mentito: pure le femmine hanno gli istinti sessuali. Eravamo sconvolti: anche loro erano un ammasso in ebollizione di ormoni e curiosità.
Proprio per questo Padre Barbone passava la notte a passeggiare per i corridoi, con gli occhi che ci spiavano nel buio insivato dei corridoi, pareva una civetta, passeggiava con le gambe magre magre arraspandosi la minchia e provocando un rumore che ricordava quando Vincenzo il Salumaio infilava i pezzi di cacio nella grattugia elettrica.

Passavano così le giornate, pregando, elemosinando stentate pomiciatine da consumare quando Padre Barbone andava a cagare dopo il pranzo e la notte c'era l'inevitabile segone collettivo per stemperare l'eccitazione accumulata nella giornata.
Padre Barbone già il secondo giorno aveva commesso il suo primo errore. Colpito da come Francesco Paolo lavorava senza mai lamentarsi, sottoponendosi ai lavori più schifosi, tra cui spiccavano le spugnature a Padre Cosimo che puzzava di vecchie scoregge ed era peggio dei cani, quando lo bagnavi puzzava ancora di più. Padre Barbone fu tanto sorpreso che senza pensarci si grattò per bene e nominò Francesco Paolo nostro responsabile.

Restammo tutti alluccuti: cercavamo una fessura per farci strada e Padre Barbone ci aveva aperto nientemeno che un traforo. Non potevamo fallire, per quagliare finalmente con le nostre donzellette dovevamo però far sparire il sergente di ferro, quella Marcella che s'era piazzata nei sogni erotici di Francesco Paolo.
Ci riunimmo nei cessi del terzo piano, lì Francesco Paolo faceva le spugnature a Padre Cosimo che, oltre a puzzare di piscia di tirannosauro, era pure sordo come un'intera fabbrica di campane. Tra una spugnatura e l'altra affilammo il nostro piano. Ciccio Spastico aveva saputo dal prete portinaio che Marcella aveva un piccolo vizietto, le piaceva mettersi una vecchia tonaca come camicia da notte. Il prete portinaio era un vecchio porco, secondo lui quella con le tette grosse aveva qualche fregola particolare per i parrini e la sublimava così, andando a letto con la vecchia tonaca e nient'altro.

Francesco Paolo era sbiellato, se Marcella voleva sfogarsi con un parrino, lui avrebbe preso volentieri più voti della vecchia Democrazia Cristiana. Tutto avrebbe fatto per le promesse calde e bagnate che Marcella teneva incastrate in quell'impeccabile condotta.
Mancavano poche ore e finalmente avremmo consumato quello per cui c'eravamo allenati sin dalla nostra prima erezione.
Io aveva messo gli occhi su Carmelina che era bella, con le guance rosa e gli occhialetti sciddicati sul naso, pareva quella gran gnocca di Nicole Kidman in Eyes Wide Shut, coi capelli attaccati e gli occhialetti tondi.
Avevamo pagato e pregato, ci sentivamo come dovevano sentirsi i crociati prima di maciullare i mori del feroce Saladino. Dio lo voleva. Eravamo eccitati e blasfemi, un coktail micidiale. Padre Barbone doveva aver odorato qualcosa, e non erano le puzze di Padre Cosimo.
Per calmarci ci fece vedere i Simpson che poi bilanciò con dodici puntate di "Settimo Cielo". Ci portò pure una vascazza di gelato che pareva spacchio di toro, e per giunta lo sganciava in stitiche palline sopra dei coni che sapevano di pergamena. Non contento di questo, ogni tre coni si grattava le palle beate con la paletta del gelato. Vomitammo tutti, pure Marcella che trovò nelle sue due palline al limone quattro pelazzi di minchia e due cimici.

Le orazioni sembrarono liberatorie, cantammo i salmi con cuore lieto e con i piselli drizzati verso il cielo, crogiolandoci nel verde dei nostri sogni di sesso sfrenato e senza implicazioni. Nessuno protestò quando Padre Barbone ci spedì a letto. Erano le nove di sera.

Francesco Paolo s'attardò nella pulizia della sala mensa, strisciava quel mocio vileda con sentimento, sembrava quasi ballarci: una versione brufolosa e arrapata della Cenerentola di Walt Disney. Il mocio leccava il pavimento e i minuti passavano, il grande orologio della parete con Sant'Ingnazio che cavalcava un'ostia gigante segava la nostra attesa, sentivamo ogni minuto scivolarci addosso, liscio, verso la punta dolorante delle nostre mazze.
Nessuno riusciva a concentrarsi, Ciccio aveva portato il calendario di Alessia Marcuzzi e lo sfogliava freneticamente. Sulle tette di febbraio si bloccò pure lui. Mancavano solo due ore. Due ore e avremmo perso tutti la verginità. Io m'immaginavo un urlo liberatorio collettivo, in perfetta sincronia avremmo attraversato ciascuno l'imene della propria picciridda. Teoricamente sapevamo tutto, la pratica era un'avventura che non ci spaventava. Ogni pomeriggio della nostra vita l'avevamo passato sognando quel momento sulla tavolozza chiusa del cesso, con le mani vogliose a leggere tette con le dita come se fossero state fotografate in braille.
Maceravamo nel nostro sugo ormonale. L'attesa era quasi finita, Francesco Paolo si ritrovò un mozzicone di mocio in mano, aveva continuato a stricare il pavimento sempre più veloce. Le lumache tiravano fuori le corna a quell'ora, noi facevamo lo stesso. Se c'era qualche dubbio, l'esperienza del gelato lo aveva disintegrato. Avevamo sopportato tutto. Una fighetta soffice soffice valeva tanto? Sì, ci rispondemmo mentalmente in coro.

Marcella dormiva già, nuda dentro la tonaca. Francesco Paolo lasciò cadere il mocio e andò a fare quello per cui era nato.


Ci sentivamo come i topazzi che passano le giornate a intingere le code pelose nell'acqua tirchia e fitusa del fiume Oreto. L'attesa era finalmente finita. C'erano due strade, entrambe rischiose. O giocarsi la vita sul cornicione o superare l'ostacolo addentrandoci nel dedalo di viuzze che si snodava sotto la pancia dell'edificio. Nessuno di noi si sentiva di sfidare la legge di gravità, solo Batman e l'uomo ragno si muovevano lievi lievi sui tetti delle rispettive città. Noi preferivamo strisciare. Lo facevamo da una vita.
Sotto il pavimento della cucina c'era una botola che portava dritta in cantina, decidemmo di servircene, dalla cantina poi avremmo risalito il falso pilastro in cui correvano i tubi della fognatura. Non eravamo in America, non c'erano le condutture dell'aria condizionata.

A quell'ora Francesco Paolo aveva già consumato, almeno ci speravamo. Altrimenti ci finiva come nel vecchio proverbio che le nostre madri ci avevano spillato in testa: spesso chi va per fottere ci resta fottuto.
Rivolgemmo un'ultima occhiata a Sant'Ignazio e alla sua ostia gigante e ci calammo nel budello dove si schiantavano tutte le nostre speranze.
Io guidavo il gruppo e coccolavo i miei sogni d'amore. Da sempre mi dondolavo l'idea di regalare l'ingombrante verginità a una ragazza con gli occhi turchini, stavo per farcela. Bruciavo di passione, mi spingevo in quel buio, sempre più dentro al culo del peccato. Se ci avessero scoperto ci avrebbero rinchiuso nella cripta dei cappuccini a Palermo, insieme alla bambina mummificata e alla sua bambola. Sembravamo i Beati Paoli, avvolti nei sacchi meri dell'immondizia per evitare di macchiarci ed impuzzarci i vestiti. Ciccio aveva gli occhi fosforescenti a forza di stare incollato alla playstation, lo usavo come copilota, bastava tenere le braccia alzate e carezzare il tubo della fogna all'incontrario, sino a ciascun cesso. Saremmo sbucati dritti dritti nel cesso delle ragazze. Scavalcando così le telecamere e le bobine di filo spinato strappa-coglioni che Padre Barbone aveva messo in giro per i corridoi.
Continuavamo a salire, uno sull'altro, il falso pilastro era bello largo, di sicuro i vecchi proprietari lo usavano per nasconderci periodicamente qualche parente che aveva delle grane con gli sbirri. Ero stato io a scoprire quel passaggio segreto, cercavo un posto dove ammucciare i giornaletti porno e m'ero imbattuto nella nostra salvezza.
I tubi avevano dei rampini che li tenevano attaccati al muro, li usammo come una scala a pioli e continuammo la nostra salita. Passo dopo passo s'avvicinava la nostra meta.
- Ciccio, passami il mazzuolo. Se ho fatto bene i conti siamo sotto i cessi delle picciridde. Basta sganguliare questo falso telaio e passiamo dalla merda alla fica.

Io sono stato sempre pessimista, mi immaginavo che, pure che avevo tirato le ascisse e le ordinate per calcolare al millesimo il punto preciso dove iniziare a scavare, ci saremmo ritrovati sotto il culo rachitico di Padre barbone intento a sganciare le sue caccoline secche secche dentro alla tazza, seduto lì sudato col breviario in mano.
No, i calcoli erano corretti. Finimmo tutti nel cesso delle ragazze, lo avevo riconosciuto da quei cestini speciali che servono solo per buttare gli assorbenti già zuppi di sangue mestruale.
Era uno di quei momenti in cui il tempo si ferma e tu ti trovi lì, ritagliato dal contesto, come se stessi rivedendoti in tempo reale la moviola di quello che ancora devi dire e lo vuoi gridare a tutti che stavolta non avrai paura di poter sbagliare ancora. L'adrenalina ti pulsa sincera in corpo, i fiumi di sudore ci mettono un'eternità a scivolarti via dalla fronte. Li avevo tutti dietro, li sentivo, avevano paura. Paura per quello che avevano sognato sin dalla prima erezione consapevole. Era sempre la solita faccenda, la distanza che seapra i sogni dalla realtà è un pelo di fica su un abisso. Mio padre me lo diceva a cadenza regolare, puoi schivare perfino una raffica di mitra ma mai e poi mai potrai resistere alle promesse che svolazzano tra le cosce di una fimmina, dopo quella perla concludeva il discorso con un vecchio proverbio: "tira più un pelo di fimmina che i buoi del carro della Madonna della Milicia". I buoi del carro della Madonna del Santuario di Altavilla della Milicia sono 6, muscolosissimi, capaci di spostare i diversi quintali del carro monumentale, l'iperbole era azzeccata come poche.
E ora ne capivo tutta la sua terribile verità. Nelle faccende di sesso siamo tutti indifesi, dove siamo più umani siamo ancora più scoperchiati.
Capimmo solo allora che Francesco Paolo era ancora vergine, come e più di noi. Il dubbio divenen certezza quando l'ultimo di noi, Casimiro Sconzolato, attraversò pure lui la breccia che avevamo aperto nel cesso delle fanciulle.

Quello che avvenne dopo non ve lo posso dire, meglio ancora, non ve lo voglio dire. Perché ci siamo passati tutti, quando per la prima volta ti trovi una donna tra le braccia il cuore ti sta per traboccare fuori dallo sterno, te lo senti martellare giù, giù sino allo scroto.ò Sei tutto un punto interrogativo, il tuo corpo cerca di proteggere quello stesso pisello che non facevi che vantare come capace di sfardare mutande e reticenze. Quando stai per realizzare il film che ti sei sbobinato in testa a ogni segone ti prende una strizza che sale dalla bocca dello stomaco, scoprimmo che, per fortuna, le donne non ce l'hanno l'ansia da prestazione e soprattutto ci restammo come merli svacantati quando ci si presentò davanti la Verità nel mezzo del turbine delle nostre reciproche spacconaggini.
Mentre noi cercavamo di arrivare dalle donne, loro che sono sempre più preparate e sveglie di noi, avevano già trovato il modo di calarsi nel nostro balcone.
C'era da restarci abbagliati da quella situazione, in amore vince chi fugge. Almeno così dicono, quella lunga lunga notte non ci furono vincitori. Alla fine riuscimmo a raggiungere le ragazze e bene o male arrivò pure l'alba che ci trovò con una luce tutta nuova negli occhi.

Di Francesco Paolo sappiamo solo che quella notte qualcosa cambiò pure in lui, gettò via gli scatoloni di materiale porno che aveva accumulato nella sua vecchia vita e incominciò quella nuova chiedendo la mano di Marcella a Padre Barbone, si erano zitati col buono. Padre Barbone si scoprì che organizzava quei ritiri spirituali proprio per dare una mano ai giovani a mettere giudizio in fatto di femmine. Perché era un uomo buono e dalle larghe vedute, sapeva che oramai era anacronistico impedire ai picciotti di sfidare la curiosità e i falsi e ideologici tabù, così preparava la donnine con corsi intensivi e poi le metteva una specie di cintura di castità fatta di rosari intrecciati. Le donne se la sfilavano senza guastare manco una pallina e se la rimettevano. Sono quelle cose che solo loro sanno fare, come sfilarsi e rinfilarsi un reggiseno dalla manica di una t-shirt attillata. E Noi ci avevamo messo una vita solo per capire come sganciare i reggitette...

Non lo so se le cose andarono proprio così, l'oblio mi lecca impietoso i ricordi. E troppo spesso la fantasia cicaleggia sorniona colorando i giorni troppo uguali dell'adolescenza che ora liquidiamo con un sorriso.

Aspettando il film tratto dal Codice da Vinci

Da La Civiltà Cattolica
Quaderno 3703, 2 ottobre 2004
Recensioni, pag. 87-89


DAN BROWN, Il Codice da Vinci, Milano, Mondadori, 2003, 523, € 18,60.


Il volume è un giallo dall'intreccio avvincente. Il mistero di un assassinio conduce il lettore in una lunga notte di omicidi e di inseguimenti di polizia. Partendo da Parigi, il lettore giunge a Londra, dove, nella Charter House dell' abbazia di Westminster, sarà rive­lata l'identità del cattivo «Maestro»che aveva architettato gli assassini. L'A., proponendo come principale prova indiziaria L’Ultima Cena di Leonardo da Vinci, afferma che la figura alla destra del Cristo non sareb­be il discepolo amato ma Maria Maddalena, la quale aveva sposato Gesù e gli aveva generato un figlio. Proprio lei era il Sacro Graal del sangue di Cristo. Non solo: la Madda­lena, per disposizione di Gesù, doveva succedergli alla guida dei discepoli. La Chiesa ufficiale aveva soppresso la verità sulla relazione tra la Maddalena e Gesù e aveva fatto del suo meglio per ridurla al rango di prostituta. Erano insopportabili, per discepoli maschi, i titoli tributatile dai Padri - Ippolito, Gregorio Magno e Leone Magno ­che chiamavano una donna «apostolo degli apostoli», «la rappresentante della Chiesa» e «la nuova Eva che non annuncia la morte ma la vita»!

Fin dal XII secolo una società segreta - il Priorato di Sion -, che pratica orge sessuali rituali, ha salva­guardato il «vero» ed esplosivo segreto del Sacro Graal, cioè che Gesù si sarebbe sposato con la Maddalena e che la loro linea di sangue continuerebbe fino ai giorni nostri. In seguito alla minaccia della perdita della prelatura personale, dopo l'elezione di un nuovo Papa di tendenze progressiste, il vescovo che guida l'Opus Dei promette aiuto al Segretario di Stato. Così un membro numerario dell’Opus Dei, un ex killer convertito, è lasciato libero di recu­perare dai capi del Priorato di Sion il cryptex (un piccolo cilindro di pietra), che contiene il sensazionale segreto riguardo a Gesù e a Maria Maddalena. Non dovrebbero esserci omicidi, ma il piano si ingarbuglia. Il misterioso Maestro fornisce al nume­rario un'arma da fuoco e lo sollecita a uccidere i quattro massimi esponenti del Priorato e una suora che tenta di difendere un luogo segreto nella chiesa di Saint-Sulpice.

Il romanzo si concentra sulle vicende di sei personaggi: il fanatico ma ingegnoso vescovo dell'Opus Dei; Robert Langton, un professore di Harvard; Sophie Neveu, un'attraente criptologa francese, che scopre di esse­re una discendente di Gesù e di Maria Maddalena; Silas, un enorme killer albino; sir Leigh Teabing, un ricchissi­mo ricercatore del Sacro Graal; e un brillante detective francese, la cui rudezza nasconde un cuore d'oro. Una storia sentimentale prende l'avvio tra Robert e Sophie. Ma prima di potersi godere un weekend insieme, a Firenze, Robert torna a Parigi per localizzare il sepolcro di Maria Maddalena, nasco­sto sotto la piramide del Louvre.

Sul New York Times del 3 agosto 2003, Bruce Boucher ha richiamato gli eccentrici nonsense su Leonardo, che vengono spacciati come nuove scoperte scientifiche fisicamente fondate. Tuttavia altro c'è ancora da dire sul tentativo dell' A. di screditare il cristianesimo e di esaltare il femmi­nismo sacro, e persino il culto alla deità femminile, che si suppone sia stato tenuto «sotterrato» dai capi della Chiesa. Non pochi scrittori contemporanei hanno tentato di «provare» un legame tra Gesù e Maria Maddalena: Michael Baigent, Richard Leigh e Henry Lincoln in Holy Blood, Holy Grail (1982). Essi affermano che numerose famiglie reali europee (ma non i Windsor) sono discendenti di Gesù e Maria. Brown è più cauto e nomina solamente gli antichi Mero­vingi come appartenenti alla linea di sangue di Gesù. La sua posizione si basa sulla decifrazione del codice della pittura di Leonardo. Ma la sua interpretazione è troppo eccentrica e, francamente, disinformata.

Il Codice da Vinci è un insieme di errori storici, anche se forse inseriti per dare sensazionalità al thrilling, con la mobilitazione di tanti perso­naggi per impedire una «rivelazione»così sconvolgente. La tesi che l'impe­ratore Costantino abbia spostato il giorno del culto cristiano alla dome­nica (p. 232) è semplicemente falsa. La prova è in San Paolo e negli Atti degli Apostoli, che narrano come, già agli albori del movimento cristiano, i credenti avessero spostato il giorno del culto dal sabato alla domenica. Questo era il giorno in cui Gesù era risorto dalla morte. Ciò che Costanti­no fece il 3 marzo del 321 fu di stabi­lire che la domenica fosse il giorno di riposo dal lavoro. Non decretò che la domenica fosse il giorno di culto per i cristiani; era già stato fatto nel sec.I.

Brown racconta che nel 325, sotto la pressione di Costantino, fu procla­mata la divinità di Cristo da parte del Concilio di Nicea. «Fino a quel punto della sua storia Gesù era stato consi­derato un profeta mortale da parte dei suoi discepoli [...J, un uomo gran­de e potente, ma niente di più che un uomo». Brown dovrebbe leggere il Vangelo secondo Giovanni, che include le parole con cui san Tomma­so chiama Gesù «Mio Signore e mio Dio», e che esprime in molti altri passaggi la divinità di Cristo. Alcuni decenni prima che fosse completato il Vangelo di Giovanni, le lettere di san Paolo affermano ripetutamente la fede in Cristo in quanto Dio. Il Concilio di Nicea non inventò la fede nella divinità di Cristo, ma aggiunse un'altra modalità di confessarla, dichiarando il suo «essere di una sola sostanza con il Padre».

Nel perorare il culto per la divi­nità femminile, Brown ignora gli studi recenti e svilisce le radici giudaiche del cristianesimo. Egli tiene a precisare che «praticamente tutti gli elementi del rituale cattolico -la mitra, l'altare, la dossologia e la comunione, l'atto di nutrirsi di Dio - furono presi direttamente dalle precedenti religioni misteri che paga­ne». Come è possibile che Brown ignori l'uso degli altari nel culto giudaico, nel quale gran parte della ritualità cristiana ha le sue radici? L'impiego della mitra da parte dei patriarchi e poi degli altri vescovi nel cristianesimo orientale ebbe origine dalla corona dell'imperatore. In Occidente l'uso della mitra può esse­re fatto risalire all'XI secolo, quando le religioni misteriche pagane erano già da tempo scomparse. La dossolo­gia cristiana («Gloria al Padre e al Figlio e allo Spirito Santo») si fonda su alcuni Salmi giudaici (ad esempio, i Salmi 8, 66, 150). L'Eucaristia ha le sue origini nella Pasqua ebraica, cele­brata da Gesù e dai suoi discepoli nella notte prima che morisse.

Un'assurdità da togliere il respiro è l'asserzione, come «dato di fatto», che il tetragramma del nome di Dio, YHWH, «derivi da Jehovah, un'unione fisica androgina tra il maschile Jah e il pre-ebraico nome di Eva, Havah». YHWH è scritto in ebraico senza alcu­na vocale. I giudei non pronunciano il nome divino, ma «Yahweh» era, così pare, la vocalizzazione corretta delle quattro consonanti. Nel XVI secolo alcuni autori cristiani introdussero il termine Jehovah, ritenendo erronea­mente che le vocali che impiegavano fossero quelle corrette. J ehovah è un nome artificiale creato meno di 500 anni fa, e certamente non si tratta di un antico nome androgino dal quale sia derivato YHWH.
Si potrebbe continuare a lungo nell'elenco degli errori storici presen­ti ne Il Codice da Vinci. In breve, non si deve dare credito ai suoi contenuti storici, al di là dell'interesse suscitato dall'intreccio.


G. Q'Collins

La mela bucata

L'estate lumacava scodinzolandoci sui banchi e la panza dello Zio Filippo emergeva viscida e lasciva, tra i pelazzi della zona ombellicale facevano mostra di sé residui antecedenti alla morte di Taninu u panellaru. Si capiva che ci sarebbe successo qualcosa in quei tre mesi di libertà che albeggiavano appena. Il professore manco ci provò a tenerci ancorati ai banchi, si stette tutta la mattina a leggersi il giornaletto porno che aveva infilato tra le pagine del Manifesto.

La campanella si era allenata sin da maggio, giorno dopo giorno suonava sempre più presto, un minuto alla volta aveva guadagnato mezz'ora nel personalissimo fuso orario dello zio Filippo. Alle 12 e 35 il trillo rimbalzò sui banchi e sulle lavagne in cui tutti avevano scritto i loro buoni propositi, in cui campeggiava l'impegno comune di infilare lo sfilatino in più fanciulle possibili, era quello uno dei pochi pregi nel frequentare l'istituto tecnico, essendo tutti maschi uno poteva tranquillamente puzzare, scoreggiare e fuggire dalla doccia quotidiana che quelli del Liceo dovevano farsi per convivere accanto ai brufoli delle verginelle. Noi potevamo saltare tutta la trafila ormonale e piazzarci subito in pole position con le donnine appena sbocciate.

Eravamo rozzi e bisognosi di cure e le donne si sa, aspirano ad avere un cucciolotto da crescere e svezzare. Se sei bello pettinato e profumato non attiri la pietà femminile, basta trascurare per qualche mese le più elementari norme igieniche per trovare un plotone di infermierine pronte a metterti in tiro.
O almeno così ci aveva detto Francesco Paolo rincoglionendoci ricreazione dopo ricreazione.

Noi ci affidavamo a lui che si vantava di aver visto più fiche di tutto l'ordine mondiale dei ginecologi. Qualcuno malignava che poteva essere pur vero se si faceva rientrare nel computo tutte le fiche slabbrate stampate su carta su cui Francesco Paolo aveva perso la vista. Lui non si curava delle malelingue, si pettinava le sopracciglia con una spazzola d'acciaio fregata all'officina dello zio e si smerigliava qualche brufolo sparandosi un segone tra le pagine del manuale di informatica.

Francesco Paolo aveva organizzato tutta la nostra estate, in cambio di venti euro a testa ci avrebbe portato lì dove le fiche abbondavano vogliose. Lui era cresciuto a colpi di cinghia e bestemmie, suo padre gli aveva raddrizzato la schiena e i sogni e ora lui spiccava nel mucchio. Si faceva strada con intrallazzi e piccole estorsioni, gli piaceva cucire ragnatele di dissapori che servivano a ristabilire il suo ruolo di capo. Noi che manco avevamo il coraggio di andare all'edicola a comprare il calendario di Max lo veneravamo.

Era lucido e pratico nelle sue decisioni: forse un pò squadrato ma con tutti quei colpi di cinghia e quei segoni non potevamo aspettarci di meglio. Noi eravamo una dozzina di sbarbatelli, così timidi da nasconderci dietro i brufolazzi che ci sfregiavano la faccia. Avevamo la voce bianchiccia, appena ingrigita da qualche incontrollabile tono basso. Per capirci, sembravamo i cugini di campagna con i pantaloni ancora più stretti.

Tutto l'anno avevamo risparmiato per riuscire a frequentare il prestigioso tour erotico che Francesco Paolo in un impeto di creatività aveva intitolato "La Mela Bucata". Ciccio Spastico gli aveva chiesto delucidazioni sul nome. Ciccio era in grado di stare attaccato alla playstation per tredici giorni di fila, rimandando l'inevitabile evacuazione sino a diventare dello stesso colore della Preside che soffriva di una stitichezza incrosta-budella da quando aveva trovato suo marito che stantuffava una bambola gonfiabile ordinata sul sito della MariuzzAngel Sucking Cock Enterprise.
Francesco Paolo gli aveva risposto: - Hai presente la favola di Adamo ed Eva, il serpente, la mela e tutto il resto? Bene, io la vedo così: quella gran troiona di Eva stufa di quel paradiso voleva impiccantire la situazione con uno spettacolino hard, aveva chiesto aiuto al biscione che le aveva consigliato di usare la mela, Eva doveva alzarsi sulla punta dei piedi per acchiappare la melaccia che penzolava tranquilla dall'albero. E, nel farlo, doveva far vedere a quel gonzo d'Adamo uno sculettamento da manuale. La mela bucata si riferisce all'inevitabile conclusione della prima pornonovella della nostra cultura. Noi faremo pure così, bucheremo più mele possibili. Parola di Francesco Paolo, il leggendario Sfardamutande. O ci riesco o vi restituisco tutti i picciuli. Lo giuro su tua madre.

A Ciccio Spastico ciondolava la testa, si figurava tutta la faccenda secondo la rigida logica dei videogiochi, uno sparatutto in 3D, lui aveva solo la sua mazza e una missione: soddisfare sino all'estasi più donne possibili. Avrebbe bucato almeno due dozzine di mele.

Francesco Paolo aveva avuto un'idea geniale: accodarsi al viaggio dell'oratorio. Con la sua parlantina spaccacoglioni era andato da Padre Barbone, un gesuita vecchio, sputacchiante e con le piattole. Al parrino s'era presentato come un peccatore bisognoso di sostegno spirituale, una pecorella sperduta che aveva taciuto per troppo tempo la sua giovane coscienza per dedicarsi con ardore a migliaia di atti impuri. Padre Barbone si grattò la minchia in segno di ammirazione, riversò un doblone di catarro nella sputacchiera e dette il suo assenso: Francesco Paolo e quelle altre dodici anime perdute potevano seguire la settimana di silenzio e preghiera.
Il vero obiettivo di noi tredici peccatori erano le tette delle quindici giovinette del dopocomunione, era una verità universalmente riconosciuta, le baciapile erano delle grandissime troione. E avevano dei capezzolini che frizzavano contro le magliettine che il sudore le appiccicava alla pelle, ne sentivamo l'odore a metri e metri di distanza.

E così siamo partiti con dieci scatole di preservativi a testa, male che vada li lanceremo pieni d'acqua su Francesco Paolo se ci tira la sola.
Perché sta cosa del viaggio della speranza incominciava a puzzare di marcio, il volpone era pimpante, con 240 euro in più in saccoccia aveva già messo gli occhi e una decina di spunti per seghe su Marcella, la stratettuta responsabile del ritiro spirituale. Era lei che doveva tenere separati noi maschi dalle sue bambine. Lei e le sue tette ce la mettevano tutta, tra noi e le fanciulle aveva messo pure due piani zeppi di gesuiti, il ritiro si svolgeva nella bella villa che un signorotto aveva lasciato in eredità ai gesuiti. 6 piani in stile liberty.

Francesco Paolo non l'avevamo mai visto così servizievole ed educato, s'era pure pettinato i peli del culo per fare colpo su Marcella che, da grande e consumata puttanona, agitava il suo potenziale erotico per far sfacchinare il poveraccio. Non sapeva più che fare per sedurla, aveva già speso più della metà del capitale nello spaccio della canonica dove il prete portinaio arrotondava le entrate vendendoci magnum e cuccioloni a prezzi astronomici. L'astinenza dai dolci era compresa nella settimana di silenzio e preghiera, quindi le trasgressioni dovevamo pagarle a caro prezzo.

Noi avevamo adocchiato le pupe giuste per noi, Ciccio Spastico aveva puntato lo sfilatino su Maria Eleonora che portava un vestitino fiorato semitrasparente che dopo una giornata di lavoro e preghiere le si attaccava addosso mettendo in risalto il suo fisico in piena fioritura, ogni volta che il vento le alzava di qualche millimetro l'orlo del vestito, Ciccio aveva un attacco, finiva a terra a incularsi i lombrichi per stemperare l'eccitazione. Il massimo della sua vita sessuale sino ad allora era stato sognarsi Lara Croft con le zizze appuntite che, a colpi di pistola, gli faceva saltare via i vestiti prima di saltargli addosso.

Luigi Sciddicato aveva scoperto che con la poesia riusciva a rincitrullire Luisetta che era piccola e pelosa, a ogni endecasillabo Luisetta si slacciava un bottoncino della maglietta, consapevole che passata una certa età i suoi peli sarebbero stati un ostacolo blocca-approcci.
E poi scoprimmo che almeno su una cosa Francesco Paolo non aveva mentito: pure le femmine hanno gli istinti sessuali. Eravamo sconvolti: anche loro erano un ammasso in ebollizione di ormoni e curiosità.
Proprio per questo Padre Barbone passava la notte a passeggiare per i corridoi, con gli occhi che ci spiavano nel buio insivato dei corridoi, pareva una civetta, passeggiava con le gambe magre magre arraspandosi la minchia e provocando un rumore che ricordava quando Vincenzo il Salumaio infilava i pezzi di cacio nella grattugia elettrica.

Passavano così le giornate, pregando, elemosinando stentate pomiciatine da consumare quando Padre Barbone andava a cagare dopo il pranzo e la notte c'era l'inevitabile segone collettivo per stemperare l'eccitazione accumulata nella giornata.
Padre Barbone già il secondo giorno aveva commesso il suo primo errore. Colpito da come Francesco Paolo lavorava senza mai lamentarsi, sottoponendosi ai lavori più schifosi, tra cui spiccavano le spugnature a Padre Cosimo che puzzava di vecchie scoregge ed era peggio dei cani, quando lo bagnavi puzzava ancora di più. Padre Barbone fu tanto sorpreso che senza pensarci si grattò per bene e nominò Francesco Paolo nostro responsabile.

Restammo tutti alluccuti: cercavamo una fessura per farci strada e Padre Barbone ci aveva aperto nientemeno che un traforo. Non potevamo fallire, per quagliare finalmente con le nostre donzellette dovevamo però far sparire il sergente di ferro, quella Marcella che s'era piazzata nei sogni erotici di Francesco Paolo.
Ci riunimmo nei cessi del terzo piano, lì Francesco Paolo faceva le spugnature a Padre Cosimo che, oltre a puzzare di piscia di tirannosauro, era pure sordo come un'intera fabbrica di campane. Tra una spugnatura e l'altra affilammo il nostro piano. Ciccio Spastico aveva saputo dal prete portinaio che Marcella aveva un piccolo vizietto, le piaceva mettersi una vecchia tonaca come camicia da notte. Il prete portinaio era un vecchio porco, secondo lui quella con le tette grosse aveva qualche fregola particolare per i parrini e la sublimava così, andando a letto con la vecchia tonaca e nient'altro.

Francesco Paolo era sbiellato, se Marcella voleva sfogarsi con un parrino, lui avrebbe preso volentieri più voti della vecchia Democrazia Cristiana. Tutto avrebbe fatto per le promesse calde e bagnate che Marcella teneva incastrate in quell'impeccabile condotta.
Mancavano poche ore e finalmente avremmo consumato quello per cui c'eravamo allenati sin dalla nostra prima erezione.
Io aveva messo gli occhi su Carmelina che era bella, con le guance rosa e gli occhialetti sciddicati sul naso, pareva quella gran gnocca di Nicole Kidman in Eyes Wide Shut, coi capelli attaccati e gli occhialetti tondi.
Avevamo pagato e pregato, ci sentivamo come dovevano sentirsi i crociati prima di maciullare i mori del feroce Saladino. Dio lo voleva. Eravamo eccitati e blasfemi, un coktail micidiale. Padre Barbone doveva aver odorato qualcosa, e non erano le puzze di Padre Cosimo.
Per calmarci ci fece vedere i Simpson che poi bilanciò con dodici puntate di "Settimo Cielo". Ci portò pure una vascazza di gelato che pareva spacchio di toro, e per giunta lo sganciava in stitiche palline sopra dei coni che sapevano di pergamena. Non contento di questo, ogni tre coni si grattava le palle beate con la paletta del gelato. Vomitammo tutti, pure Marcella che trovò nelle sue due palline al limone quattro pelazzi di minchia e due cimici.

Le orazioni sembrarono liberatorie, cantammo i salmi con cuore lieto e con i piselli drizzati verso il cielo, crogiolandoci nel verde dei nostri sogni di sesso sfrenato e senza implicazioni. Nessuno protestò quando Padre Barbone ci spedì a letto. Erano le nove di sera.

Francesco Paolo s'attardò nella pulizia della sala mensa, strisciava quel mocio vileda con sentimento, sembrava quasi ballarci: una versione brufolosa e arrapata della Cenerentola di Walt Disney. Il mocio leccava il pavimento e i minuti passavano, il grande orologio della parete con Sant'Ingnazio che cavalcava un'ostia gigante segava la nostra attesa, sentivamo ogni minuto scivolarci addosso, liscio, verso la punta dolorante delle nostre mazze.
Nessuno riusciva a concentrarsi, Ciccio aveva portato il calendario di Alessia Marcuzzi e lo sfogliava freneticamente. Sulle tette di febbraio si bloccò pure lui. Mancavano solo due ore. Due ore e avremmo perso tutti la verginità. Io m'immaginavo un urlo liberatorio collettivo, in perfetta sincronia avremmo attraversato ciascuno l'imene della propria picciridda. Teoricamente sapevamo tutto, la pratica era un'avventura che non ci spaventava. Ogni pomeriggio della nostra vita l'avevamo passato sognando quel momento sulla tavolozza chiusa del cesso, con le mani vogliose a leggere tette con le dita come se fossero state fotografate in braille.
Maceravamo nel nostro sugo ormonale. L'attesa era quasi finita, Francesco Paolo si ritrovò un mozzicone di mocio in mano, aveva continuato a stricare il pavimento sempre più veloce. Le lumache tiravano fuori le corna a quell'ora, noi facevamo lo stesso. Se c'era qualche dubbio, l'esperienza del gelato lo aveva disintegrato. Avevamo sopportato tutto. Una fighetta soffice soffice valeva tanto? Sì, ci rispondemmo mentalmente in coro.

Marcella dormiva già, nuda dentro la tonaca. Francesco Paolo lasciò cadere il mocio e andò a fare quello per cui era nato.


Ci sentivamo come i topazzi che passano le giornate a intingere le code pelose nell'acqua tirchia e fitusa del fiume Oreto. L'attesa era finalmente finita. C'erano due strade, entrambe rischiose. O giocarsi la vita sul cornicione o superare l'ostacolo addentrandoci nel dedalo di viuzze che si snodava sotto la pancia dell'edificio. Nessuno di noi si sentiva di sfidare la legge di gravità, solo Batman e l'uomo ragno si muovevano lievi lievi sui tetti delle rispettive città. Noi preferivamo strisciare. Lo facevamo da una vita.
Sotto il pavimento della cucina c'era una botola che portava dritta in cantina, decidemmo di servircene, dalla cantina poi avremmo risalito il falso pilastro in cui correvano i tubi della fognatura. Non eravamo in America, non c'erano le condutture dell'aria condizionata.

A quell'ora Francesco Paolo aveva già consumato, almeno ci speravamo. Altrimenti ci finiva come nel vecchio proverbio che le nostre madri ci avevano spillato in testa: spesso chi va per fottere ci resta fottuto.
Rivolgemmo un'ultima occhiata a Sant'Ignazio e alla sua ostia gigante e ci calammo nel budello dove si schiantavano tutte le nostre speranze.
Io guidavo il gruppo e coccolavo i miei sogni d'amore. Da sempre mi dondolavo l'idea di regalare l'ingombrante verginità a una ragazza con gli occhi turchini, stavo per farcela. Bruciavo di passione, mi spingevo in quel buio, sempre più dentro al culo del peccato. Se ci avessero scoperto ci avrebbero rinchiuso nella cripta dei cappuccini a Palermo, insieme alla bambina mummificata e alla sua bambola. Sembravamo i Beati Paoli, avvolti nei sacchi meri dell'immondizia per evitare di macchiarci ed impuzzarci i vestiti. Ciccio aveva gli occhi fosforescenti a forza di stare incollato alla playstation, lo usavo come copilota, bastava tenere le braccia alzate e carezzare il tubo della fogna all'incontrario, sino a ciascun cesso. Saremmo sbucati dritti dritti nel cesso delle ragazze. Scavalcando così le telecamere e le bobine di filo spinato strappa-coglioni che Padre Barbone aveva messo in giro per i corridoi.
Continuavamo a salire, uno sull'altro, il falso pilastro era bello largo, di sicuro i vecchi proprietari lo usavano per nasconderci periodicamente qualche parente che aveva delle grane con gli sbirri. Ero stato io a scoprire quel passaggio segreto, cercavo un posto dove ammucciare i giornaletti porno e m'ero imbattuto nella nostra salvezza.
I tubi avevano dei rampini che li tenevano attaccati al muro, li usammo come una scala a pioli e continuammo la nostra salita. Passo dopo passo s'avvicinava la nostra meta.
- Ciccio, passami il mazzuolo. Se ho fatto bene i conti siamo sotto i cessi delle picciridde. Basta sganguliare questo falso telaio e passiamo dalla merda alla fica.

Io sono stato sempre pessimista, mi immaginavo che, pure che avevo tirato le ascisse e le ordinate per calcolare al millesimo il punto preciso dove iniziare a scavare, ci saremmo ritrovati sotto il culo rachitico di Padre barbone intento a sganciare le sue caccoline secche secche dentro alla tazza, seduto lì sudato col breviario in mano.
No, i calcoli erano corretti. Finimmo tutti nel cesso delle ragazze, lo avevo riconosciuto da quei cestini speciali che servono solo per buttare gli assorbenti già zuppi di sangue mestruale.
Era uno di quei momenti in cui il tempo si ferma e tu ti trovi lì, ritagliato dal contesto, come se stessi rivedendoti in tempo reale la moviola di quello che ancora devi dire e lo vuoi gridare a tutti che stavolta non avrai paura di poter sbagliare ancora. L'adrenalina ti pulsa sincera in corpo, i fiumi di sudore ci mettono un'eternità a scivolarti via dalla fronte. Li avevo tutti dietro, li sentivo, avevano paura. Paura per quello che avevano sognato sin dalla prima erezione consapevole. Era sempre la solita faccenda, la distanza che seapra i sogni dalla realtà è un pelo di fica su un abisso. Mio padre me lo diceva a cadenza regolare, puoi schivare perfino una raffica di mitra ma mai e poi mai potrai resistere alle promesse che svolazzano tra le cosce di una fimmina, dopo quella perla concludeva il discorso con un vecchio proverbio: "tira più un pelo di fimmina che i buoi del carro della Madonna della Milicia". I buoi del carro della Madonna del Santuario di Altavilla della Milicia sono 6, muscolosissimi, capaci di spostare i diversi quintali del carro monumentale, l'iperbole era azzeccata come poche.
E ora ne capivo tutta la sua terribile verità. Nelle faccende di sesso siamo tutti indifesi, dove siamo più umani siamo ancora più scoperchiati.
Capimmo solo allora che Francesco Paolo era ancora vergine, come e più di noi. Il dubbio divenen certezza quando l'ultimo di noi, Casimiro Sconzolato, attraversò pure lui la breccia che avevamo aperto nel cesso delle fanciulle.

Quello che avvenne dopo non ve lo posso dire, meglio ancora, non ve lo voglio dire. Perché ci siamo passati tutti, quando per la prima volta ti trovi una donna tra le braccia il cuore ti sta per traboccare fuori dallo sterno, te lo senti martellare giù, giù sino allo scroto.ò Sei tutto un punto interrogativo, il tuo corpo cerca di proteggere quello stesso pisello che non facevi che vantare come capace di sfardare mutande e reticenze. Quando stai per realizzare il film che ti sei sbobinato in testa a ogni segone ti prende una strizza che sale dalla bocca dello stomaco, scoprimmo che, per fortuna, le donne non ce l'hanno l'ansia da prestazione e soprattutto ci restammo come merli svacantati quando ci si presentò davanti la Verità nel mezzo del turbine delle nostre reciproche spacconaggini.
Mentre noi cercavamo di arrivare dalle donne, loro che sono sempre più preparate e sveglie di noi, avevano già trovato il modo di calarsi nel nostro balcone.
C'era da restarci abbagliati da quella situazione, in amore vince chi fugge. Almeno così dicono, quella lunga lunga notte non ci furono vincitori. Alla fine riuscimmo a raggiungere le ragazze e bene o male arrivò pure l'alba che ci trovò con una luce tutta nuova negli occhi.

Di Francesco Paolo sappiamo solo che quella notte qualcosa cambiò pure in lui, gettò via gli scatoloni di materiale porno che aveva accumulato nella sua vecchia vita e incominciò quella nuova chiedendo la mano di Marcella a Padre Barbone, si erano zitati col buono. Padre Barbone si scoprì che organizzava quei ritiri spirituali proprio per dare una mano ai giovani a mettere giudizio in fatto di femmine. Perché era un uomo buono e dalle larghe vedute, sapeva che oramai era anacronistico impedire ai picciotti di sfidare la curiosità e i falsi e ideologici tabù, così preparava la donnine con corsi intensivi e poi le metteva una specie di cintura di castità fatta di rosari intrecciati. Le donne se la sfilavano senza guastare manco una pallina e se la rimettevano. Sono quelle cose che solo loro sanno fare, come sfilarsi e rinfilarsi un reggiseno dalla manica di una t-shirt attillata. E Noi ci avevamo messo una vita solo per capire come sganciare i reggitette...

Non lo so se le cose andarono proprio così, l'oblio mi lecca impietoso i ricordi. E troppo spesso la fantasia cicaleggia sorniona colorando i giorni troppo uguali dell'adolescenza che ora liquidiamo con un sorriso.

Aspettando il film tratto dal Codice da Vinci

Da La Civiltà Cattolica
Quaderno 3703, 2 ottobre 2004
Recensioni, pag. 87-89


DAN BROWN, Il Codice da Vinci, Milano, Mondadori, 2003, 523, € 18,60.


Il volume è un giallo dall'intreccio avvincente. Il mistero di un assassinio conduce il lettore in una lunga notte di omicidi e di inseguimenti di polizia. Partendo da Parigi, il lettore giunge a Londra, dove, nella Charter House dell' abbazia di Westminster, sarà rive­lata l'identità del cattivo «Maestro»che aveva architettato gli assassini. L'A., proponendo come principale prova indiziaria L’Ultima Cena di Leonardo da Vinci, afferma che la figura alla destra del Cristo non sareb­be il discepolo amato ma Maria Maddalena, la quale aveva sposato Gesù e gli aveva generato un figlio. Proprio lei era il Sacro Graal del sangue di Cristo. Non solo: la Madda­lena, per disposizione di Gesù, doveva succedergli alla guida dei discepoli. La Chiesa ufficiale aveva soppresso la verità sulla relazione tra la Maddalena e Gesù e aveva fatto del suo meglio per ridurla al rango di prostituta. Erano insopportabili, per discepoli maschi, i titoli tributatile dai Padri - Ippolito, Gregorio Magno e Leone Magno ­che chiamavano una donna «apostolo degli apostoli», «la rappresentante della Chiesa» e «la nuova Eva che non annuncia la morte ma la vita»!

Fin dal XII secolo una società segreta - il Priorato di Sion -, che pratica orge sessuali rituali, ha salva­guardato il «vero» ed esplosivo segreto del Sacro Graal, cioè che Gesù si sarebbe sposato con la Maddalena e che la loro linea di sangue continuerebbe fino ai giorni nostri. In seguito alla minaccia della perdita della prelatura personale, dopo l'elezione di un nuovo Papa di tendenze progressiste, il vescovo che guida l'Opus Dei promette aiuto al Segretario di Stato. Così un membro numerario dell’Opus Dei, un ex killer convertito, è lasciato libero di recu­perare dai capi del Priorato di Sion il cryptex (un piccolo cilindro di pietra), che contiene il sensazionale segreto riguardo a Gesù e a Maria Maddalena. Non dovrebbero esserci omicidi, ma il piano si ingarbuglia. Il misterioso Maestro fornisce al nume­rario un'arma da fuoco e lo sollecita a uccidere i quattro massimi esponenti del Priorato e una suora che tenta di difendere un luogo segreto nella chiesa di Saint-Sulpice.

Il romanzo si concentra sulle vicende di sei personaggi: il fanatico ma ingegnoso vescovo dell'Opus Dei; Robert Langton, un professore di Harvard; Sophie Neveu, un'attraente criptologa francese, che scopre di esse­re una discendente di Gesù e di Maria Maddalena; Silas, un enorme killer albino; sir Leigh Teabing, un ricchissi­mo ricercatore del Sacro Graal; e un brillante detective francese, la cui rudezza nasconde un cuore d'oro. Una storia sentimentale prende l'avvio tra Robert e Sophie. Ma prima di potersi godere un weekend insieme, a Firenze, Robert torna a Parigi per localizzare il sepolcro di Maria Maddalena, nasco­sto sotto la piramide del Louvre.

Sul New York Times del 3 agosto 2003, Bruce Boucher ha richiamato gli eccentrici nonsense su Leonardo, che vengono spacciati come nuove scoperte scientifiche fisicamente fondate. Tuttavia altro c'è ancora da dire sul tentativo dell' A. di screditare il cristianesimo e di esaltare il femmi­nismo sacro, e persino il culto alla deità femminile, che si suppone sia stato tenuto «sotterrato» dai capi della Chiesa. Non pochi scrittori contemporanei hanno tentato di «provare» un legame tra Gesù e Maria Maddalena: Michael Baigent, Richard Leigh e Henry Lincoln in Holy Blood, Holy Grail (1982). Essi affermano che numerose famiglie reali europee (ma non i Windsor) sono discendenti di Gesù e Maria. Brown è più cauto e nomina solamente gli antichi Mero­vingi come appartenenti alla linea di sangue di Gesù. La sua posizione si basa sulla decifrazione del codice della pittura di Leonardo. Ma la sua interpretazione è troppo eccentrica e, francamente, disinformata.

Il Codice da Vinci è un insieme di errori storici, anche se forse inseriti per dare sensazionalità al thrilling, con la mobilitazione di tanti perso­naggi per impedire una «rivelazione»così sconvolgente. La tesi che l'impe­ratore Costantino abbia spostato il giorno del culto cristiano alla dome­nica (p. 232) è semplicemente falsa. La prova è in San Paolo e negli Atti degli Apostoli, che narrano come, già agli albori del movimento cristiano, i credenti avessero spostato il giorno del culto dal sabato alla domenica. Questo era il giorno in cui Gesù era risorto dalla morte. Ciò che Costanti­no fece il 3 marzo del 321 fu di stabi­lire che la domenica fosse il giorno di riposo dal lavoro. Non decretò che la domenica fosse il giorno di culto per i cristiani; era già stato fatto nel sec.I.

Brown racconta che nel 325, sotto la pressione di Costantino, fu procla­mata la divinità di Cristo da parte del Concilio di Nicea. «Fino a quel punto della sua storia Gesù era stato consi­derato un profeta mortale da parte dei suoi discepoli [...J, un uomo gran­de e potente, ma niente di più che un uomo». Brown dovrebbe leggere il Vangelo secondo Giovanni, che include le parole con cui san Tomma­so chiama Gesù «Mio Signore e mio Dio», e che esprime in molti altri passaggi la divinità di Cristo. Alcuni decenni prima che fosse completato il Vangelo di Giovanni, le lettere di san Paolo affermano ripetutamente la fede in Cristo in quanto Dio. Il Concilio di Nicea non inventò la fede nella divinità di Cristo, ma aggiunse un'altra modalità di confessarla, dichiarando il suo «essere di una sola sostanza con il Padre».

Nel perorare il culto per la divi­nità femminile, Brown ignora gli studi recenti e svilisce le radici giudaiche del cristianesimo. Egli tiene a precisare che «praticamente tutti gli elementi del rituale cattolico -la mitra, l'altare, la dossologia e la comunione, l'atto di nutrirsi di Dio - furono presi direttamente dalle precedenti religioni misteri che paga­ne». Come è possibile che Brown ignori l'uso degli altari nel culto giudaico, nel quale gran parte della ritualità cristiana ha le sue radici? L'impiego della mitra da parte dei patriarchi e poi degli altri vescovi nel cristianesimo orientale ebbe origine dalla corona dell'imperatore. In Occidente l'uso della mitra può esse­re fatto risalire all'XI secolo, quando le religioni misteriche pagane erano già da tempo scomparse. La dossolo­gia cristiana («Gloria al Padre e al Figlio e allo Spirito Santo») si fonda su alcuni Salmi giudaici (ad esempio, i Salmi 8, 66, 150). L'Eucaristia ha le sue origini nella Pasqua ebraica, cele­brata da Gesù e dai suoi discepoli nella notte prima che morisse.

Un'assurdità da togliere il respiro è l'asserzione, come «dato di fatto», che il tetragramma del nome di Dio, YHWH, «derivi da Jehovah, un'unione fisica androgina tra il maschile Jah e il pre-ebraico nome di Eva, Havah». YHWH è scritto in ebraico senza alcu­na vocale. I giudei non pronunciano il nome divino, ma «Yahweh» era, così pare, la vocalizzazione corretta delle quattro consonanti. Nel XVI secolo alcuni autori cristiani introdussero il termine Jehovah, ritenendo erronea­mente che le vocali che impiegavano fossero quelle corrette. J ehovah è un nome artificiale creato meno di 500 anni fa, e certamente non si tratta di un antico nome androgino dal quale sia derivato YHWH.
Si potrebbe continuare a lungo nell'elenco degli errori storici presen­ti ne Il Codice da Vinci. In breve, non si deve dare credito ai suoi contenuti storici, al di là dell'interesse suscitato dall'intreccio.


G. Q'Collins

sabato 22 aprile 2006

Stefano D'Arrigo e l'unico ponte possibile

Il preannunciato traghettamento in Word Press non decolla, pensavo che fosse impossibile ma WP è più instabile di Splinder.
E poi a questo non luogo oramai mi ci sono affezionato.

Fuori la gente si prepara per il grande esodo, il ponte del 25 aprile è l'unico ponte che la gente vuole davvero. A Messina e Reggio Calabria stanno bene così, con i traghetti che inghiottono treni, pullman e auto e li sputano da una costa all'altra, immemori di Scilla e Cariddi a cui Stefano D'Arrigo, autore che dedicò la vita ad Horcynus Orca con cui hanno lottato in questi 29 anni orde di critici, detrattori o entusiasti.

Ho ricevuto il libro-vita di D'Arrigo l'anno scorso per il mio 23simo compleanno (me lo poteva regalare solo chi mi conosce DAVVERO bene). L'ho affrontato più e più volte, invano. Ora voglio completare la triade con la prima edizione del manoscritto (I fatti della fera) e Cima delle nobildonne.



«Ho costantemente cercato di fare coincidere i fatti narrati con l'espressione, la scrittura con l'occhio e con l'orecchio, rifiutando qualunque modulo che mi apparisse parziale, astratto o intuitivo, cioè non completo e assoluto. Non ho rinunciato a nessun materiale linguistico disponibile perché sono partito dall'obiettiva sicurezza che i luoghi della mia narrazione – luoghi topografici ma soprattutto luoghi del testo – restino un fondamentale punto d'incontro e filtraggio delle lingue del mondo. Naturalmente, ogni volta che ho adoperato neologismi o semantiche inedite mi sono preoccupato di fornire immediatamente il corrispettivo metaforico, di scrivere, riscrivere, rifondare il periodo e 'mirare' il vocabolo finché non giudicavo d'avere raggiunto l'espressione completa: fino al momento in cui guadagnavo la certezza che il risultato ottenuto fosse quello giusto e definitivo, che la totalità lessicale, sintattica e semantica fosse realizzata, che, sulla pagina finita, la scrittura 'parlasse'»


Stefano D'Arrigo; Scill'e cariddi. Luoghi di "Horcynus Orca", in "Lunarionuovo", Acireale 1985.


Approfondimenti in rete li trovate qui:
uno degli speciali di Genna sui Miserabili ,
un dossier sull'orca e uno speciale su D'Arrigo su Italia Libri (bella miniera di cultura, aggiungetela tra i vostri preferiti)

Stefano D'Arrigo e l'unico ponte possibile

Il preannunciato traghettamento in Word Press non decolla, pensavo che fosse impossibile ma WP è più instabile di Splinder.
E poi a questo non luogo oramai mi ci sono affezionato.

Fuori la gente si prepara per il grande esodo, il ponte del 25 aprile è l'unico ponte che la gente vuole davvero. A Messina e Reggio Calabria stanno bene così, con i traghetti che inghiottono treni, pullman e auto e li sputano da una costa all'altra, immemori di Scilla e Cariddi a cui Stefano D'Arrigo, autore che dedicò la vita ad Horcynus Orca con cui hanno lottato in questi 29 anni orde di critici, detrattori o entusiasti.

Ho ricevuto il libro-vita di D'Arrigo l'anno scorso per il mio 23simo compleanno (me lo poteva regalare solo chi mi conosce DAVVERO bene). L'ho affrontato più e più volte, invano. Ora voglio completare la triade con la prima edizione del manoscritto (I fatti della fera) e Cima delle nobildonne.



«Ho costantemente cercato di fare coincidere i fatti narrati con l'espressione, la scrittura con l'occhio e con l'orecchio, rifiutando qualunque modulo che mi apparisse parziale, astratto o intuitivo, cioè non completo e assoluto. Non ho rinunciato a nessun materiale linguistico disponibile perché sono partito dall'obiettiva sicurezza che i luoghi della mia narrazione – luoghi topografici ma soprattutto luoghi del testo – restino un fondamentale punto d'incontro e filtraggio delle lingue del mondo. Naturalmente, ogni volta che ho adoperato neologismi o semantiche inedite mi sono preoccupato di fornire immediatamente il corrispettivo metaforico, di scrivere, riscrivere, rifondare il periodo e 'mirare' il vocabolo finché non giudicavo d'avere raggiunto l'espressione completa: fino al momento in cui guadagnavo la certezza che il risultato ottenuto fosse quello giusto e definitivo, che la totalità lessicale, sintattica e semantica fosse realizzata, che, sulla pagina finita, la scrittura 'parlasse'»


Stefano D'Arrigo; Scill'e cariddi. Luoghi di "Horcynus Orca", in "Lunarionuovo", Acireale 1985.


Approfondimenti in rete li trovate qui:
uno degli speciali di Genna sui Miserabili ,
un dossier sull'orca e uno speciale su D'Arrigo su Italia Libri (bella miniera di cultura, aggiungetela tra i vostri preferiti)

venerdì 21 aprile 2006

l'unica verità sulla letteratura

"Solo quando, molti anni dopo, toccai per la prima volta il corpo della mia innamorata, capii che la letteratura può essere inferiore alla realtà".

Alberto Manguel, Una storia della lettura

addio rinviato. una storia della lettura e le derattizzazioni.

Che è un complotto splinderiano? WP per ora è irraggiungibile, e allora ve lo dico qui che il venerdì il lavoro è in uno stato strano, sospeso, come l'incredulità che anelava Wordsworth, leggevo oggi Una storia della lettura di Alberto Manguel (Oscar Mondadori, Saggi, 10,40 €), un testo che consiglio a tutti. Soprattutto  a quelli che pensano che leggere è come respirare. Qui un'intervista, Manguel per quattro anni è stato gli occhi di Borges, il libro inizia con una storia di Manguel lettore e prosegue, spaziando per i secoli, dal tentativo goffo di spiegare la fisiologia sottesa alla lettura ad alcune notizie documentate e sorprendenti, come il lettore ad alta voce dei sigarai cubani o il ritorno all'antico che rappresenta la lettura su monitor.

Lunedì i grandi capi hanno piazzato una provvidenziale derattizzazione, che come sempre cade il giorno prima di una festività per prolungare lo splendido ponte del 25 aprile...

l'unica verità sulla letteratura

"Solo quando, molti anni dopo, toccai per la prima volta il corpo della mia innamorata, capii che la letteratura può essere inferiore alla realtà".

Alberto Manguel, Una storia della lettura

addio rinviato. una storia della lettura e le derattizzazioni.

Che è un complotto splinderiano? WP per ora è irraggiungibile, e allora ve lo dico qui che il venerdì il lavoro è in uno stato strano, sospeso, come l'incredulità che anelava Wordsworth, leggevo oggi Una storia della lettura di Alberto Manguel (Oscar Mondadori, Saggi, 10,40 €), un testo che consiglio a tutti. Soprattutto  a quelli che pensano che leggere è come respirare. Qui un'intervista, Manguel per quattro anni è stato gli occhi di Borges, il libro inizia con una storia di Manguel lettore e prosegue, spaziando per i secoli, dal tentativo goffo di spiegare la fisiologia sottesa alla lettura ad alcune notizie documentate e sorprendenti, come il lettore ad alta voce dei sigarai cubani o il ritorno all'antico che rappresenta la lettura su monitor.

Lunedì i grandi capi hanno piazzato una provvidenziale derattizzazione, che come sempre cade il giorno prima di una festività per prolungare lo splendido ponte del 25 aprile...

giovedì 20 aprile 2006

Addio e grazie

Da oggi mi trovate qui

scivola via

La vita scivola via, perduta a cercare scuse per evitare di finire il programma di una materia che tanto l'appello scivola facilmente in avanti. Perduta davanti alla macchinetta del caffé col lavoratore socialmente utile che viene a schiodare dalla catacomba il collega che ha l'ufficio con l'apriporta che segnala sempre l'occupato come se fosse un cesso. Vivacchiamo semiaddormentati sino a quando rincontriamo brandelli di noi e dei nostri ricordi che inseguono il vento della sera per affermare il proprio diritto a stare in questo mondo, che come dicevano i filosofi di quella bella epoca resta ottimisticamente il migliore dei mondi possibili.

Smettendo di fumare ho ripreso a gustare cibi e sapori che non sanno più di fuligine e nicotina, splendida compagna di questa prima parte di trascorsa adolescenza  a cercare di rattoppare la vita degli altri per non vedere le falle che rischiava la mia. Da quando, udite udite, lavoro, questa parola altisonante che ormai è un sogno proibito come l'orgasmo multiplo per un'infibulata, realizzo secondo il buon vecchio Zio Marx la mia essenza sociale. In che cosa essa consista, lavorando attaccato al sito dell'INPS non so, ma è già un buon punto di partenza. Meglio di chi si illude di rinviare l'inevitabile continuando ad alzarsi alle 10.

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