CHI BRUCIA I LIBRI, chi mette al bando e uccide i poeti, sa perfettamente quello che sta facendo. Il potere indeterminato dei libri è incalcolabile. Indeterminato perché lo stesso libro, la stessa pagina, può esercitare effetti totalmente disparati sui lettori. Può esaltare o avvilire; sedurre o respingere; incitare alla virtù o alle barbarie; può valorizzare la sensibilità o banalizzarla. E la cosa più sconcertante è che può ottenere entrambi gli effetti, quasi allo stesso momento, in una risposta impulsiva così complessa, così mutevole e ibrida, che non esiste ermeneutica, né psicologia che possa predirne o calcolarne la forza. In periodi diversi della vita del lettore, lo stesso libro suscita riflessi del tutto diversi.
Non v'è fenomenologia più complessa dell'esperienza umana di quella che caratterizza gli incontri fra il testo e la ricezione, tra, come osservò Dante, i modi del linguaggio che superano la nostra comprensione e livelli di comprensione rispetto ai quali il linguaggio è inadeguato: "la debilitate de lo 'ntelleto e la cortezza del nostro parlare". Ma in questo dialogo sempre imperfetto - soltanto i libri effimeri e opportunistici possono mai essere compresi definitivamente, possono mai essere esauriti delle loro potenzialità di significato - può annidarsi una sollecitazione alla violenza, all'intolleranza, all'aggressione politica e sociale. "L'unico scrittore che a tutti noi sopravviverà", disse Sartre, "è Céline".
Esiste una pornografia della teoretica, della analitica così come dell'allusione sessuale. Alcune citazioni dai cosiddetti libri "rivelati" - il Libro di Giosuè , la Lettera di San Paolo ai romani , il Corano , Mein Kampf , il Libretto rosso di Mao - sono il preludio e la giustificazione del massacro. La tolleranza, il compromesso giacciono in un contesto di immensità. L'odio, l'irrazionalità, la libido del potere, si leggono rapidamente. Il contesto evapora nella violenza dell'acquiescenza. Di qui il dilemma, estremamente preoccupante, problematico, della censura.
E' un'ipocrisia liberale dubitare che i libri, i testi, i periodici, eccitino la sessualità, che essi possano condurre direttamente alla mimesis, alla "imitatio", dando a impulsi precedentemente vaghi e masturbatori una terribile concretezza e bisogno di realizzazione. Quale apologia libertaria si può avanzare per l'inondazione di letteratura erotica sadistica che oggi sommerge le librerie, le edicole, la rete telematica di Internet? Quale difesa si può sostenere di una letteratura programmaticamente basata sull'abuso dei minori, sull'odio razziale, e su una criminalità bieca, letteratura che oggi ci martella orecchie, occhi e coscienze? I mondi del cyberspazio e della realtà virtuale saranno saturati da pseudo autorevoli programmi grafici che suggeriscono o forniscono validi esempi di brutalità verso altri esseri umani, verso noi stessi (la ricezione, il godimento del "trash" è un'automutilazione dello spirito). Vuol dire forse che l'ideale platonico della censura è completamente sbagliato?
D'altra parte, però, i libri costituiscono la "password" per diventare migliori di quello che siamo. La capacità di provocare questa trascendenza è stata oggetto di interminabili discussioni, allegorie, decostruzioni. Le implicazioni metaforiche dell'icona ellenico-ebraica del "Libro della vita", del "Libro della rivelazione", basate sull'identificazione della divinità con il "Logos", sono millenarie e illimitate. I libri furono i messaggeri e i testimoni dei "rendez-vous" dell'uomo con Dio sin dagli antichi Sumeri. Essi svolsero le funzioni di corrieri d'amore ben prima di Catullo. In particolare, i libri e le opere d'arte incarnarono la finzione suprema di una possibile vittoria sulla morte. Gli scrittori potevano morire, ma le loro opere, più solide del bronzo, più durevoli del marmo, gli sarebbero sopravvissute: "aere perennius... exegi monumentum". La "polis" che Pindaro celebra perirà; il linguaggio in cui il poeta canta la sua ode potrà estinguersi e diventare indecifrabile. Ma attraverso la pergamena, attraverso l'elisir della traduzione, l'ode pindarica sopravviverà; continuerà ad essere cantata dalle labbra lacerate di Orfeo mentre la testa morta del poeta viene sospinta dalla corrente del fiume verso la terra della rimembranza.
Uno sbaglio tipografico può essere reso immortale (traducendo Villon,Thomas Nashe aveva scritto: "a brightness falls from her hair"; lo stampatore elisabettiano fraintese e scrisse: "a brightness falls from the air" - che divenne poi uno dei versi memorabili della poesia inglese!). L'incontro con il libro che ci cambierà la vita, così come con l'uomo o la donna che, spesso in un istante di inconsapevole riconoscimento, cambierà le nostre vite, può essere del tutto accidentale. Il testo che ci convertirà ad una fede, che ci farà aderire ad una ideologia, che darà alla nostra esistenza uno scopo e un principio, può essere rimasto esposto in una libreria di seconda mano, o in un remainder, o nella vetrina di una libreria. Può anche essere rimasto, pieno di polvere e sconosciuto, sullo scaffale di una biblioteca "accanto" al volume su cui stavamo al momento lavorando. Una astrusità acustica sulla copertina usurata può aver attratto l'occhio: Zarathustra , Westöstlicher Divan, Moby Dick,
Horcynus Orca. Fintanto che un testo sopravvive, da qualche parte su questa terra, in un silenzio per quanto sia ininterrotto, esso è suscettibile di resurrezione. Come Walter Benjamin ci ha insegnato, come Borges ha reso mitico, un libro autentico non è mai impaziente. Può aspettare dei secoli per risvegliare un'eco vitale.
Può essere un'offerta a metà prezzo su una bancarella della stazione, come fu per me il primo Celan in cui mi imbattei e che per caso aprii.
Da quel particolare e fortuito momento, la mia vita si trasformò e cercai di imparare "a language north of the future". Questa trasformazione è dialettica. Le sue parabole sono quelle dell'Annunciazione e dell'Epifania. Quanto poco sappiamo della genesi della creazione letteraria! Virtualmente noi non abbiamo accesso alla possibile neuro-chimica dell'atto e del processo immaginativo. Persino la stesura più grezza di una poesia costituisce già una fase avanzata nel viaggio verso l'articolazione e il genere performativo. Il crepuscolo, l'albeggiare e le pressioni nel subconscio all'espressione sono quasi impercettibili per noi. Mi spiego meglio: come è possibile che i segni su una tavola d'argilla, i tratti di penna o matita spesso a malapena leggibili su un brandello di fragile carta, debbano costituire una "persona" - una Beatrice, un Falstaff, un'Anna Karenina - la cui sostanza per innumerevoli lettori o spettatori eccede, nella sua "realtà", nella sua presenza fenomenica, nella sua longevità personificata e sociale, la vita stessa? (L'enigma della "persona" fittizia, più vivida, più complessa dell'esistenza del suo creatore e del suo destinatario - quale uomo o donna è bello come Elena, complicato come Amleto, e indimenticabile come Emma Bovary? - è la questione centrale, più difficile, della poetica e della psicologia). La similitudine classica è stata quella della creazione divina, di Dio che crea il mondo e l'uomo. In maniera più o meno esplicita, il grande scrittore o l'artista è stato considerato come un simulacro del "fiat" divino. Spesso l'artista si è sentito come un rivale implacabile o amorevole, come un concorrente nell'atto dell'invenzione e della rappresentazione. Per Tolstoj Dio era "l'altro orso nella foresta", da affrontare e con cui lottare. La stessa metafora dell'"ispirazione", antica come le Muse e il respiro di Dio nella voce dell'indovino o del profeta, è un tentativo di dare una spiegazione razionale alle relazioni mimetiche tra sovrannaturale e "poiesis" umana. Con una differenza fondamentale. Il problema della creazione divina "ex nihilo" è stato dibattuto in ogni principale teologia e narrazione mitologica del mistero delle origini ("incipit").
Anche il più grande scrittore entra nella dimora del linguaggio che gli pre-esiste. Egli può, entro dei limiti molto ristretti, coniare neologismi; può, come Pascoli, cercare di inspirare nuova vita in parole e persino in lingue "morte". E tuttavia non crea la sua poesia, il suo dramma, o il suo romanzo dal nulla. In teoria, ogni testo letterario immaginabile è già potenzialmente presente nel linguaggio (di qui la fantasia di Borges della biblioteca totale di Babele).
Nondimeno, la nostra conoscenza dell'alchimia della selezione, della fonetica, dell'allineamento grammaticale e semantico che produce la poesia duratura, la "dramatis persona" del dramma o del romanzo che resiste al tempo è prossima al nulla. E con il graduale abbandono, oggi, della similitudine della creazione divina, del "concetto" di ispirazione soprannaturale, la nostra ignoranza non fa che approfondirsi. Sull'altro versante della dialettica, le questioni sollevano altrettante perplessità. Qual è, precisamente, lo statuto ontologico di una poesia o di un romanzo non letto, di un dramma mai rappresentato? Forse che la ricezione, anche quando lungamente rimandata, anche quando esercitata da una minoranza esoterica, è indispensabile alla vita del testo? E se così fosse, in che modo? La nozione di lettura come processo radicalmente collaborativo è intuitivamente convincente. Il lettore attento "lavora insieme" allo scrittore. Capire un testo, "illustrarlo" nei termini della nostra immaginazione, della nostra memoria, della nostra rappresentazione associativa è, nell'ambito delle nostre capacità individuali, equivalente a "ricrearlo". I più grandi lettori di Sofocle o Shakespeare sono gli attori e i produttori che restituiscono alle parole l'esperienza vissuta. Imparare un testo a memoria significa incontrarlo a metà strada nel meraviglioso viaggio del venire ad essere. Nel corso di una "lecture bien faîte" (Péguy), il lettore si tramuta in qualcosa di paradossale, un'eco che non solo riflette il testo ma anche vi risponde con le proprie percezioni, bisogni e sfide.
Così la nostra intimità con il libro è marcatamente dialettica e reciproca: noi leggiamo il libro ma, forse, a un livello più profondo, "il libro legge noi". Eppure, a cosa è dovuta la natura arbitraria e sempre controversa di questa intimità? I testi che ci trasformano possono essere, dal punto di vista sia formale sia storico, "banali". Così come attraverso una canzonetta della musica leggera, un giallo, un romanzetto, l'effimero può balzare alla nostra coscienza e scavarci nel profondo. Il criterio di ciò che è essenziale varia da individuo a individuo, da cultura a cultura, da una stagione dell'esistenza ad un'altra. Ci sono testi fondamentali nell'adolescenza che divengono successivamente illeggibili. Ci sono testi improvvisamente riscoperti nel canone educativo e nella vita privata. La chimica del gusto, dell'ossessione e del rifiuto è altrettanto inusuale ed elusiva quanto l'estetica stessa della creazione. Individui che in parte condividono la stessa provenienza, sensibilità e ideologia possono l'uno amare un libro che l'altro detesta e l'uno ritenere kitsch quello che l'altro ritiene essere un capolavoro. Coleridge parlò degli "atomi adunchi" della coscienza che si interconnettono in modi che non siamo in grado di calcolare; Goethe fece riferimento alle "affinità elettive" - ma queste non sono che immagini. Le complicità tra lo scrittore e il lettore, tra il libro e la lettura, sono altrettanto imprevedibili, misteriose, e suscettibili di mutamento quanto quelle dell'eros. O, forse, dell'odio.
Vi sono infatti libri che ci hanno trasformato, libri indimenticabili, che uno finisce per odiare (non posso sopportare in teatro né insegnare l' Otello di Shakespeare, eppure ritengo che la versione di Verdi sia, sotto molti aspetti, il più coerente e umano miracolo). Il paradosso dell'eco vitale tra libro e lettore, il fondamentale scambio di fiducia reciproca, dipende da certe condizioni storiche e sociali. Quello che ho cercato di definire nel mio lavoro come "l'atto classico della lettura" richiede condizioni di silenzio, privacy, istruzione e concentrazione. In assenza di queste condizioni, una lettura seria, una risposta al libro che sia anche una presa di "responsabilità", non può avvenire. Leggere, nel senso vero, una pagina di Kant, una poesia di Leopardi, un capitolo di Proust, significa assicurarsi spazi di silenzio, tutela della privacy e un certo livello di istruzione linguistica e storica. Significa anche avere libero accesso agli strumenti della comprensione come dizionari, grammatiche e studi storico-critici. Dai tempi dell'Accademia nell'Atene classica fino, grosso modo, alla metà del ventesimo secolo, un simile accesso ha costituito la definizione stessa di cultura. In misura maggiore o minore, è sempre stato il privilegio, la gioia e il dovere di un'élite.
Dalla biblioteca di Alessandria allo studio di San Gerolamo, dalla torre di Montaigne allo scrittoio di Karl Marx al British Museum, le arti della concentrazione - ciò che Malebranche definì "la devozione naturale dell'anima" - sono state fondamentali per la vita del libro. E' un'ovvietà dire che queste arti sono oggi in parte logorate; e che sono diventate più e più un mestiere accademico specializzato. Il mondo occidentale è invaso dal rumore. Più dell'80 per cento degli adolescenti americani "non è in grado" di leggere in silenzio; devono avere un sottofondo di musica più o meno amplificata. La privacy, la solitudine che permette un incontro in profondità tra testo e ricezione, tra parola scritta e spirito, è oggi un'eccentrica singolarità, psicologicamente e socialmente sospetta. Non c'è bisogno che mi soffermi sul collasso della nostra istruzione secondaria, sul suo disprezzo per l'insegnamento classico e per l'esercizio della memoria. Tanto vi è nelle nostre scuole oggi una "forma di rimozione programmata". Similmente, il formato stesso del libro, la struttura dei diritti d'autore, dell'editoria tradizionale e della distribuzione libraria stanno subendo, come voi sapete meglio di me, una trasformazione rivoluzionaria.
E' già possibile per gli autori raggiungere i propri lettori direttamente su Internet, e chiedere ad essi di entrare in comunicazione diretta (l'ultimo romanzo di John Updike è stato "pubblicato" in questo modo). Così pure, più e più libri vengono letti "on line" sullo schermo del computer o ordinati in rete. Ottanta milioni di volumi alla Biblioteca del Congresso di Washington sono ora disponibili (in maniera esclusiva?) elettronicamente. "Nessuno", per quanto ben informato, può prevedere cosa accadrà al concetto di autore, di testo, di lettura individuale. Senza dubbio, questi sviluppi sono estremamente stimolanti. Implicano fondamentali emancipazioni economiche e opportunità sociali. Ma allo stesso tempo comportano anche perdite profonde. Libri scritti, curati, pubblicati e comperati "nel vecchio stile" finiranno per appartenere sempre di più alle "belles lettres", a ciò che i tedeschi pericolosamente chiamano "Unterhaltungsliteratur". Sempre più la scienza, l'informazione e la conoscenza di ogni tipo saranno trasmesse, memorizzate e trasferite attraverso mezzi elettronici.
Quelle che sono già grandi incrinature nella nostra cultura e nella nostra istruzione si allargheranno. Ecco l'estrema importanza di questa Fiera, di questo festival della lettura nell'orgogliosa città di Alfieri e di Nietzsche, di Pavese e di Primo Levi. Abbiamo più che mai bisogno di libri, ma anche loro hanno bisogno di noi. Qual più bel privilegio di porci al loro servizio?