martedì 30 marzo 2004

macchiafogli mortali...

macchiafogli mortali e innamorati


 

"Scriviamo in quanto mortali, e in quanto innamorati."
Andrea Monda mi ha regalato questo stimolo e io lo raccolgo. Lo uso per accarezzare di nuovo il mio alfabeto di plastica. Estendo il campo: scriviamo soprattutto quando ci innaffia il disamore. Niente nuvole metafisiche: scrivo. Scrivo e mi disvelo, mi rivelo per quel che sono e per quel che valgo. Mi lascio dietro due pietruzze per ritrovare il sentiero che avevo interrotto: la bella Cyrano di Guccini e l'esperienza che mi porto addosso. Amiamo di continuo e di continuo dobbiamo guadagnarci il diritto e il dovere di amare. Sia esso il nostro "simbolo" differente e complementare che l'invidia di Zeus ci obbliga a cercare per ritrovare la perduta unità, sia esso quel quid che colora i giorni troppo uguali che ci snocciolano i numeri del calendario. Non voglio credere, non posso credere che la scrittura sia solo un'estensione della nostra cognitività necessariamente linguistica. Né che un gesto carico di infinite ripercussioni come lo scrivere sia una meccanica forma di scarico delle informazioni in eccesso. C'è stato un periodo in cui ho cercato di raffigurarmi la mia necessità-scrittura come un'azione non ulteriormente rimandabile. Un atto volontario e necessario per far luce, per filtrare, per trovare un filo e -perché no- un senso a quello che mi accade. Nel frattempo ho continuato a leggere e Paul Celan mi ha trovato.


 

Dicono che noi siamo quello che leggiamo e, specularmente, noi leggiamo quello che siamo. Io sono gli incubi nel Maine di Stephen King, sono il Lettore delle notti d'inverno di Calvino, sono Odisseo e il Grande Inquisitore sconfitto dal bacio silente del Risorto. Ho aspettato nelle notti bianche il mio singolo attimo di beatitudine sognando il vecchio che sognava i leoni. Ho aspettato l'arrivo dei Tartari e dei Barbari e ora aspetto anch'io una parola ventura sotto la stella della fontana con Lolita e l'aviatore e il serpente giallo. Sono stato tutte quelle pagine. Ho scolato quelle parole, ne ho succhiato linfa e midollo e poi ho scritto. Non l'ho fatto per scaricare quello che faticavo a trattenere. L'ho fatto perché scrivere distilla un liquore vivo, vero e vitale. Non possono essere solo belle bugie bucate. Vita e arte si cercano, l'invidia le ha tagliate in due come le sogliole e poi ci hanno detto che l'arte non ha figli. La statua di Pigmalione resta una bellezza di marmo e il silenzio di neve tenta di affogare i nostri dicotomici furori. Siamo lacerati e svacantati. Abbiamo creduto che tutte le vite si assomiglino in virtù di una semplice constatazione: sono tutte raccontabili, sono tutte storie. Storie vere, storie vive. E hai capito che dovevi scegliere. E hai scelto di "vivere per raccontarla", vivere la tua vita per raccontare ogni passo dalla culla alla tomba. Ma è lecito? Le nostre vite si intersecano con migliaia di altre storie, storie che forse non vogliono - non devono?- essere narrate, storie che nell'arrivo dei barbari avevano davvero trovato una soluzione. Abbiamo a differenza degli altri animali non umani la capacità anamnestica, sappiamo cercare nei ricordi, operare selezioni di memoria. Cerco nei miei ricordi e li trovo sfocati, li scrivo per non perdermi. Per non restare vedovo ogni giorno un pò di più.


 

Ritorniamo al punto di partenza: scriviamo in quanto mortali e in quanto innamorati.
Ovvero: scriviamo perché la morte e l'amore camminano con noi. Vogliamo credere che nostro padre abbia schizzato le sue gocce di vita nella nostra "origine del mondo" in una notte di palpabile amore. 270 giorni dopo inizia la nostra storia sotto il cielo che sarà nostro e del nostro aquilone e in ogni istante remiamo contro corrente con la Morte. L'ha già scritto Heidegger e lo ricordiamo: solo consapevoli della fine della nostra storia di vita possiamo darle un senso. Vivremo autenticamente nel nostro essere-per-la-morte e ogni scelta che faremo sarà importante proprio nel suo essere una scelta. Forse il vecchio Martin sarebbe contento dei necrologi delle sigarette, quel memento listato a lutto è un valido stimolo alla consapevolezza che l'ultimo nostro capitolo è lì, davanti a noi, e ci aspetta. Di contro: scriviamo in quanto viventi e in quanto prede del disamore. Qualcuno dice che il disamore è solo una forma intossicata d'amore, noi tendiamo a considerarlo, invece, come il passaggio necessario verso un altro amore. E' la scala da usare per scalare le pianure dell'esperienza e dopo la salita va riposta per usi successivi. Viviamo, amiamo e scriviamo: scriviamo anche quando un amore finisce. Se l'amore fosse davvero eterno i cantautori e i corteggiatori della parola scritta sarebbero destinati a un'afasia certa. E' limpido: la scrittura e l'amore si devono vivere sino in fondo.


 

Arrivano due ricordi, li ho cercati e loro mi hanno trovato. Nel primo frammento sono ancora al volante della mia R4, dalle casse arriva 'With or without you' degli U-2. Ci sono io con i capelli lunghi e la prima barba timida e c'è lei, la piccola poetessa vegetariana. La nostra storia è già finita ma usciamo ancora insieme, i miei 19 anni e le sue 17 primavere non ci hanno permesso di capire che quando finisce una storia è meglio sparire. Anche per lei ho scritto e lei scriveva per me: un intero romanzo in risposta a una ventina di poesie infilate in una busta sbiadita e azzurra. Ci amavamo così, scrivendoci addosso sogni e paure. E quello che scrivevamo doveva essere il passaporto per volare via da Bagheria. Sono passati quattro anni siamo ancora qui e, quel che è peggio, scriviamo ancora. In quelle notti che non darei mai via c'è questa: io, la R4 e lei che mi dice che nessun regalo al mondo potrà superare le mie lettere. Me le ricordo bene, due lettere stampate in blu perché il nero della stampante decide di finire sempre quando ti serve. Due lettere consegnate in silenzio. Due lettere scritte per filtrare tutto quello che provavo per lei, scritte per farle capire quanto contava per me. Nella mia vita ho scritto e amato, ho amato per scrivere e ho scritto per amare. Credevo di dover eternizzare le sensazioni prima di perderle per sempre, prima di smarrirmi e ho prostituito la mia capacità di macchiafogli con lettere "strappa-mutande", ho scritto per accelerare i tempi tecnici di approccio. Ero stato mollato dopo la fine del liceo dalla mia girl senza una motivazione plausibile -ne esistono davvero di plausibili?- e dovevo capire, volevo capire e per farlo ho fatto l'unica cosa sensata, ho scritto quasi in presa diretta. Vivevo, amavo e tornavo a casa per digitare subito quei ricordi troppo freschi. Li ho fatti lievitare direttamente sul monitor e ho vissuto il paradosso, non capivo più chi viveva la mia vita, io o il mio alter-ego di carta? Dove finivo io e iniziavano Stefano Re e Ulisse Cerami?


 

Quest'anno ho toccato il fondo del pericoloso triangolo che s'innesca tra vita, amore e scrittura. Si deve essere vivi per amare, si deve essere vivi e innamorati - o disamorati- per scrivere. All'università avevo conosciuta la mia futura ex e lei aveva iniziato a scrivermi, parlavamo ore e ore ma lei aveva sentito la necessità di aprirsi ulteriormente e l'aveva fatto con la penna su fogli spiegazzati. Io non volevo risponderle, ero lacerato dall'origine di tutti i dicotomici furori (senza disturbare Platone e la critica alla scrittura del "Fedro"): avevo già conosciuto le potenzialità antitetiche della scrittura, sapevo che poteva favorirmi o annientarmi all'alba di quell'amore. E l'estate si avvicinava, ci aspettavano tre mesi di lontananza e c'erano solo due taccuini a tenerci vicini, dovevo scrivere ma dovevo decidere sin dove spingermi con le parole. Quando parliamo le parole rimbalzano sull'altro e dalle reazioni estemporanee sappiamo modificare la rotta. Impossibile con la comunicazione eterna e in differita che realizza la scrittura. Le parole scritte ci hanno avvicinato rapidamente e poi ci hanno scagliato lontano. Non volevo rinnovare vecchi errori ma era necessario, lo sentivo che non potevo trattenermi oltre. Poi la vita ci ha allontanato, l'amore si è spento lento come una nevicata ma le parole non si sono fermate. Le avevo chiesto di tagliare di netto ma gli sms e le e-mail continuavano alla fine di quel febbraio freddo e grigio. "Freddo e grigio" era una lettera per lei, finita per sbaglio e per destino nella mailing list di bombacarta. Dopo i primi complimenti -"Straordinariamente bello e scritto straordinariamente bene. Sono profondamente felice per te, per la tua consolidata maturità di senso e di stile" - non sono riuscito a specificare che quello non era un semplice racconto. Era lecito scrivere la mia storia? L'ho fatto quindi ho già dato la mia risposta. E ho avuto anche la sua: "ti avevo chiesto di non scrivere su di me, perché sapevo che avresti scritto solo interpretazioni lontanissime dalla verità. Sei riuscito ad uccidere anche stavolta la tua ex. Non ti basta?"


 

Quella domanda finale è terribile. Lei stessa mi teneva il broncio perché non avevo ancora scritto qualcosa su di lei. E' terribile perché scrivere con le dita sporche di vecchi disamori serve proprio a questo: uccidere un pensiero prima che diventi un'ossessione. Dopo che la pagina è scritta raggiungo un sereno distacco, mentre la pubblico sul sito sospendo ogni giudizio e più le persone la leggono più sento scorrere un meraviglioso oblio. Non mi appartiene più, tra poco dubiterò sulla sua verità assoluta, mi convincerò che è solo un racconto.


 

E poi? Semplicemente continuerò a vivere, amare e scrivere.



macchiafogli mortali...

macchiafogli mortali e innamorati


"Scriviamo in quanto mortali, e in quanto innamorati."
Andrea Monda mi ha regalato questo stimolo e io lo raccolgo. Lo uso per accarezzare di nuovo il mio alfabeto di plastica. Estendo il campo: scriviamo soprattutto quando ci innaffia il disamore. Niente nuvole metafisiche: scrivo. Scrivo e mi disvelo, mi rivelo per quel che sono e per quel che valgo. Mi lascio dietro due pietruzze per ritrovare il sentiero che avevo interrotto: la bella Cyrano di Guccini e l'esperienza che mi porto addosso. Amiamo di continuo e di continuo dobbiamo guadagnarci il diritto e il dovere di amare. Sia esso il nostro "simbolo" differente e complementare che l'invidia di Zeus ci obbliga a cercare per ritrovare la perduta unità, sia esso quel quid che colora i giorni troppo uguali che ci snocciolano i numeri del calendario. Non voglio credere, non posso credere che la scrittura sia solo un'estensione della nostra cognitività necessariamente linguistica. Né che un gesto carico di infinite ripercussioni come lo scrivere sia una meccanica forma di scarico delle informazioni in eccesso. C'è stato un periodo in cui ho cercato di raffigurarmi la mia necessità-scrittura come un'azione non ulteriormente rimandabile. Un atto volontario e necessario per far luce, per filtrare, per trovare un filo e -perché no- un senso a quello che mi accade. Nel frattempo ho continuato a leggere e Paul Celan mi ha trovato.


Dicono che noi siamo quello che leggiamo e, specularmente, noi leggiamo quello che siamo. Io sono gli incubi nel Maine di Stephen King, sono il Lettore delle notti d'inverno di Calvino, sono Odisseo e il Grande Inquisitore sconfitto dal bacio silente del Risorto. Ho aspettato nelle notti bianche il mio singolo attimo di beatitudine sognando il vecchio che sognava i leoni. Ho aspettato l'arrivo dei Tartari e dei Barbari e ora aspetto anch'io una parola ventura sotto la stella della fontana con Lolita e l'aviatore e il serpente giallo. Sono stato tutte quelle pagine. Ho scolato quelle parole, ne ho succhiato linfa e midollo e poi ho scritto. Non l'ho fatto per scaricare quello che faticavo a trattenere. L'ho fatto perché scrivere distilla un liquore vivo, vero e vitale. Non possono essere solo belle bugie bucate. Vita e arte si cercano, l'invidia le ha tagliate in due come le sogliole e poi ci hanno detto che l'arte non ha figli. La statua di Pigmalione resta una bellezza di marmo e il silenzio di neve tenta di affogare i nostri dicotomici furori. Siamo lacerati e svacantati. Abbiamo creduto che tutte le vite si assomiglino in virtù di una semplice constatazione: sono tutte raccontabili, sono tutte storie. Storie vere, storie vive. E hai capito che dovevi scegliere. E hai scelto di "vivere per raccontarla", vivere la tua vita per raccontare ogni passo dalla culla alla tomba. Ma è lecito? Le nostre vite si intersecano con migliaia di altre storie, storie che forse non vogliono - non devono?- essere narrate, storie che nell'arrivo dei barbari avevano davvero trovato una soluzione. Abbiamo a differenza degli altri animali non umani la capacità anamnestica, sappiamo cercare nei ricordi, operare selezioni di memoria. Cerco nei miei ricordi e li trovo sfocati, li scrivo per non perdermi. Per non restare vedovo ogni giorno un pò di più.


Ritorniamo al punto di partenza: scriviamo in quanto mortali e in quanto innamorati.
Ovvero: scriviamo perché la morte e l'amore camminano con noi. Vogliamo credere che nostro padre abbia schizzato le sue gocce di vita nella nostra "origine del mondo" in una notte di palpabile amore. 270 giorni dopo inizia la nostra storia sotto il cielo che sarà nostro e del nostro aquilone e in ogni istante remiamo contro corrente con la Morte. L'ha già scritto Heidegger e lo ricordiamo: solo consapevoli della fine della nostra storia di vita possiamo darle un senso. Vivremo autenticamente nel nostro essere-per-la-morte e ogni scelta che faremo sarà importante proprio nel suo essere una scelta. Forse il vecchio Martin sarebbe contento dei necrologi delle sigarette, quel memento listato a lutto è un valido stimolo alla consapevolezza che l'ultimo nostro capitolo è lì, davanti a noi, e ci aspetta. Di contro: scriviamo in quanto viventi e in quanto prede del disamore. Qualcuno dice che il disamore è solo una forma intossicata d'amore, noi tendiamo a considerarlo, invece, come il passaggio necessario verso un altro amore. E' la scala da usare per scalare le pianure dell'esperienza e dopo la salita va riposta per usi successivi. Viviamo, amiamo e scriviamo: scriviamo anche quando un amore finisce. Se l'amore fosse davvero eterno i cantautori e i corteggiatori della parola scritta sarebbero destinati a un'afasia certa. E' limpido: la scrittura e l'amore si devono vivere sino in fondo.


Arrivano due ricordi, li ho cercati e loro mi hanno trovato. Nel primo frammento sono ancora al volante della mia R4, dalle casse arriva 'With or without you' degli U-2. Ci sono io con i capelli lunghi e la prima barba timida e c'è lei, la piccola poetessa vegetariana. La nostra storia è già finita ma usciamo ancora insieme, i miei 19 anni e le sue 17 primavere non ci hanno permesso di capire che quando finisce una storia è meglio sparire. Anche per lei ho scritto e lei scriveva per me: un intero romanzo in risposta a una ventina di poesie infilate in una busta sbiadita e azzurra. Ci amavamo così, scrivendoci addosso sogni e paure. E quello che scrivevamo doveva essere il passaporto per volare via da Bagheria. Sono passati quattro anni siamo ancora qui e, quel che è peggio, scriviamo ancora. In quelle notti che non darei mai via c'è questa: io, la R4 e lei che mi dice che nessun regalo al mondo potrà superare le mie lettere. Me le ricordo bene, due lettere stampate in blu perché il nero della stampante decide di finire sempre quando ti serve. Due lettere consegnate in silenzio. Due lettere scritte per filtrare tutto quello che provavo per lei, scritte per farle capire quanto contava per me. Nella mia vita ho scritto e amato, ho amato per scrivere e ho scritto per amare. Credevo di dover eternizzare le sensazioni prima di perderle per sempre, prima di smarrirmi e ho prostituito la mia capacità di macchiafogli con lettere "strappa-mutande", ho scritto per accelerare i tempi tecnici di approccio. Ero stato mollato dopo la fine del liceo dalla mia girl senza una motivazione plausibile -ne esistono davvero di plausibili?- e dovevo capire, volevo capire e per farlo ho fatto l'unica cosa sensata, ho scritto quasi in presa diretta. Vivevo, amavo e tornavo a casa per digitare subito quei ricordi troppo freschi. Li ho fatti lievitare direttamente sul monitor e ho vissuto il paradosso, non capivo più chi viveva la mia vita, io o il mio alter-ego di carta? Dove finivo io e iniziavano Stefano Re e Ulisse Cerami?


Quest'anno ho toccato il fondo del pericoloso triangolo che s'innesca tra vita, amore e scrittura. Si deve essere vivi per amare, si deve essere vivi e innamorati - o disamorati- per scrivere. All'università avevo conosciuta la mia futura ex e lei aveva iniziato a scrivermi, parlavamo ore e ore ma lei aveva sentito la necessità di aprirsi ulteriormente e l'aveva fatto con la penna su fogli spiegazzati. Io non volevo risponderle, ero lacerato dall'origine di tutti i dicotomici furori (senza disturbare Platone e la critica alla scrittura del "Fedro"): avevo già conosciuto le potenzialità antitetiche della scrittura, sapevo che poteva favorirmi o annientarmi all'alba di quell'amore. E l'estate si avvicinava, ci aspettavano tre mesi di lontananza e c'erano solo due taccuini a tenerci vicini, dovevo scrivere ma dovevo decidere sin dove spingermi con le parole. Quando parliamo le parole rimbalzano sull'altro e dalle reazioni estemporanee sappiamo modificare la rotta. Impossibile con la comunicazione eterna e in differita che realizza la scrittura. Le parole scritte ci hanno avvicinato rapidamente e poi ci hanno scagliato lontano. Non volevo rinnovare vecchi errori ma era necessario, lo sentivo che non potevo trattenermi oltre. Poi la vita ci ha allontanato, l'amore si è spento lento come una nevicata ma le parole non si sono fermate. Le avevo chiesto di tagliare di netto ma gli sms e le e-mail continuavano alla fine di quel febbraio freddo e grigio. "Freddo e grigio" era una lettera per lei, finita per sbaglio e per destino nella mailing list di bombacarta. Dopo i primi complimenti -"Straordinariamente bello e scritto straordinariamente bene. Sono profondamente felice per te, per la tua consolidata maturità di senso e di stile" - non sono riuscito a specificare che quello non era un semplice racconto. Era lecito scrivere la mia storia? L'ho fatto quindi ho già dato la mia risposta. E ho avuto anche la sua: "ti avevo chiesto di non scrivere su di me, perché sapevo che avresti scritto solo interpretazioni lontanissime dalla verità. Sei riuscito ad uccidere anche stavolta la tua ex. Non ti basta?"


Quella domanda finale è terribile. Lei stessa mi teneva il broncio perché non avevo ancora scritto qualcosa su di lei. E' terribile perché scrivere con le dita sporche di vecchi disamori serve proprio a questo: uccidere un pensiero prima che diventi un'ossessione. Dopo che la pagina è scritta raggiungo un sereno distacco, mentre la pubblico sul sito sospendo ogni giudizio e più le persone la leggono più sento scorrere un meraviglioso oblio. Non mi appartiene più, tra poco dubiterò sulla sua verità assoluta, mi convincerò che è solo un racconto.


E poi? Semplicemente continuerò a vivere, amare e scrivere.

mercoledì 17 marzo 2004

Dalla mia mano l�aut...

Dalla mia mano l’autunno mangia la sua foglia: siamo amici


Sgusciamo il tempo dalle noci e gli insegniamo a camminare:


il tempo ritorna nel guscio.


Nello specchio è domenica,
nel sogno si dorme,
la bocca fa profezia.


Il mio occhio scende sul sesso dell’amata:
ci guardiamo,
ci diciamo cose oscure,
ci amiamo l'un l'altra come papavero e memoria,
dormiamo come vino nelle conchiglie,
come il mare nel raggio di sangue della luna.


Stiamo abbracciati alla finestra, ci guardano dalla strada:
è tempo che si sappia!
E’ tempo che la pietra si decida a fiorire,
che l’inquietudine abbia un cuore che batte.
E’ tempo che sia tempo.


E’ tempo.


Paul Celan, CORONA da Papavero e Memoria, trad di Elisabetta Zoni

Dalla mia mano l�aut...

Dalla mia mano l’autunno mangia la sua foglia: siamo amici


Sgusciamo il tempo dalle noci e gli insegniamo a camminare:


il tempo ritorna nel guscio.


Nello specchio è domenica,
nel sogno si dorme,
la bocca fa profezia.


Il mio occhio scende sul sesso dell’amata:
ci guardiamo,
ci diciamo cose oscure,
ci amiamo l'un l'altra come papavero e memoria,
dormiamo come vino nelle conchiglie,
come il mare nel raggio di sangue della luna.


Stiamo abbracciati alla finestra, ci guardano dalla strada:
è tempo che si sappia!
E’ tempo che la pietra si decida a fiorire,
che l’inquietudine abbia un cuore che batte.
E’ tempo che sia tempo.


E’ tempo.


Paul Celan, CORONA da Papavero e Memoria, trad di Elisabetta Zoni