lunedì 27 novembre 2006

Finirà mai questa malía?






Un tempo per la laurea in filosofia erano sufficienti 19 esami. Permettetemi d'usare lo spazio di questo post per dialogare con la mia coscienza. Ne bastavano diciannove.

Diciannove, solo diciannove



Oggi, sommando quelle della triennale e quella della specialistica ho abbondantemente superato la quarantina.



Però tra poco potrò fregiarmi dell'invidiabile titolo di Dottore Magistrale. Doc Mag per gli amici...

Sposando da diretto interessato i legittimi dubbi del buon Severgnini, sintetizzo la faccenda.

Allora, se il dizionario non mente "magistrale "dovrebbe significare "relativo al maestro, all'insegnamento".



Ma sarebbe troppo facile andare ad insegnare con 40 materie sulla schiena (non entro nel merito di materie più o meno profonde o approfondite, me ne frego della faida tra vecchio e nuovo, tra nuovo e nuovissimo, tra ultranuovo e vetusto. Dico solo che andare a sostenere 40 esami è sempre una sfacchinata immensa, qualunque sia la portata del singolo evento):




  • Con la laurea specialistica è possibile accedere all'insegnamento secondario. In virtù della classe di afferenza del titolo e della distribuzione dei crediti in determinati settori o gruppi di settori scientifico-disciplinari (e non più delle annualità come accade per i diplomi di laurea del previgente ordinamento), come previsto dai decreti ministeriali che disciplinano le classi di concorso, i titolari di laurea specialistica o magistrale possono richiedere l'inserimento nella terza fascia delle graduatorie d'istituto per l'insegnamento nella scuola secondaria, di durata triennale. Per l'accesso alla prima fascia delle graduatorie d'istituto e alle graduatorie permanenti occorre conseguire l'abilitazione tramite concorso ordinario – non ne vengono banditi da un decennio – o diploma di specializzazione che si consegue al termine dei corsi biennali tenuti presso le scuole di specializzazione all'insegnamento secondario (SSIS). La legge 53/2003 prevede la possibilità di istituire, da parte delle università di concerto con il Ministero, di corsi di laurea specialistica ad accesso programmato direttamente abilitanti, ma non ne sono stati ancora istituiti. All'uopo il Ministro sembra intenzionato ad attendere l'emanazione delle classi delle nuove lauree magistrali.




Quindi dobbiamo aggiungere almeno cinque storie (A Palermo esistono due corsi di laurea diversi: filosofia [a sua volta bisezionata] e scienze storiche [parcellizzata in un numero imprecisato di curricula] ma la cattedra è unica, da sempre, si insegna filosofia E storia).



Quindi conditio sine qua non per insegnare è il superamento del test d'ingresso alla SSIS e, naturalmente altre migliaia di euro - gentilmente elargiti dai genitori che aspirano a foraggiarci in eterno - per semplicemente COMPRARE (pane al pane...) punti per scavalcare storici precari in una lista tendenzialmente infinita.



Bene, domani ho l'ultimo esame della specialistica.



Poi restano - aggiunte per sordido masochismo (tra quadre metto il conto alla rovescia):


  1. Storia Greca (6 cfu) [-4]


  2. Storia Romana (6 cfu)  [-3]


  3. Storia Medioevale (3 cfu) [-2]


  4. Storia Moderna (6 cfu) [-1]



E, naturalmente, dopo aver scritto già 120 pagine su Paul Celan - lette e apprezzate pure da Giuseppe Genna - un'altra tesi.



Sintesi: cinque anni di studio, 44 materie e manco la possibilità di una semplice supplenza...




*Tanto per nostalgia canaglia e menzognera riporto il piano di studi tradizionale della vecchia  e gloriosa filosofia


  1. Letteratura italiana

  2. Letteratura latina

  3. Storia romana

  4. Storia medievale

  5. Psicologia generale

  6. Storia della filosofia I

  7. una materia a scelta tra quelle attivate nella Facoltà

  8. Storia della filosofia II

  9. Storia moderna

  10. Filosofia morale I

  11. una  materia complementare

  12. una materia complementare

  13. Filosofia morale II

  14. Filosofia teoretica I

  15. Pedagogia generale

  16. una materia complementare

  17. Filosofia teoretica II

  18. una  materia complementare

  19. una materia complementare

Finirà mai questa malía?






Un tempo per la laurea in filosofia erano sufficienti 19 esami. Permettetemi d'usare lo spazio di questo post per dialogare con la mia coscienza. Ne bastavano diciannove.

Diciannove, solo diciannove



Oggi, sommando quelle della triennale e quella della specialistica ho abbondantemente superato la quarantina.



Però tra poco potrò fregiarmi dell'invidiabile titolo di Dottore Magistrale. Doc Mag per gli amici...

Sposando da diretto interessato i legittimi dubbi del buon Severgnini, sintetizzo la faccenda.

Allora, se il dizionario non mente "magistrale "dovrebbe significare "relativo al maestro, all'insegnamento".



Ma sarebbe troppo facile andare ad insegnare con 40 materie sulla schiena (non entro nel merito di materie più o meno profonde o approfondite, me ne frego della faida tra vecchio e nuovo, tra nuovo e nuovissimo, tra ultranuovo e vetusto. Dico solo che andare a sostenere 40 esami è sempre una sfacchinata immensa, qualunque sia la portata del singolo evento):




  • Con la laurea specialistica è possibile accedere all'insegnamento secondario. In virtù della classe di afferenza del titolo e della distribuzione dei crediti in determinati settori o gruppi di settori scientifico-disciplinari (e non più delle annualità come accade per i diplomi di laurea del previgente ordinamento), come previsto dai decreti ministeriali che disciplinano le classi di concorso, i titolari di laurea specialistica o magistrale possono richiedere l'inserimento nella terza fascia delle graduatorie d'istituto per l'insegnamento nella scuola secondaria, di durata triennale. Per l'accesso alla prima fascia delle graduatorie d'istituto e alle graduatorie permanenti occorre conseguire l'abilitazione tramite concorso ordinario – non ne vengono banditi da un decennio – o diploma di specializzazione che si consegue al termine dei corsi biennali tenuti presso le scuole di specializzazione all'insegnamento secondario (SSIS). La legge 53/2003 prevede la possibilità di istituire, da parte delle università di concerto con il Ministero, di corsi di laurea specialistica ad accesso programmato direttamente abilitanti, ma non ne sono stati ancora istituiti. All'uopo il Ministro sembra intenzionato ad attendere l'emanazione delle classi delle nuove lauree magistrali.




Quindi dobbiamo aggiungere almeno cinque storie (A Palermo esistono due corsi di laurea diversi: filosofia [a sua volta bisezionata] e scienze storiche [parcellizzata in un numero imprecisato di curricula] ma la cattedra è unica, da sempre, si insegna filosofia E storia).



Quindi conditio sine qua non per insegnare è il superamento del test d'ingresso alla SSIS e, naturalmente altre migliaia di euro - gentilmente elargiti dai genitori che aspirano a foraggiarci in eterno - per semplicemente COMPRARE (pane al pane...) punti per scavalcare storici precari in una lista tendenzialmente infinita.



Bene, domani ho l'ultimo esame della specialistica.



Poi restano - aggiunte per sordido masochismo (tra quadre metto il conto alla rovescia):


  1. Storia Greca (6 cfu) [-4]


  2. Storia Romana (6 cfu)  [-3]


  3. Storia Medioevale (3 cfu) [-2]


  4. Storia Moderna (6 cfu) [-1]



E, naturalmente, dopo aver scritto già 120 pagine su Paul Celan - lette e apprezzate pure da Giuseppe Genna - un'altra tesi.



Sintesi: cinque anni di studio, 44 materie e manco la possibilità di una semplice supplenza...




*Tanto per nostalgia canaglia e menzognera riporto il piano di studi tradizionale della vecchia  e gloriosa filosofia


  1. Letteratura italiana

  2. Letteratura latina

  3. Storia romana

  4. Storia medievale

  5. Psicologia generale

  6. Storia della filosofia I

  7. una materia a scelta tra quelle attivate nella Facoltà

  8. Storia della filosofia II

  9. Storia moderna

  10. Filosofia morale I

  11. una  materia complementare

  12. una materia complementare

  13. Filosofia morale II

  14. Filosofia teoretica I

  15. Pedagogia generale

  16. una materia complementare

  17. Filosofia teoretica II

  18. una  materia complementare

  19. una materia complementare

Artisti all'assalto!

«Le arti esistono, per dirla secondo il nostro stile primordiale, in quanto rappresentano la gloria di Dio, o, per tradurre lo stesso concetto in termini psicologicamente comprensibili, per svegliare e mantenere vivo nell’uomo il sentimento della meraviglia.



Il successo dell’opera d’arte consiste nel dire, di qualsiasi soggetto (albero, nuvola o carattere umano che sia): “L’ho visto migliaia di volte ma non l’ho mai visto sotto questa luce fino ad ora”.



Ora, per far questo, una certa variazione di stile è naturale e persino necessaria. Gli artisti variano a seconda di come compiono il loro assalto, in quanto è di loro competenza compiere un attacco a sorpresa.



Devono donare una nuova luce alle cose, e non c’è da stupirsi se talvolta si tratta di un raggio ultravioletto impercettibile o una luce che ricorda l’ombra nera della pazzia o della morte».



da un articolo di G. K. Chesterton

(su segnalazione di Andrea Monda)




Gilbert Keith Chesterton



Nasce a Londra 29 maggio 1874. Benché si definisse modestamente un giornalista, egli fu un grande e versatile scrittore (saggista e romanziere brillante, con eccellenti doti di polemista, ironico ma senza acredine, di una ironia sanamente umoristica).



Notevole fu la sua capacità di trattnere rapporti amichevoli con gente, come George Bernard Shaw e H. G. Wells, con cui pure era in forte dissidio.



Affermava con forza ciò in cui credeva. Ad esempio fu uno dei pochi intellettuali ad avere il coraggio opporsi pubblicamente alla guerra boera.



Notevole anche la sua capacità di biografo, con saggi importanti tra l'altro su Charles Dickens e S. Francesco. La sua opera forse più famosa è legata al nome di "Padre Brown": un genere giallo, con storie scritte tra il 1911 e il 1936, in cui Ch. seppe racchiudere sempre un senso di utile saggezza.



Chesterton morì il 14 giugno 1936 a Beaconsfield, nel Buckinghamshire. La sua opera comprende 69 libri, pubblicati durante la sua vita, più una decina postumi.



Se Chesterton ha un merito notevole nell'ambito della letteratura cattolica, è quello di essere riuscito a dare della Weltanschaung cristiana un'immagine ilare, ironica, per quanto non perciò meno seria. Diciamo ciò non certo per deprezzare altri scrittori cattolici, come un Bloy o un Bernanos, nel mondo dei cui romanzi aleggia una tensione più implacabile, che sembra non potersi mai sciogliere in un sorriso: anche hanno una loro insostituibile funzione. Semplicemente, dentro la grande sinfonia della Provvidenza a Chesterton è toccato suonare uno spartito di altro genere.

domenica 26 novembre 2006

Artisti all'assalto!

«Le arti esistono, per dirla secondo il nostro stile primordiale, in quanto rappresentano la gloria di Dio, o, per tradurre lo stesso concetto in termini psicologicamente comprensibili, per svegliare e mantenere vivo nell’uomo il sentimento della meraviglia.



Il successo dell’opera d’arte consiste nel dire, di qualsiasi soggetto (albero, nuvola o carattere umano che sia): “L’ho visto migliaia di volte ma non l’ho mai visto sotto questa luce fino ad ora”.



Ora, per far questo, una certa variazione di stile è naturale e persino necessaria. Gli artisti variano a seconda di come compiono il loro assalto, in quanto è di loro competenza compiere un attacco a sorpresa.



Devono donare una nuova luce alle cose, e non c’è da stupirsi se talvolta si tratta di un raggio ultravioletto impercettibile o una luce che ricorda l’ombra nera della pazzia o della morte».



da un articolo di G. K. Chesterton

(su segnalazione di Andrea Monda)




Gilbert Keith Chesterton



Nasce a Londra 29 maggio 1874. Benché si definisse modestamente un giornalista, egli fu un grande e versatile scrittore (saggista e romanziere brillante, con eccellenti doti di polemista, ironico ma senza acredine, di una ironia sanamente umoristica).



Notevole fu la sua capacità di trattnere rapporti amichevoli con gente, come George Bernard Shaw e H. G. Wells, con cui pure era in forte dissidio.



Affermava con forza ciò in cui credeva. Ad esempio fu uno dei pochi intellettuali ad avere il coraggio opporsi pubblicamente alla guerra boera.



Notevole anche la sua capacità di biografo, con saggi importanti tra l'altro su Charles Dickens e S. Francesco. La sua opera forse più famosa è legata al nome di "Padre Brown": un genere giallo, con storie scritte tra il 1911 e il 1936, in cui Ch. seppe racchiudere sempre un senso di utile saggezza.



Chesterton morì il 14 giugno 1936 a Beaconsfield, nel Buckinghamshire. La sua opera comprende 69 libri, pubblicati durante la sua vita, più una decina postumi.



Se Chesterton ha un merito notevole nell'ambito della letteratura cattolica, è quello di essere riuscito a dare della Weltanschaung cristiana un'immagine ilare, ironica, per quanto non perciò meno seria. Diciamo ciò non certo per deprezzare altri scrittori cattolici, come un Bloy o un Bernanos, nel mondo dei cui romanzi aleggia una tensione più implacabile, che sembra non potersi mai sciogliere in un sorriso: anche hanno una loro insostituibile funzione. Semplicemente, dentro la grande sinfonia della Provvidenza a Chesterton è toccato suonare uno spartito di altro genere.

sabato 25 novembre 2006

La presunta morte della letteratura

mortedi Carla Benedetti



 (fonte lavagna del sabato n.222)



Qual è l'idea più memorabile espressa dalla critica letteraria italiana negli ultimi decenni?

Questa: che la letteratura italiana da decenni non esprime più nulla di memorabile. Che non solo non ci sono più scrittori dell'altezza di Calvino e di Pasolini, ma che nemmeno potrebbero più esserci, essendo venute meno le condizioni, essendo la letteratura entrata in una impasse storica. E questo è stato detto e ripetuto e teorizzato mentre libri vivi e importanti, che anch'io ho cercato di segnalare in questo giornale, continuavano a uscire in Italia.



Non si sa chi cominciò.  Forse Franco Cordelli con il suo Poeta postumo del 1978. ma quel che è certo è che non c'è mai stata nella cultura italiana un'idea più condivisa, che ha messo d'accordo tutti quanti, ex neo avanguardisti ed ex anti-neoavanguardisti, postmodernisti e neo modernisti, cattolici e laici, di sinistra e di destra. L'hanno formulata e ripetuta negli anni Luigi Baldacci, Cesare Garboli, e Giovanni Raboni, da poco scomparsi; Giulio Ferroni, Alfonso Berardinelli, Romano Luperini, Pier Vincenzo Mengaldo e molti altri. Talvolta persino qualche scrittore. L'annuncio è stato fatto talmente tante volte che ormai sembra una gag comica. E hanno detto anche che non ci sono più critici né "intellettuali".

Ma il picco più alto si è registrato in questi ultimi mesi , come in un gran finale di fuochi d'artificio. Ecco un piccolo florilegio dai giornali estivi.





Goffredo Fofi sul Sole 24 ore: "Trent'anni fa ci lasciarono Carlo Levi e Pier Paolo Pasolini. Vent'anni fa ci lasciarono Italo Calvino e Elsa Morante … un grande passato. Nessuno ha colmato questi vuoti, nessuno potrà più colmarli". Angelo Guglielmi intervistato sul Venerdì di Repubblica: "Cosa sta avvenendo nella nostra letteratura? Assolutamente nulla dagli anni Sessanta, dai tempi di Calvino e di Pasolini. E anche del nostro Gruppo 63". Alfonso Berardinelli sul Foglio scrive che "gli autori entrati in scena dopo il 1990" sono "mutanti". Persino Piergiorgio Bellocchio, il fondatore di Quaderni piacentini, intervistato sul Corriere fa capire che dopo Volponi non ha più incontrato nessuno scrittore italiano interessante. E lo scrittore Sebastiano Vassalli, anche lui intervistato sul Corriere, ripete amaramente che in effetti questa non è l'epoca giusta per gli scrittori.



Un intero mondo culturale che da decenni ripete lo stesso verdetto: siamo tutti morti. E' impressionante. Un'allucinazione collettiva di cui verrebbe voglia di ridere, se non fosse che non è affatto innocua come potrebbe sembrare. Al contrario agisce e ha agito in modo devastante. Non solo perché non riconosce le energie artistiche, critiche e di pensiero che ancora nascono in Italia, ma soprattutto perché fa loro il deserto attorno. Per anni hanno azzerato le attese e represso gli slanci. Hanno bruciato il terreno della cultura e così spianato la strada ad altre forze che hanno potuto invaderle incontrastate.

Guglielmi: "Nessuno oggi apre nuovi campi dell'immaginazione. Arte e letteratura producono opere tutte uguali". E' vero. La macchina editoriale internazionale occupa il mercato con libri tutti uguali, rendendo difficile la circolazione di quelli che non sono conformi. Ma è di questo che sta parlando Guglielmi? No, sta parlando di un destino epocale. La colpa è del "tempo nostro" che sarebbe addirittura affetto da un'"impotenza generandi", come ha ribadito sull'Unità.



Purtroppo tesi del genere si trovano anche in studi seri, competenti, come quello di Guido Mazzoni (Sulla poesia moderna, il Mulino) che sostiene la necessità storica del declino della poesia nel mondo odierno: "La qualità degli scrittori non ha alcun peso in questo processo... Purtroppo le grandi trasformazioni storiche prescindono dal valore degli individui, che è sempre troppo piccolo per non risultare irrilevante". E se oggi nascesse a Recanati un grande poeta gobbo? Ma no, sarebbe ugualmente irrilevante. E' tipico dello storicismo vedere la storia sotto la lente della necessità. Ma almeno i vecchi storicisti credevano nello sviluppo, in un realizzarsi progressivo dell'essenza umana. Questi nuovi storicisti delusi credono invece nella necessità del declino, dell'impotenza degli individui, e dell'epigonismo. Uno storicismo rovesciato, ancor più paralizzante.



E non parlano del colonialismo culturale, dell'aggressività della nuova industria editoriale (questa sì mutante), o dell'abbandono del campo da parte di critici e giornalisti culturali rassegnati, quando non conniventi con la logica pubblicitaria che sta aggredendo il terreno del pensiero e dell'espressione. E chi dice che non c'è più un Pasolini si guarda bene dall'aggiungere che oggi probabilmente anche a Pasolini sarebbe stato molto più difficile parlare dalla prima pagina di un importante quotidiano. Su "Panorama" Fofi ribadisce la sua diagnosi: Nessuno oggi ha "un coraggio, un'intelligenza un'irrequietudine attiva, una capacità di rischiare paragonabile alla loro", cioè ai soliti Pasolini, Calvino, Morante e Carlo Levi.

Alias del Manifesto ha ospitato un dibattito tra Franco Cordelli e alcuni scrittori più giovani. Discutevano se è vero o no che la letteratura continua. Poiché - come scrivono un po'comicamente i due coordinatori, Andrea Cortellessa e Graziella Pulce - bisogna pur ammettere che "non tutto è già finito: altrimenti faremmo un altro mestiere" sembrava di assistere ad una seduta spiritica. Persone che da anni predicano la condizione postuma della letteratura, e che ora, sentendosi scavalcate da tutte quelle voci che fanno ancora scommesse forti sulla scrittura, tentano con fatica di riposizionarsi. Però senza il vigore rigenerante di una seria autocritica. Senza il coraggio di affermare la forza antagonistica che può esserci in quella cosa che chiamano "letteratura". Sul Foglio Berardinelli così sintetizza il dibattito di Alias: "Fra critici e scrittori non c'è differenza... La critica è un genere letterario e il romanzo è un genere critico".



Andiamo bene. Dopo che si è detto che il romanzo è morto e la critica è morta, si può scegliere dal menù del cimitero la combinazione che si preferisce.



Da tempo mi interrogo su quale sia stata la funzione dei miti di morte che hanno accompagnato la modernità occidentale fin dai suoi albori, a partire da quello hegeliano della morte dell'arte. E poi di quello poststrutturalista della morte dell'autore. E di quello postmodernista dell'esaurimento della letteratura, della fine del nuovo, della fine della storia, della morte del futuro. Disperazioni apparenti e consolazioni segrete. Miti ambigui, ora euforici, ora malinconici, ma sotterraneamente annichilenti. E mai come in questo ultimo periodo se ne è potuta avere la conferma concreta. Quei ritornelli sono serviti a smobilitare e a liquidare. Sono stati utili agli altri, ai veri avversari con cui oggi ci troviamo in un conflitto diretto: la normalizzazione dei generi letterari, la monocoltura del noir e del thriller, il ricatto populistico delle classifiche di vendita, l'enorme spazio dato alla cultura anglofona, l'audience che sostituisce il giudizio, la promozione pubblicitaria travestita da recensione, i testimonial televisivi e i book-jokey che hanno preso il posto dei critici, i tempi stretti imposti dagli uffici stampa editoriali che impediscono la riflessione, le grandi macchine di ottundimento e la colonizzazione dell'immaginario.



L'alveo della cultura, quella semiosfera protettiva in cui si svolgevano un tempo le discussioni, le contrapposizioni, gli scontri di poetiche, è stato smantellato. È una situazione inedita nella storia della modernità. Ma è anche una situazione finalmente aperta, da cui tutto può ricominciare. Perché ormai i veri termini del conflitto non sono più nascosti. Perché è emersa anche un'altra posizione rispetto a quei discorsi di capitolazione ripetuti per decenni. Perché ormai è chiaro che in questo combattimento non sono in gioco solo schermaglie estetico-letterarie basate sul gusto, ma cose di vitale importanza, decisive anche da un punto di vista antropologico.



Articolo tratto dal settimanale L'Espresso, Febbraio 2006

La presunta morte della letteratura

mortedi Carla Benedetti



 (fonte lavagna del sabato n.222)



Qual è l'idea più memorabile espressa dalla critica letteraria italiana negli ultimi decenni?

Questa: che la letteratura italiana da decenni non esprime più nulla di memorabile. Che non solo non ci sono più scrittori dell'altezza di Calvino e di Pasolini, ma che nemmeno potrebbero più esserci, essendo venute meno le condizioni, essendo la letteratura entrata in una impasse storica. E questo è stato detto e ripetuto e teorizzato mentre libri vivi e importanti, che anch'io ho cercato di segnalare in questo giornale, continuavano a uscire in Italia.



Non si sa chi cominciò.  Forse Franco Cordelli con il suo Poeta postumo del 1978. ma quel che è certo è che non c'è mai stata nella cultura italiana un'idea più condivisa, che ha messo d'accordo tutti quanti, ex neo avanguardisti ed ex anti-neoavanguardisti, postmodernisti e neo modernisti, cattolici e laici, di sinistra e di destra. L'hanno formulata e ripetuta negli anni Luigi Baldacci, Cesare Garboli, e Giovanni Raboni, da poco scomparsi; Giulio Ferroni, Alfonso Berardinelli, Romano Luperini, Pier Vincenzo Mengaldo e molti altri. Talvolta persino qualche scrittore. L'annuncio è stato fatto talmente tante volte che ormai sembra una gag comica. E hanno detto anche che non ci sono più critici né "intellettuali".

Ma il picco più alto si è registrato in questi ultimi mesi , come in un gran finale di fuochi d'artificio. Ecco un piccolo florilegio dai giornali estivi.





Goffredo Fofi sul Sole 24 ore: "Trent'anni fa ci lasciarono Carlo Levi e Pier Paolo Pasolini. Vent'anni fa ci lasciarono Italo Calvino e Elsa Morante … un grande passato. Nessuno ha colmato questi vuoti, nessuno potrà più colmarli". Angelo Guglielmi intervistato sul Venerdì di Repubblica: "Cosa sta avvenendo nella nostra letteratura? Assolutamente nulla dagli anni Sessanta, dai tempi di Calvino e di Pasolini. E anche del nostro Gruppo 63". Alfonso Berardinelli sul Foglio scrive che "gli autori entrati in scena dopo il 1990" sono "mutanti". Persino Piergiorgio Bellocchio, il fondatore di Quaderni piacentini, intervistato sul Corriere fa capire che dopo Volponi non ha più incontrato nessuno scrittore italiano interessante. E lo scrittore Sebastiano Vassalli, anche lui intervistato sul Corriere, ripete amaramente che in effetti questa non è l'epoca giusta per gli scrittori.



Un intero mondo culturale che da decenni ripete lo stesso verdetto: siamo tutti morti. E' impressionante. Un'allucinazione collettiva di cui verrebbe voglia di ridere, se non fosse che non è affatto innocua come potrebbe sembrare. Al contrario agisce e ha agito in modo devastante. Non solo perché non riconosce le energie artistiche, critiche e di pensiero che ancora nascono in Italia, ma soprattutto perché fa loro il deserto attorno. Per anni hanno azzerato le attese e represso gli slanci. Hanno bruciato il terreno della cultura e così spianato la strada ad altre forze che hanno potuto invaderle incontrastate.

Guglielmi: "Nessuno oggi apre nuovi campi dell'immaginazione. Arte e letteratura producono opere tutte uguali". E' vero. La macchina editoriale internazionale occupa il mercato con libri tutti uguali, rendendo difficile la circolazione di quelli che non sono conformi. Ma è di questo che sta parlando Guglielmi? No, sta parlando di un destino epocale. La colpa è del "tempo nostro" che sarebbe addirittura affetto da un'"impotenza generandi", come ha ribadito sull'Unità.



Purtroppo tesi del genere si trovano anche in studi seri, competenti, come quello di Guido Mazzoni (Sulla poesia moderna, il Mulino) che sostiene la necessità storica del declino della poesia nel mondo odierno: "La qualità degli scrittori non ha alcun peso in questo processo... Purtroppo le grandi trasformazioni storiche prescindono dal valore degli individui, che è sempre troppo piccolo per non risultare irrilevante". E se oggi nascesse a Recanati un grande poeta gobbo? Ma no, sarebbe ugualmente irrilevante. E' tipico dello storicismo vedere la storia sotto la lente della necessità. Ma almeno i vecchi storicisti credevano nello sviluppo, in un realizzarsi progressivo dell'essenza umana. Questi nuovi storicisti delusi credono invece nella necessità del declino, dell'impotenza degli individui, e dell'epigonismo. Uno storicismo rovesciato, ancor più paralizzante.



E non parlano del colonialismo culturale, dell'aggressività della nuova industria editoriale (questa sì mutante), o dell'abbandono del campo da parte di critici e giornalisti culturali rassegnati, quando non conniventi con la logica pubblicitaria che sta aggredendo il terreno del pensiero e dell'espressione. E chi dice che non c'è più un Pasolini si guarda bene dall'aggiungere che oggi probabilmente anche a Pasolini sarebbe stato molto più difficile parlare dalla prima pagina di un importante quotidiano. Su "Panorama" Fofi ribadisce la sua diagnosi: Nessuno oggi ha "un coraggio, un'intelligenza un'irrequietudine attiva, una capacità di rischiare paragonabile alla loro", cioè ai soliti Pasolini, Calvino, Morante e Carlo Levi.

Alias del Manifesto ha ospitato un dibattito tra Franco Cordelli e alcuni scrittori più giovani. Discutevano se è vero o no che la letteratura continua. Poiché - come scrivono un po'comicamente i due coordinatori, Andrea Cortellessa e Graziella Pulce - bisogna pur ammettere che "non tutto è già finito: altrimenti faremmo un altro mestiere" sembrava di assistere ad una seduta spiritica. Persone che da anni predicano la condizione postuma della letteratura, e che ora, sentendosi scavalcate da tutte quelle voci che fanno ancora scommesse forti sulla scrittura, tentano con fatica di riposizionarsi. Però senza il vigore rigenerante di una seria autocritica. Senza il coraggio di affermare la forza antagonistica che può esserci in quella cosa che chiamano "letteratura". Sul Foglio Berardinelli così sintetizza il dibattito di Alias: "Fra critici e scrittori non c'è differenza... La critica è un genere letterario e il romanzo è un genere critico".



Andiamo bene. Dopo che si è detto che il romanzo è morto e la critica è morta, si può scegliere dal menù del cimitero la combinazione che si preferisce.



Da tempo mi interrogo su quale sia stata la funzione dei miti di morte che hanno accompagnato la modernità occidentale fin dai suoi albori, a partire da quello hegeliano della morte dell'arte. E poi di quello poststrutturalista della morte dell'autore. E di quello postmodernista dell'esaurimento della letteratura, della fine del nuovo, della fine della storia, della morte del futuro. Disperazioni apparenti e consolazioni segrete. Miti ambigui, ora euforici, ora malinconici, ma sotterraneamente annichilenti. E mai come in questo ultimo periodo se ne è potuta avere la conferma concreta. Quei ritornelli sono serviti a smobilitare e a liquidare. Sono stati utili agli altri, ai veri avversari con cui oggi ci troviamo in un conflitto diretto: la normalizzazione dei generi letterari, la monocoltura del noir e del thriller, il ricatto populistico delle classifiche di vendita, l'enorme spazio dato alla cultura anglofona, l'audience che sostituisce il giudizio, la promozione pubblicitaria travestita da recensione, i testimonial televisivi e i book-jokey che hanno preso il posto dei critici, i tempi stretti imposti dagli uffici stampa editoriali che impediscono la riflessione, le grandi macchine di ottundimento e la colonizzazione dell'immaginario.



L'alveo della cultura, quella semiosfera protettiva in cui si svolgevano un tempo le discussioni, le contrapposizioni, gli scontri di poetiche, è stato smantellato. È una situazione inedita nella storia della modernità. Ma è anche una situazione finalmente aperta, da cui tutto può ricominciare. Perché ormai i veri termini del conflitto non sono più nascosti. Perché è emersa anche un'altra posizione rispetto a quei discorsi di capitolazione ripetuti per decenni. Perché ormai è chiaro che in questo combattimento non sono in gioco solo schermaglie estetico-letterarie basate sul gusto, ma cose di vitale importanza, decisive anche da un punto di vista antropologico.



Articolo tratto dal settimanale L'Espresso, Febbraio 2006

giovedì 23 novembre 2006

meglio di Sharon Stone

Riceviamo e volentieri segnaliamo

fonte: Ozarzand Journal



Saruzzo era tutto in fermento come il mosto ribollente del vino di Pachino che gli piaceva tanto, di dentro stava tutto scombussolato come le macchine che aggiustava nella sua officina; solo che quelle riusciva ad aggiustarle, mentre lui, a sé stesso, non sapeva come dare aiuto



Per farla breve ché il tempo è poco e passa veloce, s’ era innamorato di Carmela, lo aveva acchiappato per lei un appassionamento carnale di bestia ferita che ansima e cerca disperatamente l’ abbranco, una cosa di carne tirata ed esasperata....


meglio di Sharon Stone

Riceviamo e volentieri segnaliamo

fonte: Ozarzand Journal



Saruzzo era tutto in fermento come il mosto ribollente del vino di Pachino che gli piaceva tanto, di dentro stava tutto scombussolato come le macchine che aggiustava nella sua officina; solo che quelle riusciva ad aggiustarle, mentre lui, a sé stesso, non sapeva come dare aiuto



Per farla breve ché il tempo è poco e passa veloce, s’ era innamorato di Carmela, lo aveva acchiappato per lei un appassionamento carnale di bestia ferita che ansima e cerca disperatamente l’ abbranco, una cosa di carne tirata ed esasperata....


La lettera di Lord Chandos. Rileggendo Gino Tasca





Una lettura di Gino Tasca (che alla lettera aveva dedicato il suo blog)

[Il testamento spirituale di Gino: Isaia Greco, qui una lettura di Gabriele Dadati]



Ultimamente mi è capitato di leggere – per il laboratorio di lettura che tengo presso l’Accademia Platonica fondata dal mio ex analista, Ettore Perrella - la "Lettera di Lord Chandos" di Hugo Von Hofmannsthal (il titolo originale, però, è solo "Ein Brief", "Una lettera").



Per chi non sapesse nulla di Hugo Von Hofmannsthal, preciso che è più famoso per la sua collaborazione – come librettista – con Richard Strauss ("Il cavaliere della Rosa", "Arabella", "La donna senz’ombra", "Capriccio") che per il resto della sua opera e che era così precoce da scrivere apprezzatissime ed estenuate poesie stando ancora al liceo, a diciassette anni, sotto lo pseudonimo di "Loris".



Nato nel 1874, scrive questa lettera che parla di una grave crisi nella scrittura, al limite dell’afasia, nel 1901-02, cioè a ventisette anni.



(Ero così convinto che questa lettera fosse opera di un autore ben maturo che non me ne ero mai accorto.)



E – come capita quasi sempre – quando si scrive una cosa sull’impossibilità di scrivere, si è già guariti. Infatti, dopo, non fece che scrivere, fino al 1929 quando morì per un’emorragia cerebrale, pochi giorni dopo che il figlio si era ucciso.



Ma c’era una cosa che continuavo a non capire.



A pag. 41 (dovrete avere pazienza: mi toccherà fare molte citazioni) descrive lo stato di felice incoscienza in cui scriveva prima della "crisi", così:



"Una esperienza valeva l’altra; una non era inferiore all’altra né nell’energia vitale né nel carattere onirico soprannaturale, e così era per tutto quanto la vita abbracciava, da ogni lato; in tutto ero coinvolto profondamente, mai mi avvidi di una parvenza fallace. Oppure intuivo che tutto era identità, e ogni creatura la chiave per un’altra. E mi sentivo come colui che doveva essere in grado di afferrarle una dopo l’altra e di schiuderne tante altre con essa, quante quella ne potesse disserrare."



Non sembra la descrizione di qualcosa di negativo, no?



E, quindi, perché – dopo tre righe – aggiunge "Chi fosse incline a tale modo di sentire, dovrebbe giudicare saggio piano di una provvidenza divina il fatto che il mio spirito fosse destinato a cadere da una così gonfia presunzione (n.b. – le sottolineature sono mie) a questo estremo di scoramento e debolezza"? Perché?



Anche perché, poco dopo, a pag. 51 (sto seguendo la edizione della BUR), descrive lo stato di rinnovata innocenza, più o meno con le stesse parole e, quindi, cosa era successo – in mezzo – per cui il primo atteggiamento si transvalutasse da "gonfia presunzione" in salvezza?



Trascrivo il brano di pag. 51.



"Era assai più e assai meno che compassione: una smisurata partecipazione, un trasfondermi in quelle creature, o la sensazione che un fluido di vita e di morte, di sogno e di veglia si fosse riversato per un momento in esse …"



E, subito dopo, a pag. 52.



"Queste creature mute, talvolta inanimate si levano verso di me con una tale pienezza, una tale presenza d’amore (le sottolineature sono mie) che il mio occhio letificato non riesce a scorgere dattorno nulla che sia morto. Mi pare che tutto, tutto q uello che c’è, tutto di cui mi sovviene, tutto quanto sfiorano i miei più confusi pensieri, sia qualche cosa. … Sento dentro di me e attorno a me una solleticante infinita rispondenza, e tra gli elementi che si contrappongono nel gioco non v’è alcuno in cui non sarei in condizione di trasfondermi."



E, ancora, a pag. 59:



"E tutto è una sorta di febbrile pensare, ma pensare in un elemento che è più incomunicabile, più fluido, più ardente delle parole. Sono vortici, ma a differenza dai vortici della lingua, questi non paiono condurre a sprofondare nel vuoto, bensì al contrario in qualche modo riportano in me stesso e nel più riposto grembo della pace".



E, poco prima, a pag. 51 ancora, all’inizio:



"… era qualcosa di più, di più divino, di più animale: ed era presente, il presente più pieno e più vero."



Prima di chiedermi cosa sia avvenuto, nel frattempo (o nel non-tempo?) per transvalutare completamente il "panico" di pag. 41 nel "panico" di tutte le altre successive citazioni, vorrei far notare come quel "qualche cosa" riassuma le tre doti che – per Joyce – devono avere gli oggetti epifanici: integritas, riconosciamo che l’oggetto è un’unica cosa; consonantia: riconosciamo che, avendo una sua certa struttura, quella è una cosa di fatto; claritas: riconosciamo che è quella cosa che è. Tutto questo sta in quel "… sia qualche cosa".



Faccio anche notare - prima di provarmi a fornire una risposta che, avviso già da ora, sarà fortemente arbitraria – che, a pag. 45, fra i sintomi della sua malattia, Lord Chandos, dice che non era più in grado di dare anche i più semplici giudizi. Non sapeva più dire se il fittavolo fosse onesto o meno o se il tal predicatore fosse bravo.



E questa cosa mi lasciava molto perplesso – avevo come l’impressione che questa parola, giudizio, contenesse in sé la spiegazione di tutta la faccenda e, con questo pensiero in testa mi ero messo a letto e mi ero addormentato. Poi, verso le due di notte mi ero svegliato e avevo pensato che il giorno dopo avrei messo a confronto – su questo termine – un certo libro e la lettera. Sì, sì, mi ero detto, mi sembra una buona strada. Potete ben immaginare come è andata a finire. Alla mattina non sapevo se avevo sognato o se sul serio avevo pensato quella cosa. Fatto sta che del libro non c’era più traccia.



E così, per disperazione, il pomeriggio, mi ero messo a confrontare il testo di Von Hofmannsthal con il commento alla lettera di San Paolo ai Romani fatto da Ettore Perrella e – solo dopo avere letto tutte le sue complicate e luminose pagine sul "giudizio" – mi ero accorto che lì c’era la chiave per capire Chandos e che era proprio quello il libro a cui avevo pensato durante la notte.



Bene. Perrella fa un commento riga per riga di tutta la lettera di San Paolo ma a noi, qui, interessa, quello che dice a proposito del giudizio, partendo dal testo paolino laddove dice qualcosa come: voi che giudicherete, solo voi sarete giudicati. Attenzione: non è la solita storia buonsensaia della trave e della pagliuzza. Non è la solita etica del: non giudicare visto che chi è senza peccato, solo lui, potrebbe scagliare la prima pietra. No. Qui si tratta di non giudicare mai, in nessun caso, anche se si è puri. Anzi, nel momento in cui si giudicasse già tali non si sarebbe più.



Trascrivo, quindi, alcuni brani del commento di Perrella.



"Paolo, ora, trae le conseguenze di quanto ha detto prima, facendo squillare le trombe del giudizio. Infatti anapologhetos, "indifendibile", è termine giuridico, come krino, "giudico", e katakrino, "mi condanno da me", ma, letteralemente, "giudico di ritorno" o "retroattivamente": verbo riservato a coloro che giudicano gli altri secondo la Legge, e in questo modo si condannano, perché il giudizio che emettono sugli altri ritornerà direttamente su loro stessi, non tanto, come sembra dire il testo, perché fanno a loro volta le azioni che condannano, quanto perché le giudicano negli altri, e proprio in questo modo si espongono al giudizio retroattivo, al katakrinein in cui consisterà il giudizio divino e definitivo … Dio giudica secondo verità. Lo sappiamo, evidentemente, perché il suo stesso giudizio assoluto non sarà (o non è) che un giudizio "di ritorno", vero con assoluta evidenza proprio in quanto non è formulato da Dio, ma dall’uomo stesso che viene giudicato."



"L’evo eterno, il Tempo assoluto, l’ aion, è concesso, nel giudizio – ancora una volta attraverso il katakrinein – solo ai fedeli che hanno saputo pazientare – in realtà restare indietro nella loro "pazienza", ipomoné, cioè nella sospensione della loro attesa -, perché un atto può dirsi buono solo in quanto viene compiuto in questo restare indietro del giudizio … proprio perché chi lo compie "resta indietro" rispetto ad esso, trattenendosi nella sua ipomoné, mentre il giudizio può solo concludere e chiudere un atto … questo restare



indietro è la vita eterna …"



Parlando, poi, di un altro commentatore della lettera ai romani, Schlier, che si stupisce dell’uso del verbo al presente che Paolo fa nel parlare del giudizio finale, che, senza dubbio, è futuro, dice:



"Tuttavia questo futuro, abbiamo detto, non è tale se non perché è già incluso nel presente … Ma è presente solo in quanto l’atto stesso è sempre presente: lo è quello di ieri come lo è quello di domani, perché nella giustizia della decisione noi abbiamo già superato ogni determinazione temporale. Solo per questo il giudizio futuro è già presente nell’atto, tanto che possiamo spingerci a dire che il tempo si genera nell’atto, al punto che esso è poiesis, fattura, o addirittura ktisis, creazione, del tempo, ma lo è solo nella misura in cui è anche apokalypisis, rivelazione definitiva e chiusura del tempo stesso che genera. Il tempo si apre e si chiude a partire da ciascuna giusta poiesis, in quanto questa è giusta proprio perché è un restare indietro, una ipomoné del giudicare nel fare. Ed è una ipomoné di cosa? Evidentemente solo di ciò in cui si scrive la legge: il linguaggio. Nel restare indietro del giudizio, le parole … tornano ad essere Logos vale a dire Parola come principio dei loghismata, vale a dire Parola al di là del tempo e al di qua del tempo, insomma "al tempo stesso" arché, principio, e conclusione del tempo.



"Il tempo cristiano è quello della vita eterna, della Theò aionion, cioè il tempo della vita, eterna solo in quanto vita, vale a dire solo in quanto il suo tempo e il Tempo – l’evo, l’aion – del suo ritorno. La vita è eternamente-ritornante nel tempo. Questo eternamente-ritornante è il movimento della salvazione, mentre la salvezza, di per sé, è sovratemporale, come il Logos ch’è principio e fine del tempo creato."



Insomma, che lo sapesse o meno, Lord Chandos, nel sospendere il giudizio (anzi, per grazia – la sua crisi è la grazia della noche oscura - non potendolo più emettere), si stava salvando nell’eterno presente divino ed animale di cui parla.



E, quando nelle righe finali, prova a dire perché non scriverà più (lui sì ma Von Hofmannsthal – grazie a lui – no) dice.



"perché la lingua in cui mi sarebbe dato non solo di scrivere, ma forse anche di pensare, non è il latino né l’inglese né l’italiano o lo spagnolo, ma una lingua di cui non una sola parola mi è nota, una lingua in cui mi parlano le cose mute,



e in cui forse un giorno nella tomba mi troverò a rispondere a un giudice sconosciuto".



Diciamo che Von Hofmannsthal è finalmente passato dall’estetica di un al di qua del principio del piacere, ad un etica di un giusto fare.



La cosa da dire resta la stessa ma gli occhi si sono – finalmente – illimpiditi.



30 dicembre 2004


La lettera di Lord Chandos. Rileggendo Gino Tasca





Una lettura di Gino Tasca (che alla lettera aveva dedicato il suo blog)

[Il testamento spirituale di Gino: Isaia Greco, qui una lettura di Gabriele Dadati]



Ultimamente mi è capitato di leggere – per il laboratorio di lettura che tengo presso l’Accademia Platonica fondata dal mio ex analista, Ettore Perrella - la "Lettera di Lord Chandos" di Hugo Von Hofmannsthal (il titolo originale, però, è solo "Ein Brief", "Una lettera").



Per chi non sapesse nulla di Hugo Von Hofmannsthal, preciso che è più famoso per la sua collaborazione – come librettista – con Richard Strauss ("Il cavaliere della Rosa", "Arabella", "La donna senz’ombra", "Capriccio") che per il resto della sua opera e che era così precoce da scrivere apprezzatissime ed estenuate poesie stando ancora al liceo, a diciassette anni, sotto lo pseudonimo di "Loris".



Nato nel 1874, scrive questa lettera che parla di una grave crisi nella scrittura, al limite dell’afasia, nel 1901-02, cioè a ventisette anni.



(Ero così convinto che questa lettera fosse opera di un autore ben maturo che non me ne ero mai accorto.)



E – come capita quasi sempre – quando si scrive una cosa sull’impossibilità di scrivere, si è già guariti. Infatti, dopo, non fece che scrivere, fino al 1929 quando morì per un’emorragia cerebrale, pochi giorni dopo che il figlio si era ucciso.



Ma c’era una cosa che continuavo a non capire.



A pag. 41 (dovrete avere pazienza: mi toccherà fare molte citazioni) descrive lo stato di felice incoscienza in cui scriveva prima della "crisi", così:



"Una esperienza valeva l’altra; una non era inferiore all’altra né nell’energia vitale né nel carattere onirico soprannaturale, e così era per tutto quanto la vita abbracciava, da ogni lato; in tutto ero coinvolto profondamente, mai mi avvidi di una parvenza fallace. Oppure intuivo che tutto era identità, e ogni creatura la chiave per un’altra. E mi sentivo come colui che doveva essere in grado di afferrarle una dopo l’altra e di schiuderne tante altre con essa, quante quella ne potesse disserrare."



Non sembra la descrizione di qualcosa di negativo, no?



E, quindi, perché – dopo tre righe – aggiunge "Chi fosse incline a tale modo di sentire, dovrebbe giudicare saggio piano di una provvidenza divina il fatto che il mio spirito fosse destinato a cadere da una così gonfia presunzione (n.b. – le sottolineature sono mie) a questo estremo di scoramento e debolezza"? Perché?



Anche perché, poco dopo, a pag. 51 (sto seguendo la edizione della BUR), descrive lo stato di rinnovata innocenza, più o meno con le stesse parole e, quindi, cosa era successo – in mezzo – per cui il primo atteggiamento si transvalutasse da "gonfia presunzione" in salvezza?



Trascrivo il brano di pag. 51.



"Era assai più e assai meno che compassione: una smisurata partecipazione, un trasfondermi in quelle creature, o la sensazione che un fluido di vita e di morte, di sogno e di veglia si fosse riversato per un momento in esse …"



E, subito dopo, a pag. 52.



"Queste creature mute, talvolta inanimate si levano verso di me con una tale pienezza, una tale presenza d’amore (le sottolineature sono mie) che il mio occhio letificato non riesce a scorgere dattorno nulla che sia morto. Mi pare che tutto, tutto q uello che c’è, tutto di cui mi sovviene, tutto quanto sfiorano i miei più confusi pensieri, sia qualche cosa. … Sento dentro di me e attorno a me una solleticante infinita rispondenza, e tra gli elementi che si contrappongono nel gioco non v’è alcuno in cui non sarei in condizione di trasfondermi."



E, ancora, a pag. 59:



"E tutto è una sorta di febbrile pensare, ma pensare in un elemento che è più incomunicabile, più fluido, più ardente delle parole. Sono vortici, ma a differenza dai vortici della lingua, questi non paiono condurre a sprofondare nel vuoto, bensì al contrario in qualche modo riportano in me stesso e nel più riposto grembo della pace".



E, poco prima, a pag. 51 ancora, all’inizio:



"… era qualcosa di più, di più divino, di più animale: ed era presente, il presente più pieno e più vero."



Prima di chiedermi cosa sia avvenuto, nel frattempo (o nel non-tempo?) per transvalutare completamente il "panico" di pag. 41 nel "panico" di tutte le altre successive citazioni, vorrei far notare come quel "qualche cosa" riassuma le tre doti che – per Joyce – devono avere gli oggetti epifanici: integritas, riconosciamo che l’oggetto è un’unica cosa; consonantia: riconosciamo che, avendo una sua certa struttura, quella è una cosa di fatto; claritas: riconosciamo che è quella cosa che è. Tutto questo sta in quel "… sia qualche cosa".



Faccio anche notare - prima di provarmi a fornire una risposta che, avviso già da ora, sarà fortemente arbitraria – che, a pag. 45, fra i sintomi della sua malattia, Lord Chandos, dice che non era più in grado di dare anche i più semplici giudizi. Non sapeva più dire se il fittavolo fosse onesto o meno o se il tal predicatore fosse bravo.



E questa cosa mi lasciava molto perplesso – avevo come l’impressione che questa parola, giudizio, contenesse in sé la spiegazione di tutta la faccenda e, con questo pensiero in testa mi ero messo a letto e mi ero addormentato. Poi, verso le due di notte mi ero svegliato e avevo pensato che il giorno dopo avrei messo a confronto – su questo termine – un certo libro e la lettera. Sì, sì, mi ero detto, mi sembra una buona strada. Potete ben immaginare come è andata a finire. Alla mattina non sapevo se avevo sognato o se sul serio avevo pensato quella cosa. Fatto sta che del libro non c’era più traccia.



E così, per disperazione, il pomeriggio, mi ero messo a confrontare il testo di Von Hofmannsthal con il commento alla lettera di San Paolo ai Romani fatto da Ettore Perrella e – solo dopo avere letto tutte le sue complicate e luminose pagine sul "giudizio" – mi ero accorto che lì c’era la chiave per capire Chandos e che era proprio quello il libro a cui avevo pensato durante la notte.



Bene. Perrella fa un commento riga per riga di tutta la lettera di San Paolo ma a noi, qui, interessa, quello che dice a proposito del giudizio, partendo dal testo paolino laddove dice qualcosa come: voi che giudicherete, solo voi sarete giudicati. Attenzione: non è la solita storia buonsensaia della trave e della pagliuzza. Non è la solita etica del: non giudicare visto che chi è senza peccato, solo lui, potrebbe scagliare la prima pietra. No. Qui si tratta di non giudicare mai, in nessun caso, anche se si è puri. Anzi, nel momento in cui si giudicasse già tali non si sarebbe più.



Trascrivo, quindi, alcuni brani del commento di Perrella.



"Paolo, ora, trae le conseguenze di quanto ha detto prima, facendo squillare le trombe del giudizio. Infatti anapologhetos, "indifendibile", è termine giuridico, come krino, "giudico", e katakrino, "mi condanno da me", ma, letteralemente, "giudico di ritorno" o "retroattivamente": verbo riservato a coloro che giudicano gli altri secondo la Legge, e in questo modo si condannano, perché il giudizio che emettono sugli altri ritornerà direttamente su loro stessi, non tanto, come sembra dire il testo, perché fanno a loro volta le azioni che condannano, quanto perché le giudicano negli altri, e proprio in questo modo si espongono al giudizio retroattivo, al katakrinein in cui consisterà il giudizio divino e definitivo … Dio giudica secondo verità. Lo sappiamo, evidentemente, perché il suo stesso giudizio assoluto non sarà (o non è) che un giudizio "di ritorno", vero con assoluta evidenza proprio in quanto non è formulato da Dio, ma dall’uomo stesso che viene giudicato."



"L’evo eterno, il Tempo assoluto, l’ aion, è concesso, nel giudizio – ancora una volta attraverso il katakrinein – solo ai fedeli che hanno saputo pazientare – in realtà restare indietro nella loro "pazienza", ipomoné, cioè nella sospensione della loro attesa -, perché un atto può dirsi buono solo in quanto viene compiuto in questo restare indietro del giudizio … proprio perché chi lo compie "resta indietro" rispetto ad esso, trattenendosi nella sua ipomoné, mentre il giudizio può solo concludere e chiudere un atto … questo restare



indietro è la vita eterna …"



Parlando, poi, di un altro commentatore della lettera ai romani, Schlier, che si stupisce dell’uso del verbo al presente che Paolo fa nel parlare del giudizio finale, che, senza dubbio, è futuro, dice:



"Tuttavia questo futuro, abbiamo detto, non è tale se non perché è già incluso nel presente … Ma è presente solo in quanto l’atto stesso è sempre presente: lo è quello di ieri come lo è quello di domani, perché nella giustizia della decisione noi abbiamo già superato ogni determinazione temporale. Solo per questo il giudizio futuro è già presente nell’atto, tanto che possiamo spingerci a dire che il tempo si genera nell’atto, al punto che esso è poiesis, fattura, o addirittura ktisis, creazione, del tempo, ma lo è solo nella misura in cui è anche apokalypisis, rivelazione definitiva e chiusura del tempo stesso che genera. Il tempo si apre e si chiude a partire da ciascuna giusta poiesis, in quanto questa è giusta proprio perché è un restare indietro, una ipomoné del giudicare nel fare. Ed è una ipomoné di cosa? Evidentemente solo di ciò in cui si scrive la legge: il linguaggio. Nel restare indietro del giudizio, le parole … tornano ad essere Logos vale a dire Parola come principio dei loghismata, vale a dire Parola al di là del tempo e al di qua del tempo, insomma "al tempo stesso" arché, principio, e conclusione del tempo.



"Il tempo cristiano è quello della vita eterna, della Theò aionion, cioè il tempo della vita, eterna solo in quanto vita, vale a dire solo in quanto il suo tempo e il Tempo – l’evo, l’aion – del suo ritorno. La vita è eternamente-ritornante nel tempo. Questo eternamente-ritornante è il movimento della salvazione, mentre la salvezza, di per sé, è sovratemporale, come il Logos ch’è principio e fine del tempo creato."



Insomma, che lo sapesse o meno, Lord Chandos, nel sospendere il giudizio (anzi, per grazia – la sua crisi è la grazia della noche oscura - non potendolo più emettere), si stava salvando nell’eterno presente divino ed animale di cui parla.



E, quando nelle righe finali, prova a dire perché non scriverà più (lui sì ma Von Hofmannsthal – grazie a lui – no) dice.



"perché la lingua in cui mi sarebbe dato non solo di scrivere, ma forse anche di pensare, non è il latino né l’inglese né l’italiano o lo spagnolo, ma una lingua di cui non una sola parola mi è nota, una lingua in cui mi parlano le cose mute,



e in cui forse un giorno nella tomba mi troverò a rispondere a un giudice sconosciuto".



Diciamo che Von Hofmannsthal è finalmente passato dall’estetica di un al di qua del principio del piacere, ad un etica di un giusto fare.



La cosa da dire resta la stessa ma gli occhi si sono – finalmente – illimpiditi.



30 dicembre 2004


Novantazeroundici.it: Bagheria on line







“Novantazeroundici.it”, notizie da Bagheria: nasce con questo nome nella cittadina palermitana un notiziario on-line (sul sito www.90011.it) che intende «raccontare la realtà in maniera puntuale, senza condizionamenti né peli sulla lingua».



Direttore responsabile della neonata testata (al momento in attesa di registrazione) è Giusto Ricupati.



La redazione si occuperà di informazione a trecentosessanta gradi partendo da Bagheria ma con un occhio alle notizie dal mondo.



Tutti gli articoli pubblicati sono aperti ai commenti del pubblico e liberamente riproducibili.





(fonte Balarm)

Novantazeroundici.it: Bagheria on line







“Novantazeroundici.it”, notizie da Bagheria: nasce con questo nome nella cittadina palermitana un notiziario on-line (sul sito www.90011.it) che intende «raccontare la realtà in maniera puntuale, senza condizionamenti né peli sulla lingua».



Direttore responsabile della neonata testata (al momento in attesa di registrazione) è Giusto Ricupati.



La redazione si occuperà di informazione a trecentosessanta gradi partendo da Bagheria ma con un occhio alle notizie dal mondo.



Tutti gli articoli pubblicati sono aperti ai commenti del pubblico e liberamente riproducibili.





(fonte Balarm)

martedì 21 novembre 2006

iLit: letteratura per Ipod

Marsilio Editori presenta iLit Letteratura per iPod


Audioracconti in mp3 da ascoltare e scaricare liberamente, tratti dai romanzi di Marsilio X, la nuova collana dedicata alla ricerca di nuovi talenti e voci innovative sulla scena letteraria italiana


I primi audioracconti, realizzati dalla compagnia teatrale Teatro Minimo, sono:



  • Il volo di sole di Gero Giglio (tratto dal romanzo Bungee jumping) L'amore tra due adolescenti difficili. Un salto nel vuoto alla ricerca della libertà


  • La Nanda di Nino G. D'Attis (tratto dal romanzo Montezuma airbag your pardon) Sesso. Alcolici. Codici a barre. Carrelli della spesa pieni di merce. Questa è la storia di un uomo che cade a pezzi


  • Fanteria mentale di Marco Bacci (tratto dal romanzo Supervita) Una guerra del futuro combattuta con i cadaveri comandati telepaticamente dei soldati "veri"



I racconti si possono ascoltare qui: http://www.treemo.com/users/marsilionews/sets/2806


Il podcast di iLit: http://www.radiopodcast.it/user/podcast/iLit.xml


----

Marsilio Editori

www.marsilioeditori.it

iLit: letteratura per Ipod

Marsilio Editori presenta iLit Letteratura per iPod


Audioracconti in mp3 da ascoltare e scaricare liberamente, tratti dai romanzi di Marsilio X, la nuova collana dedicata alla ricerca di nuovi talenti e voci innovative sulla scena letteraria italiana


I primi audioracconti, realizzati dalla compagnia teatrale Teatro Minimo, sono:



  • Il volo di sole di Gero Giglio (tratto dal romanzo Bungee jumping) L'amore tra due adolescenti difficili. Un salto nel vuoto alla ricerca della libertà


  • La Nanda di Nino G. D'Attis (tratto dal romanzo Montezuma airbag your pardon) Sesso. Alcolici. Codici a barre. Carrelli della spesa pieni di merce. Questa è la storia di un uomo che cade a pezzi


  • Fanteria mentale di Marco Bacci (tratto dal romanzo Supervita) Una guerra del futuro combattuta con i cadaveri comandati telepaticamente dei soldati "veri"



I racconti si possono ascoltare qui: http://www.treemo.com/users/marsilionews/sets/2806


Il podcast di iLit: http://www.radiopodcast.it/user/podcast/iLit.xml


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mercoledì 15 novembre 2006

Pubblicità VibrisseLibri

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Pubblicità VibrisseLibri

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lunedì 13 novembre 2006

Faccio Vibrisselibri perché

Il giorno che ho finito di raggruppare le facce dei vibrisselibrai ho tirato un sospirone di sollievo da far schiattare d'invidia Eolo...



Tutto ebbe inizio con una criptica email di Giulio Mozzi che all'inizio di giugno mi disse che c'era un piccolo lavoretto di grafica da fare... Praticamente per tutta l'estate, sino alla fine di settembre ho dedicato almeno mezz'ora al giorno a reclamare, richiamare, uniformare, ingabbiare le facce dei volenterosi "vibrisselibrai". Che poi sarebbero tutti quelli che hanno accettato ad occhi chiusi l'idea bombetta di Giulio Mozzi.



Oggi il risultato è sulla scrivania di molti giornalisti italiani, la cartelletta stampa con tanto di facce è una cosa di cui vado particolarmente fiero, soprattutto dopo che l'ufficio grafico ha valorizzato tanto lavoro in un voluto omaggio a Warhol.



Ognuno dei vibrisselibrai ha messo la faccia e il perché. Un vecchio pallino di Giulio, figlio di una pubblicità degli anni settanta a un amaro d'erbe.



Oggi, ad appena tre giorni dal giorno più lungo per Vibrisselibri voglio ricordare almeno i perché di tutti quelli che hanno detto sì.



Senza nessuna prospettiva di guadagno, al semplice pensiero di poter concretamente fare qualcosa per dei libri che sono "mostruosi" nel senso etimologico del termine: piccoli prodigi come il saggio di Demetrio Paolin sugli anni di Piombo e la loro ricezione nella letteratura italiana, o tomazzi come "L'organigramma" di Andrea Comotti, giustamente sottotitolato "il largo addio":



  • Giulio Mozzi scrittore,“faccio vibrisselibri perché o lo faccio adesso o mai più”

  • Bartolomeo Di Monaco pensionato,“faccio vibrisselibri perché si sta in compagnia e si scoprono nuovi talenti. Vi pare poco?”

  • Lucio Angelini scrittore/traduttore,“faccio vibrisselibri perché dopo aver fondato le ormai defunte edizioni Libri Molto Speciali, non ho resistito all'idea di occuparmi di nuovo di LIBRI MOLTO SPECIALI”

  • Luca Tassinari lettore lento, “faccio vibrisselibri perché i libri, come i dispetti, è meglio farli che subirli”.

  • Stefania Nardini giornalista-scrittrice, “faccio vibrisselibri perché vorrei evitare di emigrare”

  • Annamaria Manna insegnante di tedesco e guida internet, “faccio vibrisselibri perché mi piace navigare e pescare buoni libri”

  • Mauro Mongarli copywriter, “faccio vibrisselibri perché odio la polvere sui/dei/nei libri”

  • Mauro Mirci impiegato comunale,“faccio vibrisselibri perché trovare buoni libri non è un lavoro per gente qualunque”

  • Rossano Astremo giornalista e scrittore, “faccio vibrisselibri perché m'allettano le sfide editoriali impossibili...”

  • Tonino Pintacuda & Maria Renda giornalista praticante & latinista, “facciamo vibrisselibri perché qualcuno doveva farlo pure in Sicilia”

  • Maura Gancitano studentessa universitaria, “faccio vibrisselibri perché è un progetto nuovo e leggere è una delle cose che mi piace di più al mondo”

  • M. Cristina Di Luca studentessa,“faccio vibrisselibri perché il gruppo lavora con il sorriso”

  • Fabio Fracas autore, editor, compositore, docente universitario e analista di sistemi, “Faccio vibrisselibri perché non sapevo come occupare il tempo libero”

  • Anna Bonfiglio pubblicista e scrittrice,"faccio vibrisselibri perché non ho nessun motivo per non farlo"

  • Federico Miozzi laureando in Medicina e Chirurgia e allenatore di pallavolo,"faccio vibrisselibri perché amo le imprese"

  • Demetrio Paolin artigiano del sostantivo e del predicato,“Faccio vibrisselibri perché alla fine rimane la letteratura, almeno un po'”

  • Marco Candida scrittore, “faccio vibrisselibri perché lo fa anche Enrica Brambilla”

  • Ezio Tarantino bibliotecario, “Faccio vibrisselibri per non lamentarmi più dello stato dell'editoria”

  • Giorgio Morale insegnante e scrittore, “faccio vibrisselibri perché mi piacciono i libri”

  • Giulia Tancredi traduttrice e interprete, "faccio vibrisselibri perché è un'idea innovativa e romantica insieme"

  • Ramona Corrado infermiera,“faccio vibrisselibri perché magari imparo un mestiere diverso. E perché intanto... impara l'arte e mettila da parte”

  • Stefano Mazzoni archivista “faccio vibrisselibri perché ad un certo punto bisognerà pur iniziare a fare qualcosa di buono”

  • Francesca Dello Strologo avvocato, “faccio vibrisselibri perché: non vorrei finire come Don Ferrante”

  • Valeria Cappelli redattore, “faccio vibrisselibri perché...sto dalla parte di tutte le parole che diventano storie”

  • Gualtiero Bertoldi anglista,“faccio vibrisselibri perché così posso mettere mano e occhio nel magma vivo della scrittura italiana”

  • Antonio Brancaccio coordinatore di redazione, “faccio vibrisselibri perché... scriverlo sarebbe troppo facile"

  • Giuseppe D’Emilio docente,“faccio vibrisselibri perché... voglio scovare i classici del XXII secolo”

  • Gianluigi Bodi studente, “faccio vibrisselibri perchè Fight Club è a numero chiuso”

  • Cristina Coppellotti responsabile risorse umane, “faccio vibrisselibri perché c'era una parte di me che non aspettava altro”

  • Margherita Trotta redattrice, “faccio vibrisselibri perché esserci è più divertente che stare a guardare”.

  • Lorenzo Ireni programmatore,“faccio vibrisselibri perché amo i fuori programma”

  • Gaja Cenciarelli scrittrice e traduttrice, “faccio vibrisselibri perché resisto a tutto tranne che alle tentazioni...letterarie!”

  • Claudio Ambrosi bibliotecario, “faccio vibrisselibri perché voglio prestarmi ai libri”

  • Monica Golfari redattrice, “faccio vibrisselibri perché lavorare con e per i libri mi dà soddisfazione”

  • Pamela Canali impiegata statale, “faccio vibrisselibri perché la carta è passata di moda, quest'anno si porta il web”

  • Toni La Malfa dentista, “faccio vibrisselibri perché lo farebbe anche Woody Allen”

  • Massimo Adinolfi filosofo, “faccio vibrisselibri perché, a quel che so, la rosa fiorisce senza perché, e credo che vibrisselibri possa fare altrettanto”

  • Gianfranco Recchia informatico,“faccio vibrisselibri perché le parole sono amanti e i libri sono i figli della colpa. ”

  • Manuela Perrone giornalista, “faccio vibrisselibri perché aspettavo Godot”

  • Giuseppe Mauro impiegato-scrittore,“faccio vibrisselibri perché è cosa buona e giusta”.

Faccio Vibrisselibri perché

Il giorno che ho finito di raggruppare le facce dei vibrisselibrai ho tirato un sospirone di sollievo da far schiattare d'invidia Eolo...



Tutto ebbe inizio con una criptica email di Giulio Mozzi che all'inizio di giugno mi disse che c'era un piccolo lavoretto di grafica da fare... Praticamente per tutta l'estate, sino alla fine di settembre ho dedicato almeno mezz'ora al giorno a reclamare, richiamare, uniformare, ingabbiare le facce dei volenterosi "vibrisselibrai". Che poi sarebbero tutti quelli che hanno accettato ad occhi chiusi l'idea bombetta di Giulio Mozzi.



Oggi il risultato è sulla scrivania di molti giornalisti italiani, la cartelletta stampa con tanto di facce è una cosa di cui vado particolarmente fiero, soprattutto dopo che l'ufficio grafico ha valorizzato tanto lavoro in un voluto omaggio a Warhol.



Ognuno dei vibrisselibrai ha messo la faccia e il perché. Un vecchio pallino di Giulio, figlio di una pubblicità degli anni settanta a un amaro d'erbe.



Oggi, ad appena tre giorni dal giorno più lungo per Vibrisselibri voglio ricordare almeno i perché di tutti quelli che hanno detto sì.



Senza nessuna prospettiva di guadagno, al semplice pensiero di poter concretamente fare qualcosa per dei libri che sono "mostruosi" nel senso etimologico del termine: piccoli prodigi come il saggio di Demetrio Paolin sugli anni di Piombo e la loro ricezione nella letteratura italiana, o tomazzi come "L'organigramma" di Andrea Comotti, giustamente sottotitolato "il largo addio":



  • Giulio Mozzi scrittore,“faccio vibrisselibri perché o lo faccio adesso o mai più”

  • Bartolomeo Di Monaco pensionato,“faccio vibrisselibri perché si sta in compagnia e si scoprono nuovi talenti. Vi pare poco?”

  • Lucio Angelini scrittore/traduttore,“faccio vibrisselibri perché dopo aver fondato le ormai defunte edizioni Libri Molto Speciali, non ho resistito all'idea di occuparmi di nuovo di LIBRI MOLTO SPECIALI”

  • Luca Tassinari lettore lento, “faccio vibrisselibri perché i libri, come i dispetti, è meglio farli che subirli”.

  • Stefania Nardini giornalista-scrittrice, “faccio vibrisselibri perché vorrei evitare di emigrare”

  • Annamaria Manna insegnante di tedesco e guida internet, “faccio vibrisselibri perché mi piace navigare e pescare buoni libri”

  • Mauro Mongarli copywriter, “faccio vibrisselibri perché odio la polvere sui/dei/nei libri”

  • Mauro Mirci impiegato comunale,“faccio vibrisselibri perché trovare buoni libri non è un lavoro per gente qualunque”

  • Rossano Astremo giornalista e scrittore, “faccio vibrisselibri perché m'allettano le sfide editoriali impossibili...”

  • Tonino Pintacuda & Maria Renda giornalista praticante & latinista, “facciamo vibrisselibri perché qualcuno doveva farlo pure in Sicilia”

  • Maura Gancitano studentessa universitaria, “faccio vibrisselibri perché è un progetto nuovo e leggere è una delle cose che mi piace di più al mondo”

  • M. Cristina Di Luca studentessa,“faccio vibrisselibri perché il gruppo lavora con il sorriso”

  • Fabio Fracas autore, editor, compositore, docente universitario e analista di sistemi, “Faccio vibrisselibri perché non sapevo come occupare il tempo libero”

  • Anna Bonfiglio pubblicista e scrittrice,"faccio vibrisselibri perché non ho nessun motivo per non farlo"

  • Federico Miozzi laureando in Medicina e Chirurgia e allenatore di pallavolo,"faccio vibrisselibri perché amo le imprese"

  • Demetrio Paolin artigiano del sostantivo e del predicato,“Faccio vibrisselibri perché alla fine rimane la letteratura, almeno un po'”

  • Marco Candida scrittore, “faccio vibrisselibri perché lo fa anche Enrica Brambilla”

  • Ezio Tarantino bibliotecario, “Faccio vibrisselibri per non lamentarmi più dello stato dell'editoria”

  • Giorgio Morale insegnante e scrittore, “faccio vibrisselibri perché mi piacciono i libri”

  • Giulia Tancredi traduttrice e interprete, "faccio vibrisselibri perché è un'idea innovativa e romantica insieme"

  • Ramona Corrado infermiera,“faccio vibrisselibri perché magari imparo un mestiere diverso. E perché intanto... impara l'arte e mettila da parte”

  • Stefano Mazzoni archivista “faccio vibrisselibri perché ad un certo punto bisognerà pur iniziare a fare qualcosa di buono”

  • Francesca Dello Strologo avvocato, “faccio vibrisselibri perché: non vorrei finire come Don Ferrante”

  • Valeria Cappelli redattore, “faccio vibrisselibri perché...sto dalla parte di tutte le parole che diventano storie”

  • Gualtiero Bertoldi anglista,“faccio vibrisselibri perché così posso mettere mano e occhio nel magma vivo della scrittura italiana”

  • Antonio Brancaccio coordinatore di redazione, “faccio vibrisselibri perché... scriverlo sarebbe troppo facile"

  • Giuseppe D’Emilio docente,“faccio vibrisselibri perché... voglio scovare i classici del XXII secolo”

  • Gianluigi Bodi studente, “faccio vibrisselibri perchè Fight Club è a numero chiuso”

  • Cristina Coppellotti responsabile risorse umane, “faccio vibrisselibri perché c'era una parte di me che non aspettava altro”

  • Margherita Trotta redattrice, “faccio vibrisselibri perché esserci è più divertente che stare a guardare”.

  • Lorenzo Ireni programmatore,“faccio vibrisselibri perché amo i fuori programma”

  • Gaja Cenciarelli scrittrice e traduttrice, “faccio vibrisselibri perché resisto a tutto tranne che alle tentazioni...letterarie!”

  • Claudio Ambrosi bibliotecario, “faccio vibrisselibri perché voglio prestarmi ai libri”

  • Monica Golfari redattrice, “faccio vibrisselibri perché lavorare con e per i libri mi dà soddisfazione”

  • Pamela Canali impiegata statale, “faccio vibrisselibri perché la carta è passata di moda, quest'anno si porta il web”

  • Toni La Malfa dentista, “faccio vibrisselibri perché lo farebbe anche Woody Allen”

  • Massimo Adinolfi filosofo, “faccio vibrisselibri perché, a quel che so, la rosa fiorisce senza perché, e credo che vibrisselibri possa fare altrettanto”

  • Gianfranco Recchia informatico,“faccio vibrisselibri perché le parole sono amanti e i libri sono i figli della colpa. ”

  • Manuela Perrone giornalista, “faccio vibrisselibri perché aspettavo Godot”

  • Giuseppe Mauro impiegato-scrittore,“faccio vibrisselibri perché è cosa buona e giusta”.

sabato 11 novembre 2006

I nuovi sentimenti

Riceviamo e segnaliamo:



Il libro I nuovi sentimenti, curato da Romolo Bugaro e Marco Franzoso, pubblicato dall'Editore Marsilio, con la partecipazione di Marco Bellotto, Gianfranco Bettin, Umberto Casadei, Mauro Covacich, Alberto Fassina, Roberto Ferrucci, Alberto Garlini, Marco Mancassola, Giulio Mozzi, Massimiliano Nuzzolo, Tiziano Scarpa, Vitaliano Trevisan, Gian Mario Villalta,


sarà presentato nell'Aula Magna dell'Univeristà di Padova martedì 14 novembre, alle ore 17, con la partecipazione di Cesare De Michelis, Marco Paolini, Gian Antonio Stella.


Qui una scheda del libro

Altri squilibri di Annalisa Bruni

Mercoledì 15 novembre 2006, alle ore 17.00 al Centro Polifunzionale “Giovanni Pascoli”

Piazzale San Benedetto n. 1, Campalto – VE


Sarà presentato il libro

Annalisa Bruni, Altri squilibri, Spinea, Edizioni Helvetia, 2005



Coordina Caterina Albano.

Interverrà l’autrice.



Info: 041.900330



Annalisa  Bruni, Altri squilibri, Spinea, Edizioni Helvetia, 2005



Undici short stories sul pluriverso femminile contemporaneo, scandagliato in punta di penna da Annalisa Bruni secondo traiettorie oblique ed ineccepibili, con repentini sbandamenti del baricentro calibrati appositamente per tenere spostato il punto focale del lettore verso gli aspetti più borderline della nostra quotidianità. Nei racconti di Altri squilibri si sperimenta molto, si provoca altrettanto, si gioca liberamente (e talvolta un po’ cinicamente) con le “donne sull’orlo di una crisi di nervi”, procedendo per costruzioni a cerchi concentrici che finiscono inevitabilmente per convergere in gustosi colpi di scena. Madri apprensive, mogli fuori luogo, amiche autolesioniste, amanti a perdere, stravolte dalle loro stesse ossessioni, dal loro ininterrotto monologare autofagocitante ed implosivo, dalla paranoia degli occhi degli altri sempre puntati addosso, dai modelli omologati “made in USA”, dal fiato corto per correre appresso ai tempi che corrono, per sentirsi donne in un mondo in cui non si sa più bene cosa voglia dire essere donna.



E gli uomini? Ci sono anche loro, ovviamente… in qualche caso risolvono le questioni, ogni tanto amano giocare al gatto e al topo e se va male se ne escono con le ossa rotte, ma il più delle volte se ne stanno semplicemente lì a vedere come va a finire.

Annalisa Bruni con Altri squilibri ha accostato brillantemente l’intelligenza al senso del grottesco, la scrittura leggera, vitale e spigliata a trame solide e ben delineate, fatte apposta per durare a lungo sia nel tempo che nella memoria.





Annalisa Bruni
è nata a Venezia e vive a Mestre. Lavora alla Biblioteca Nazionale Marciana dove organizza e promuove mostre ed eventi. Ha pubblicato racconti su riviste e volumi antologici. Ha scritto radiodrammi e sceneggiature radiofoniche per Radio3 Rai e la Radio Svizzera Italiana.  Ha esordito con il suo primo libro (Storie di libridine) nel 2002.

Dal 1998 al 2005 ha diretto il Laboratorio di scrittura creativa del Circolo culturale "Walter Tobagi". Di recente ha ideato un nuovo corso di scrittura creativa per l'Associazione "RistorArti": "Cucina di storie". Dal 2003 al 2005 ha curato il corso di scrittura cinematografica "Raccontare Mestre". Nel 2005 ha pubblicato la sua seconda raccolta di racconti: Altri squilibri, e ha curato, con Lucia De Michieli e Tiziana Agostini, l'antologia di racconti degli allievi del Laboratorio: Non disturbare. Scritture in corso. In questi giorni è uscito, edito dalla Fondazione Querini Stampalia, il suo racconto: Langenwang.

È attivamente impegnata nella promozione della lettura.

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