sabato 31 dicembre 2005

randagio blues

And I choose us (2)

KATE

You want to do something
great, Jack? Let's flush the
plan...start our lives right
now, today...I don't know what
that life's gonna look like
but I do know it has both of
us in it. And I choose us...

Jack is jolted by her words.

KATE (CONT'D)
The plan doesn't make us
great, Jack. What we have
together, that's what makes us
great.

Questa è la scena iniziale di THE FAMILY MAN, il film di Natale di cui parlavo anche qui.
Ieri ho ripubblicato una digressione che risaliva a due anni fa, era stata la scena finale di American Beauty ad averla innescata. Dalla fine ad un nuovo inizio, c'è molto da capire.
Dicevo che ero tenacemente attaccato al mio passato, ed è ancora vero. Ma è un attaccamento selettivo, tale e quale alla cecità selettiva che ci permette di sopravvivere in questo mondo di ratti e faine.
Ieri ho ripreso a studiare ai vecchi ritmi, che s'erano un po' dilatati vista la nuova prospettiva che ho dovuto acquisire in quanto studente lavoratore. (Se lavoro si può chiamare il SERVIZIO CIVILE NAZIONALE VOLONTARIO).

Sei ore allo sportello INPS del Comune, dove viene gente che aspetta con ansia l'arrivo dei sussidi assistenziali che il Comune elargisce per dare un po' di dignità anche alle famiglie più disagiate, ci metto impegno e passione anche qui, a trascrivere codici fiscali, stati di famiglia in cui abbondano dozzine di Karol. Come l'anno della santificazione del fraticello di Pietralcina ci fu una proliferazione di Pii infanti.

Quella del nome è una deriva interessante: un nome è come il titolo di un libro o di un saggio, "un titolo suscita aspettative, indirizza l'attenzione, predispone alla comprensione" come scrive bene Lucia Pizzo Russo.
Nomi-titoli, nomi come scansadisgrazie, se decido di chiamare mio figlio Karol è segno che i tempi stanno cambiando, eh già.
Negli anni 80 andava forte in questa stessa fetta di popolazione il nome Mirko per i picciriddi, che era il nome dello zito di Kiss me Licia, la figlia di Marrabbio, quello delle polpette e del gatto parlante.
Per le bambine usavano il nome della protagonista di una delle tante telenovelas che ci aiutano a tener desti i sogni: Azucena e Celeste.
Ora il nome del grande Papa. Sempre meglio di quell'uomo che ha messo a suo figlio il nome di Varenne. E va bene un uomo chiamato cavallo ma a tutto c'è sempre un limite.

Chiusa la deriva onomastica-esistenziale, torniamo all'esigenza pressante di riconciliare.
In American Beauty era un uomo freddato in cucina, col sangue che macchiava le piastrelle che cercava di farci capire la mitragliata di vita che ci conquisterà nell'attimo esatto in cui ci congederemo dalla vita e dal mondo.

La scena che ho ricopiato dalla sceneggiatura originale di THE FAMILY MAN sta all'opposto, in un non luogo per eccellenza - l'aeroporto - Jack e Kate si stanno salutando, lui deve andare a Londra per fare carriera, per diventare un uomo con Ferrari e ventiquattr'ore. Partendo promette che è solo un viaggio, che non inciderà minimamente nel loro bellissimo rapporto.
Kate capisce bene che, salendo su quell'aereo, lo perderà per sempre. Quindi gli chiede di fare una follia: saranno felici anche senza quel viaggio, senza elevare il loro status sociale. Saranno felici perché saranno insieme.
Lo dice in quattro parole: Io ho scelto NOI.
Che poi sarebbero le quattro parole più belle da dire a chi ci scalda il cuore.

Perdere l'anima e l'amore per inseguire i bigliettoni e sogni di gloria, un conto in banca a dodici zeri vale tanto?

E allora ringrazio queste asperità quotidiane, questi tempi grigi di pasti ancora più grigi, dove il grigio te lo senti dentro, nelle tonsille, in fondo alla gola.
Che la nuvoletta di Fantozzi sarebbe la meno spesa, insostenibile è quando la pioggia ti cade sui sogni e sulle speranze che pettinavi da piccolo.
Questo sino a quando capisci che l'essenziale l'hai già trovato.

Che non è affatto invisibile agli occhi, o forse sì, ma solo perché ti ha abbagliato con la luce buona e giusta dell'ovvietà.

Spero, semplicemente, che il prossimo stormo di cicogne porti un'abbondanza straordinaria di pasciuti Prospero e di bellissime signorine Felicità.

randagio blues

manovre di speranza?

VOLONTARI DEL SERVIZIO CIVILE IN ITALIA- PAGAMENTO MENSILITA’ DI NOVEMBRE 2005
28/12/2005

Si comunica che i compensi relativi al mese di Novembre 2005 ed eventuali arretrati per i volontari i cui estremi di libretto postale nominativo ordinario sono stati regolarmente acquisiti dalla banca-dati dell’UNSC saranno accreditati, a cura di Poste italiane, sui libretti medesimi il 5 gennaio p.v.

rassegna stanca

And I choose us (2)

KATE

You want to do something
great, Jack? Let's flush the
plan...start our lives right
now, today...I don't know what
that life's gonna look like
but I do know it has both of
us in it. And I choose us...

Jack is jolted by her words.

KATE (CONT'D)
The plan doesn't make us
great, Jack. What we have
together, that's what makes us
great.

Questa è la scena iniziale di THE FAMILY MAN, il film di Natale di cui parlavo anche qui.
Ieri ho ripubblicato una digressione che risaliva a due anni fa, era stata la scena finale di American Beauty ad averla innescata. Dalla fine ad un nuovo inizio, c'è molto da capire.
Dicevo che ero tenacemente attaccato al mio passato, ed è ancora vero. Ma è un attaccamento selettivo, tale e quale alla cecità selettiva che ci permette di sopravvivere in questo mondo di ratti e faine.
Ieri ho ripreso a studiare ai vecchi ritmi, che s'erano un po' dilatati vista la nuova prospettiva che ho dovuto acquisire in quanto studente lavoratore. (Se lavoro si può chiamare il SERVIZIO CIVILE NAZIONALE VOLONTARIO).

Sei ore allo sportello INPS del Comune, dove viene gente che aspetta con ansia l'arrivo dei sussidi assistenziali che il Comune elargisce per dare un po' di dignità anche alle famiglie più disagiate, ci metto impegno e passione anche qui, a trascrivere codici fiscali, stati di famiglia in cui abbondano dozzine di Karol. Come l'anno della santificazione del fraticello di Pietralcina ci fu una proliferazione di Pii infanti.

Quella del nome è una deriva interessante: un nome è come il titolo di un libro o di un saggio, "un titolo suscita aspettative, indirizza l'attenzione, predispone alla comprensione" come scrive bene Lucia Pizzo Russo.
Nomi-titoli, nomi come scansadisgrazie, se decido di chiamare mio figlio Karol è segno che i tempi stanno cambiando, eh già.
Negli anni 80 andava forte in questa stessa fetta di popolazione il nome Mirko per i picciriddi, che era il nome dello zito di Kiss me Licia, la figlia di Marrabbio, quello delle polpette e del gatto parlante.
Per le bambine usavano il nome della protagonista di una delle tante telenovelas che ci aiutano a tener desti i sogni: Azucena e Celeste.
Ora il nome del grande Papa. Sempre meglio di quell'uomo che ha messo a suo figlio il nome di Varenne. E va bene un uomo chiamato cavallo ma a tutto c'è sempre un limite.

Chiusa la deriva onomastica-esistenziale, torniamo all'esigenza pressante di riconciliare.
In American Beauty era un uomo freddato in cucina, col sangue che macchiava le piastrelle che cercava di farci capire la mitragliata di vita che ci conquisterà nell'attimo esatto in cui ci congederemo dalla vita e dal mondo.

La scena che ho ricopiato dalla sceneggiatura originale di THE FAMILY MAN sta all'opposto, in un non luogo per eccellenza - l'aeroporto - Jack e Kate si stanno salutando, lui deve andare a Londra per fare carriera, per diventare un uomo con Ferrari e ventiquattr'ore. Partendo promette che è solo un viaggio, che non inciderà minimamente nel loro bellissimo rapporto.
Kate capisce bene che, salendo su quell'aereo, lo perderà per sempre. Quindi gli chiede di fare una follia: saranno felici anche senza quel viaggio, senza elevare il loro status sociale. Saranno felici perché saranno insieme.
Lo dice in quattro parole: Io ho scelto NOI.
Che poi sarebbero le quattro parole più belle da dire a chi ci scalda il cuore.

Perdere l'anima e l'amore per inseguire i bigliettoni e sogni di gloria, un conto in banca a dodici zeri vale tanto?

E allora ringrazio queste asperità quotidiane, questi tempi grigi di pasti ancora più grigi, dove il grigio te lo senti dentro, nelle tonsille, in fondo alla gola.
Che la nuvoletta di Fantozzi sarebbe la meno spesa, insostenibile è quando la pioggia ti cade sui sogni e sulle speranze che pettinavi da piccolo.
Questo sino a quando capisci che l'essenziale l'hai già trovato.

Che non è affatto invisibile agli occhi, o forse sì, ma solo perché ti ha abbagliato con la luce buona e giusta dell'ovvietà.

Spero, semplicemente, che il prossimo stormo di cicogne porti un'abbondanza straordinaria di pasciuti Prospero e di bellissime signorine Felicità.

manovre di speranza?

VOLONTARI DEL SERVIZIO CIVILE IN ITALIA- PAGAMENTO MENSILITA’ DI NOVEMBRE 2005
28/12/2005

Si comunica che i compensi relativi al mese di Novembre 2005 ed eventuali arretrati per i volontari i cui estremi di libretto postale nominativo ordinario sono stati regolarmente acquisiti dalla banca-dati dell’UNSC saranno accreditati, a cura di Poste italiane, sui libretti medesimi il 5 gennaio p.v.

rassegna stanca

venerdì 30 dicembre 2005

There's no time for us...

"I guess I could be pretty pissed off about what happened to me... but it's hard to stay mad, when there's so much beauty in the world. Sometimes I feel like I'm seeing it all at once, and it's too much, my heart fills up like a balloon that's about to burst...
...and then I remember to relax, and stop trying to hold on to it, and then it flows through me like rain and I can't feel anything but gratitude for every single moment of my stupid little life...
You have no idea what I'm talking about, I'm sure. But don't worry...
You will someday."



Finiva così American Beauty: un giorno lo sapremo. Sapremo come la bellezza del mondo riempie l'amore e il cranio prima che l'anima voli via. Com'essa tracimi verso le nuvole ricolorando ogni singolo momento di tutta una stupida e piccola vita.

Quello di cui molti mi accusano e' vero, sono tenacemente attaccato al mio passato, come una patella allo scoglio. Semplice: viviamo il presente e vivendolo lo spediamo nel magazzino della memoria, il futuro c'e' ma appena ci mettiamo piede diventa, passo dopo passo, recentissimo passato. E poi su che cosa si dovrebbe scrivere?
Sull'avvenire?
Sui mondi al congiuntivo?
Sui possibili futuri che ammazziamo ogni volta che facciamo una scelta?
"Le lingue sono fatte non tanto per disegnare il futuro quanto per raccontare il passato" lo dice pure il mio manuale di Linguistica Generale.


E poi se c'era una cosa che alle elementari odiavo era il tema che ti obbligavano a svolgere ogni dannato anno: "Scrivi cosa vorresti fare DA GRANDE...".
Era angosciante: dover fantasticare su carriere improbabili e certezze fuori portata.
Quei temini erano nere e odiose torture psicologiche, frutto della malignità della maestra arpia che mi obbligava a colorare il cielo come voleva lei, tutto da un verso e con mano delicata.
- Non lo vorresti fare il calciatore e diventare bravo come Schillaci?
A me il calcio mi ha sempre annoiato, l'unica cosa allettante era fare il guardiano della porta. Mettersi tra due barattoli o tra due zainetti e aspettare. Aspettare lo scontro diretto con l'attaccante. Solo che dopo una trentina di brutte cadute ho preferito gli scacchi.
- Non ti piacerebbe fare il medico ed essere piu' ricco di Zio Paperone in una bella casa col giardino?
NO.


A 8 anni le priorità erano altre. Minime. Afferrabili.
Riuscire a prendere piu' grilli di Nicola.
Sbirciare sotto la gonna di Antonia.
Riuscire a finire i labirinti di Zelda sul Super Nes della Nintendo.
Il castello dei Masters e il galeone dei pirati della Playmobil.
La macchina degli Acchiappafantasmi (pero' gli altri, non quelli con Slymer).
E poi il sogno più sogno di tutti, l'arcisogno, quello che valeva tutta una settimana di tegolini: riuscire a catturare le lucertole con un filo d'erba come faceva Francesco Paolo.

Invece no, quello del tema doveva essere imbottito con un sogno da arrivista. Non potevi scrivere: "voglio solo e soltanto riuscire a catturare almeno una lucertola con un filo d'erba come sa fare Francesco Paolo. E se fosse possibile vorrei pure la fionda a braccio che papà non mi vuole comprare, giuro che se l'avessi la userei contro mia sorella solo per leggittima difesa o per accoppare qualche piccione."

Se avessi scritto così la maestra mi avrebbe strappato il foglio e chiamato la consulente con i porri sul mento e gli occhiali più spessi di tre tegolini messi uno sull'altro. Per continuare a vivere tranquillo nel mio bel banco della seconda fila dovevo inventarmi che mi sarebbe piaciuto un sacco diventare un medico per aiutare i bambini del terzo mondo, gli stessi a cui volevo soltanto spedire tutti i piatti di lenticchie e i broccoli puzzolenti che mia madre mi obbligava a mangiare.

Quando capirò quello che intendeva Kevin Spacey in American Beauty mi sfrecceranno davanti un centinaio di momenti, fitti fitti e veloci, compatti, ineguagliabili, indimenticabili, inossidabili, indelebili, incocciati per strada o amorosamente coltivati.
Forse ci sarà pure quell'unica bellissima volta che ce l'ho fatta a prendere una lucertola.

così scrivevo nell'ottobre del 2004. Quando è iniziato il lungo cammino che m'ha portato a rimettere in discussione tutto il mio mondo e tutte le mie manie di bisezione.

il mio piccolo canto di Natale

There's no time for us...

"I guess I could be pretty pissed off about what happened to me... but it's hard to stay mad, when there's so much beauty in the world. Sometimes I feel like I'm seeing it all at once, and it's too much, my heart fills up like a balloon that's about to burst...
...and then I remember to relax, and stop trying to hold on to it, and then it flows through me like rain and I can't feel anything but gratitude for every single moment of my stupid little life...
You have no idea what I'm talking about, I'm sure. But don't worry...
You will someday."



Finiva così American Beauty: un giorno lo sapremo. Sapremo come la bellezza del mondo riempie l'amore e il cranio prima che l'anima voli via. Com'essa tracimi verso le nuvole ricolorando ogni singolo momento di tutta una stupida e piccola vita.

Quello di cui molti mi accusano e' vero, sono tenacemente attaccato al mio passato, come una patella allo scoglio. Semplice: viviamo il presente e vivendolo lo spediamo nel magazzino della memoria, il futuro c'e' ma appena ci mettiamo piede diventa, passo dopo passo, recentissimo passato. E poi su che cosa si dovrebbe scrivere?
Sull'avvenire?
Sui mondi al congiuntivo?
Sui possibili futuri che ammazziamo ogni volta che facciamo una scelta?
"Le lingue sono fatte non tanto per disegnare il futuro quanto per raccontare il passato" lo dice pure il mio manuale di Linguistica Generale.


E poi se c'era una cosa che alle elementari odiavo era il tema che ti obbligavano a svolgere ogni dannato anno: "Scrivi cosa vorresti fare DA GRANDE...".
Era angosciante: dover fantasticare su carriere improbabili e certezze fuori portata.
Quei temini erano nere e odiose torture psicologiche, frutto della malignità della maestra arpia che mi obbligava a colorare il cielo come voleva lei, tutto da un verso e con mano delicata.
- Non lo vorresti fare il calciatore e diventare bravo come Schillaci?
A me il calcio mi ha sempre annoiato, l'unica cosa allettante era fare il guardiano della porta. Mettersi tra due barattoli o tra due zainetti e aspettare. Aspettare lo scontro diretto con l'attaccante. Solo che dopo una trentina di brutte cadute ho preferito gli scacchi.
- Non ti piacerebbe fare il medico ed essere piu' ricco di Zio Paperone in una bella casa col giardino?
NO.


A 8 anni le priorità erano altre. Minime. Afferrabili.
Riuscire a prendere piu' grilli di Nicola.
Sbirciare sotto la gonna di Antonia.
Riuscire a finire i labirinti di Zelda sul Super Nes della Nintendo.
Il castello dei Masters e il galeone dei pirati della Playmobil.
La macchina degli Acchiappafantasmi (pero' gli altri, non quelli con Slymer).
E poi il sogno più sogno di tutti, l'arcisogno, quello che valeva tutta una settimana di tegolini: riuscire a catturare le lucertole con un filo d'erba come faceva Francesco Paolo.

Invece no, quello del tema doveva essere imbottito con un sogno da arrivista. Non potevi scrivere: "voglio solo e soltanto riuscire a catturare almeno una lucertola con un filo d'erba come sa fare Francesco Paolo. E se fosse possibile vorrei pure la fionda a braccio che papà non mi vuole comprare, giuro che se l'avessi la userei contro mia sorella solo per leggittima difesa o per accoppare qualche piccione."

Se avessi scritto così la maestra mi avrebbe strappato il foglio e chiamato la consulente con i porri sul mento e gli occhiali più spessi di tre tegolini messi uno sull'altro. Per continuare a vivere tranquillo nel mio bel banco della seconda fila dovevo inventarmi che mi sarebbe piaciuto un sacco diventare un medico per aiutare i bambini del terzo mondo, gli stessi a cui volevo soltanto spedire tutti i piatti di lenticchie e i broccoli puzzolenti che mia madre mi obbligava a mangiare.

Quando capirò quello che intendeva Kevin Spacey in American Beauty mi sfrecceranno davanti un centinaio di momenti, fitti fitti e veloci, compatti, ineguagliabili, indimenticabili, inossidabili, indelebili, incocciati per strada o amorosamente coltivati.
Forse ci sarà pure quell'unica bellissima volta che ce l'ho fatta a prendere una lucertola.

così scrivevo nell'ottobre del 2004. Quando è iniziato il lungo cammino che m'ha portato a rimettere in discussione tutto il mio mondo e tutte le mie manie di bisezione.

il mio piccolo canto di Natale

giovedì 29 dicembre 2005

And I choose us...

Questa è la battuta finale di THE FAMILY MAN, il bel film natalizio con Nicholas Cage che altro non è che una rivisitazione del vecchissimo LA VITA E' MERAVIGLIOSA. Le storie di Natale mi sono sempre piaciute, sin dove arriva a scavare la talpa dei ricordi mi vedo bimbo panciuto a far presepi con mio padre, perché mia madre non si è mai accontentata di un solo presepe, no, troppo banale... dato che casa mia si espande su tre piani con cinque stanze per piano, ne facevamo almeno quattro, quello monumentale stava nella fioriera del salotto, uno mignon stava nella cucina (un presepe che mia madre aveva vinto ad una pesca di beneficenza quando  ancora era una picciridda coi boccoli nerissimi), uno nella mia stanza (avevo investito così i soldi che la mia madrina di battesimo m'aveva regalato per la mia prima Comunione) e uno nella stanza dei miei.

 
Quello monumentale era un'utopia fattasi sughero e colla e carta e tanto, tantissimo nastro da imballaggio, quello marrone che se non tratti bene finisce per appiccicarsi dovunque tranne nelle due metà che dovrebbe sposare, mio padre è stato sempre megalomane, una volta ne abbiamo fatto uno che era una torre di babele di cassette di frutta, quelle di legno in cui si mettono a maturare le arance. pareva quei paesini abbarbicati su un monte, con tutte le case e la vecchina che filava, l'uomo delle castagne, il macellaio, l'addumisciutu e perfino il pastorello col culo all'aria e con un pezzo di cacca che gli usciva dal deretano (quello mia madre lo ammucciava sempre e io dovevo rimetterlo nella zona più illuminata per rendere la scena più reale. Su quel presepe suonava le sue nenie stonate il Signor Di Nardo, un pecoraro che dopo che un trattore se l'era preso di petto aveva fatto voto di suonare a Bagheria sino alla fine dei suoi giorni la sua ciaramella, la sua zampogna. Il signor Di Nardo sapeva di cacio e di vino e la sua ciaramella era una pecora scuoiata che prima di suonare doveva gonfiare per bene e poi partivano le prime stonature, tutte a lode e gloria della Vergine Benedetta.

 
Quello che preferivo restava quello della cucina, un presepe-carillon piccolo e essenziale. Ma la megalomania paterna non risparmiò neanche il girotondo dei pastori attorno alla grotta dell'Evento. Mio padre gli appiccicò negli spazi vuoti quei pastorelli mignon che servono per rispettare le leggi immutabili della prospettiva. Girò per anni il disco di compensato attorno alla grotta sino a quando l'ennesimo giro di chiavetta gli fu letale.

 
E poi c'era l'Opera Incompiuta, qua servirebbe una microparentesi sulle Grandi Incompiute di Giovanni Pintacuda ma questa è un'altra storia e magari un giorno ve la racconterò. L'Opera Incompiuta è un presepe di compensato che le cronache dicono iniziò ad essere traforato nel 1972, qualcosa come 33 anni fa, guarda caso l'età del Redentore. Mio padre traforava in attesa dell'arrivo della prole, poi arrivò mia sorella e il presepe sembrava già finito ma il risultato non letificava mio padre che è sempre stato un cagacazzi tale e quale a me.

 
Mai soddisfatti delle nostre fatiche, io e mio padre potremmo lavorare di lima all'infinito. A me capita soprattutto quando i miei sforzi cozzano col fallimento del dialogo, soprattutto quello con mio padre, com'è giusto che sia nella dialettica intergenerazionale condita dai quarant'anni che ci separano. Lui invece inizia duemila progetti lasciandoli sempre in uno stato di imperitura perfettibilità, non me l'ha mai detto, ma credo che, se fosse possibile, riproverebbe pure a rifarmi ex novo, con più accortezza, scozzando dal mio DNA tutti i tratti che ci rendono quelli che siamo.

 
Il presepe doveva essere un lavoro di fine, trenta pastorelli e una capanna, niente di che, ma il progetto iniziale prevedeva di traforare il legno ogni oltre umano limite, levare tutto per lasciare praticamente quattro linee stilizzate. Mio padre pensò di usare il pirografo, oggetto che nella mia testa doveva costare come minimo mezzo milione visto che mio padre non l'ha mai voluto acquistare e sopperiva a quella mancanza riscaldando gli spiedini di ferro in cui mia madre infilza i suoi mitici involtini alla siciliana sino a che diventavano roventi, rossi come le fiamme dell'inferno. E poi li passava sul compensato. Poi venne a trovarci un'amica di famiglia, nella fattispecie la Professoressa che mi donò la parola DICOTOMIA. Iniziò a guardare con concupiscenza il presepe che nel novantadue era quasi finito, mio padre non ci pensò due volte, prese il suo ego ipertrofico e la sua sete di elogi e donò alla professoressa il presepe, finendolo in meno di due settimane. A noi disse che l'avrebbe rifatto meglio, con del compensato di faggio.

 
Ma l'estro artistico di mio padre si manifestò nella forma dei mitici uniposca, i pennarelloni dell'Osama che si dovevano sguazzariare per bene prima di essere utilizzati. Mio padre prese le sagome del presepe e li colorò con pallini verdi e blu, rossi e gialli. Un abominio.

 
E per di più chiese a me, sangue del suo sangue, cosa ne pensavo. Preferii tacere. Poi gli anni passarono, il presepe s'era arenato di nuovo, come ogni anno. Sino a quando andai a comprare alla Feltrinelli le poesie di Paul Celan per iniziare a scrivere la tesi. Sulla strada c'era una ferramenta, mio padre vide in vetrina il suo oggetto totemico, quel pirografo che avrebbe comprato un giorno se avesse mai azzeccato il terno giusto sulla ruota di Palermo. Lo vidi anch'io, capita sempre così, quando i genitori imbiancano ritornano più bambini di prima, mio padre aveva la stessa faccia che avevo io quando scartai il regalo del mio sesto compleanno, il bellissimo castello di Greyskull, il rifugio della maga che aveva donato a He-Man i poteri.

MI squagliò qualcosa dentro, presi dodici euro e entrai.


Uscii e glielo diedi, lui mi guardò strano, iniziò la sua filippica fatta di "non dovevi disturbarti", "perché non li spendevi per cose più utili..." e altre frasi da genitori.

Ero fiero di me. Ma ancora il presepe aspetta d'essere concluso. Com'è giusto che sia. Non lo so, forse è che a 63 anni se ne sono andati dalla vita e dal mondo tutti i miei nonni, e 63 anni sono gli anni che mio padre ha nelle sue rughe da apache. Forse pensa che non muore mai chi ha ancora qualcosa da finire. Forse è come succede a me con i miei racconti, sempre perfettibili, future riscritture di pagine già pensate milioni di volte, storie che ci spuntano nel cuore e che devono macerare nell'esperienza quotidiana prima di transustanziarsi.

demetrio paolin. il tempo del lavoro materiale

carissimi vi posto qui un po' di pagine che ho scritto in questi mesi che hanno a che fare con il mio lavoro e con la scrittura. Non vogliono essere ne un saggio, né un racconto, né una memoria, né un trattato, ma una qualche via di mezzo. eccolo i seguito (lo so che è piuttosto lunghino..)

d.

0.0 INTRO

La pizzeria al taglio dove vado spesso in pausa pranzo è quasi dietro il mio ufficio. Esci, chiudi la porta, scendi le scale, fai una decina di metri, imbocchi una via laterale minuscola e buia, e te la trovi davanti. Focaccia di Recco: l’insegna è verde, mentre la scritta è gialloro. Qui fanno in assoluto, se escludiamo la cittadina ligure omonima, la focaccia di Recco migliore dell’Italia. Ma non è di questo che volevo parlavi, comunque mentre mangiavo, un uomo e una donna sono venuti a sedersi lì accanto. Dovete sapere che questa focacceria è minuscola, ci saranno, se la memoria non falla, 10 (massì dieci, tanto chi tra i miei 13 lettori andrà mai a controllare) sgabelli. Insomma si sono messi nell’angolo, vicino a me, a discutere.
“E tre…” fa il primo vestito come un assicuratore.
“Tre? Cosa?” disse lei, il cui abito tradiva la medesima origine.
“Tre nel senso che è morto pure Ranieri…”
“…”
“E così con la Schiavo, il Papa e il Ranieri abbiamo fatto…”
“Tris!” ha fatto lei, succhiando via un fungo porcino – consiglio se non c’è la focaccia di recco, prendete quella con i funghi procini – che le stava per cadere.
“Finalmente …”
“…”
“…potremo riavere i telegiornali di prima, senza contare che non ho visto il gran premio”
Duante questa conversazione luminosa, mi chiama un amico al telefonino
Hai visto chi è morto...
Chi? Ranieri?
No, cioè sì anche lui, ma è morto Bellow
Dai.
Massì
L’autore di Herzog?
L’hai letto?
Una volta
Ma è bellissimo
E infatti l’ho letto una volta, constatato che è bellissimo sono passato ad altri libri
Bellissimi?
Un po’ di tutti i tipi…
Comunque è morto.
E' più forte di me, e quindi mi giro verso l’assicuratore e la sua accompagnatrice, mettendo su la faccia gentile, da ragazzo che ha studiato, timido e impacciato. Mi vedono.
Lei fa: “Scusi…”
Volevo dire che è morto Saul Bellow
“Ah”
Ve l'ho detto perché pensavo che quando ero piccolo preferivo giocare a Forza Quattro.
L’uomo ha fatto un gesto che non è proprio riproducibile, perché la voce si era fatta precisa precisa ad un grugnito. Il mio amico, intanto, era ancora in linea. Ho messo giù, ne arriva subito un’altra. Mia madre.
Ti devo raccontare una cosa
Dimmi…
Allora è venuto uno per affittare la casa. E’ un marocchino. Mi chiama la mattina e mi dice che sarebbe interessato a vedere la casa. E io gli rispondo che va bene che venga nel pomeriggio. Questo succedeva l’altro ieri. Ieri è venuto: lui si chiama Kaleb, ed è venuto con un amico, ma il nome non me lo ricordo. Abbiamo visto la casa e Kaleb mi ha detto: bella, va bene. Io gli ho detto, ma con chi ci vieni a vivere?, e lui mi ha detto: con mia moglie, non abbiamo figli. Io gli ho risposto, perché mi sembrava giusto dirgli così, ma se tua moglie neppure l’ha vista. In fin dei conti è lei che ci deve passare la maggior parte del tempo. Ho fatto bene o no?…
Hai fatto benissimo.
Ma senti è mica finita. Quando ho detto così, l’amico di Kaleb mi ha detto che se la casa piace al marito, piace sicuramente anche alla moglie. E Kaleb faceva su e giù con la testa, come per dire, che l’amico aveva pienamente ragione. Allora se ne vanno e mi dicono che mi avrebbero chiamato. Questa mattina mi chiama Kaleb e mi dice che voleva venire a vedere la casa, perché ne ha parlato con sua moglie e sua moglie vuole vederla, se no non se ne fa niente. Allora io gli dico ma scusa, tu non eri quello che se la casa piace al marito piace anche alla moglie. Allora Kaleb ha detto: il Corano è una legge scritta per il cielo, sulla terra bisogna arrangiarsi. Hai capito?
Sì.
Ecco no volevo dirtelo.
Bene.
Non stavi mica mangiando?
Qualcosa ma non c’è problema.
(Questa di solito è la mia pausa pranzo.)
Mentre torno in ufficio, aspettando sognando e già assaporando il caffè, il cellulare mi suona nuovamente.
Ciao
Ciao
Volevo ancora chiederti una cosa, visto che prima mi ha buttato giù
Ah
Che non stai più aggiornando il blog
Lo so..
Come mai…
Boh
Non hai idee, non stai scrivendo?
No. Sto scrivendo, scrivo scrivo tantissimo
E cosa stai scrivendo?
Pensa che ho scritto solo oggi un testo di 9 mila battute, poi un altro di 3mila. In due orette.
E non le pubblichi?
Sono cose di lavoro
Ah
Perché dici “Ah”?
Perché quelle cose non le puoi pubblicare, sono pallose.
Eppure mi domando come mai quando mi metto a scrivere "quelle cose", di cui sinceramente, a me per primo, non me ne fotte un cazzo, le parole mi vengono fluide, si mettono in ordine da sole, come se sapessero come devono disporsi. Certe volte mi colpisce questa loro pre-disporsi. Ecco…
Cosa?
E’ una questione di disposizione: le parole si dispongono come è giusto: si mettono in certo ordine che l'unico e solo.E’ un’esperienza strana. Io frequento (potremmo dire che sono un abitudinario?) questo tipo di scrittura impiegatizia, più di quanto non faccia con quella, tra virgolette, creativa, ma non ci ho mai riflettuto come si conviene. Forse dovrei...
Dici? Secondo me è una cosa pallosa, a chi vuoi che freghi di sapere cosa è scrivere un comunicato stampa
Io non voglio dire cosa è la scrittura di un comunicato stampa, ma come è un’esperienza di lavoro, soprattutto quando entra in gioco lo scrivere.
Fregherà a qualcuno?
No. Non lo so. Però è vero quando tu dici sul mancato aggiornamento del blog. Ti devo confessare che, in questi giorni, ho provato alcune volte a scrivere qualcosa sul Papa e su Terry Schiavo: questo mi avrebbe reso decisamente alla moda; le mie idee, però, erano troppo semplici e brevi. Ti capita mai di avere idee brevi?
In che senso?
Nel senso che pensando al Papa mi dicevo: l’unica cosa che dobbiamo ad un morto è seppellirlo in pace. Mentre pensando alla Schiavo mi dicevo: è possibile considerare essere umano una persona attaccata ad una macchina? E se la risposta è affermativa: mi si spiega, perché per farla morire basta staccare una spina come nel più frusto degli elettrodomestici? Io pensavo queste cose qui, e vedevo le mie idee come pensate semplici semplici e soprattutto di poco conto. Mentre avrei tanto da dire su quello che sto scrivendo adesso per il mio lavoro.
Dici?
Stiamo organizzando un congresso e io credo che possa essere interessante dare uno sguardo dal didentro. Capisci?
Mah
E’ questo che devi capire, che io per lavoro scrivo delle cose teniche, scrivo delle cose che hanno a che fare con un mondo, che si interroga se per commemorare il Papa sia meglio fare una semplice ‘fermata’ o una ‘battuta’ di sciopero: che suonano come la medesima cosa, ma non lo sono per nulla.
E come farai?
Adesso sono in ufficio, mi metto alla scrivania e scrivo l’introduzione…
C’hai trovato un titolo?
Lo pensavo mentre salivo le scale, che ne dici de Il tempo del lavoro materiale
Bel titolo...
Bene, vado ad iniziare.

0.1 ancora intro (il committente)

Capita lunedì di leggere una mail di un lettore, maschio adulto, che mi chiede di scrivere una cosa sulla tenerezza e l’onnipotenza. La lettera, che non riporto, mi chiedeva di scrivere su questo tema. Quelle parole mi hanno colpito, perché in un certo senso mi commissionavano un lavoro, una scrittura e un articolo. Questo significa che per alcuni dei lettori io sono in possesso di una voce e un tono, che rende familiari determinati argomenti e non altri. Ciò che produco ha creato una certa aspettativa, che è una sensazione oscura quanto luminosa di chi apre queste pagine, cercando una determinata tonalità. La commissione di un lavoro è, come in questo caso, un’apertura di credito, compie un atto di fede in me e negli strumenti che posseggo nello scrivere una certa cosa. I pensieri che sono passati in testa al mio amico in mail tutto questo marchingegno in cui si legano fiducia, ascolto, stupore) non sono molto diversi da quelli che hanno spinto il mio capo a diventare mio committente. Dopo una serie di colloqui, e dopo aver letto i miei articoli su alcuni giornali torinesi, lui ha deciso che quel tipo di scrittura, di professionalità e di competenza poteva andare bene per la cura dei rapporti tra la stampa e la sua organizzazione.
Lui non solo mi ha dato credito, ma mi fa credito, pagando il 27 del mese il mio stipendio. Quella che si produce, quindi, è una scrittura sotto padrone.
Non voglio dare a questo termine niente di negativo, ma chiarire come molte volte le cose che scriviamo rispondano in maniera più o meno coscia ad una serie di richieste, che i lettori ci fanno. E questo fatto cambia quello che noi andiamo facendo con la nostra scrittura? Sì e no. L’accorgersi di un pubblico è la presa d’atto di una certa responsabilità: Primo Levi, ne La ricerca delle Radici, sostiene parlando del Parini che un autore deve essere responsabile delle parole che scrive. La percezione di un lettore, che non è neutro, ma bensì un committente ovvero uno che ci dà credito, quindi ci porta ad avere una sorta di atteggiamento nuovo verso le cose, che scriviamo, ma nello stesso tempo sancisce la libertà di poterci esprimere come sempre abbiamo fatto, perché – alla fine – è questo ciò che desidera il committente.
*
Cosa avrei dovuto scrivere all’amico della lettera? Perché la sua richiesta non era poi così diversa dal post che avrei voluto pubblicare lunedì. La sua lettera invece mi ha convinto a soprassedere. Gli potrei ora, se vuole, se ancora quella sua urgenza lo richiede, raccontare questo aneddoto.
Mercoledì sera ero a casa dai miei, e in quel momento chiama un cugino, uno dei tanti. Risponde mia madre e sento che dice: Sei a Roma? C’è tanta gente. L’hai visto? Sì. Ma dai. Veramente. Mio cugino, che entra in chiesa giusto perché ci sono i temporali, è andato a Roma; ne sono incuriosito, chiedo a mamma di passarmi il cugino, che mi chiede come sto come va il lavoro la vita in genere (è una telefonata solita, che ho pensato bene di risparmiare al mio lettore committente), ma alla fine gli chiedo: Ma tu cosa hai visto? Lui mi dice sorridendo: le suole delle scarpe, è che non riesci a vedere molto di più. Solo le suole delle scarpe. Tempo di accorgerti dove sei e devi spostarti.
Ora questa cosa mi ha fatto ridere, e ridevo mentre abbiamo chiuso la telefonata. Ripensandoci, quelle scarpe così pulite, così ordinate e lucide, quella suola vergine, che non aveva mai toccato terra o nient’altro mi avevano disturbato, domenica pomeriggio, quando il corpo del Papa era stato esposto. Mi avevano colpito perché era l’unica cosa di lui visibile e l’unica cosa che stonava (so che Zucconi ha scritto un articolo su questo tema, dovrebbe essere Repubblica di lunedì, ma il bello della commissione e della scrittura su commissione è poter reiterare un tema in tutte le sue varianti), perché di colpo quelle scarpe riportavano il Papa ad una dimensione scarsamente sacrale. Mi sono ritrovato a pensare che una cosa del genere la poteva giusto immaginarla mia nonna, che per il suo funerale aveva preparato tutto comprese le scarpe (che erano nere, con un po' di tacco, e una piccola fibia civettuola; per non parlare della foto, che lei aveva voluto per la tomba. Aveva scelto una foto di lei giovane e bella, mia nonna era stata vanitosa fino all'ultimo respiro). Mi sono immaginato il Papa fare la stessa cosa: farsi fare un paio di scarpe nuove e linde e metterle via nel giorno del Nunc dimittis.
Inutile dire che queste scarpe stonino con il resto. Troppo nuove e mai calzate, sembrano di cera o di plastica tanto sono luminose: sono loro a imporsi alla tua memoria più di quanto non lo faccia il corpo del Papa, che anzi è coperto e nascosto.
Inizialmente poi la televisione si era decisa per una ripresa frontale, ma poi proprio l’invadenza delle scarpe, li ha costretti a scegliere una visione laterale. Il regista aveva pensato una cosa del genere, forse inconsapevole, ma una cosa del genere: quando ci troviamo davanti ad un morto, la nostra prospettiva deve essere quella di Mantenga nel Cristo Morto. Frontale dai piedi verso il viso, sigillato nella smorfia - ci avete fatto caso? tutte le facce morte hanno la medesima espressione - della morte. Si desidera quella ripresa, quel tipo di visione e di visuale, ma le scarpe rendono tutto impossibile. Le prime immagini del Papa morto sono dei mocassini di pregevolissima fattura di un colore acceso e lucido e con una suola nera mai usata. Si rischia il ridicolo. Meglio spostare l’inquadratura, sul lato sinistro, dai piedi verso il viso. A ben vedere il regista poteva fare un’altra scelta, diversa: fare del Papa l'icona del Cristo nel sepolcro. Un’inquadratura laterale, piatta, parallela. Questa sarebbe stata la ripresa adatta, perché forniva un’evidenza. “Quel corpo, che stiamo vedendo, è morto”. Tutta la nostra fede sta nel fatto che noi crediamo che quel corpo, schiacciato in quella visione opprimente, svuotato di vita, come quello di chiunque altro, tornerà vivo.
Più passa il tempo e più mi convinco che la salvezza avrà ben poco a che fare con la tenerezza, la salvezza sarà un evento violento. E a pensarci bene non può che essere così. Se uno immagina una distesa di ossa morte e finite, quale tenerezza potrà farle rivivere? Nessuna. La resurrezione della carne sarà un atto violento, di colpo, come ridestati da una forza potente, saremmo nuovamente strappati dal nulla, e rimessi nelle nostre ossa. Guardo le scarpe del Papa e penso, è un lampo doloroso, che salvezza e violenza sono, anche se lontane su di un piano remotissimo, sinonimi. Rappresentano la stessa cosa.


1.0 Il dilettante o l'ibrido

Ho appena finito di leggere un libro essenziale di Imre Kertesz Liquidazione (Feltrinelli). Liquidazione, il libro, racconta la storia di un libro Liquidazione, che non è mai stato scritto. Di più si parla dell’impossibilità di scrivere un libro che ha per titolo Liquidazione. Ad essere sinceri il libro, Liquidazione, di cui si parla nel libro Liquidazione, c’è, ma per motivi, che non voglio stare qui a spiegare, il libro Liquidazione sancisce l’impossibilità di poterlo rendere pubblico, e quindi di pubblicare il libro Liquidazione.
Non è ovviamente questo che mi preme dire, cioè mi interessa, ma cerco di camminare di sbieco (questo fine settimana sono stato a casa dai miei, e mia madre mi ha detto che ho sempre questo vizio di camminare per sbieco, di traverso, di non riuscire ad andare diritto. Mia madre e mio padre hanno messo a nuovo la cucina, mi piace così come è adesso. Comunque ce l’hanno che non saluto nessuno quando cammino per strada) e di arrivare ad una qualche provvisoria conclusione.
Nel libro Liquidazione, che racconta come abbiamo cercato di dire l’impossibilità di scrivere un libro intitolato Liquidazione, c’è la figura di un redattore editoriale, che si porta dietro il nome Keserü (che vuol dire amaro).
Tra le miriadi di cose che Keserü dice, o che gli fa dire l’autore del libro – che si chiama B. – e che sta componendo il testo intitolato Liquidazione -, una in particolare attira la mia attenzione; Keserü parla di come è diventato redattore editoriale. Lui racconta più o meno così: succede che un giorno, camminando per l’università, un amico ti dà da leggere una cosa sua, una poesia, piuttosto che un racconto, e tu dopo che l’hai letta dici al tuo amico: io cambierei qui, metterei un altro aggettivo in questo distico, un’altra tonalità a questo verso. E così via. Succede che la poesia come tu l’hai modificata, viene pubblicata. E da quel giorno quell’amico ogni volta che deve pubblicare qualcosa, viene da te e ti chiede un parere, e come lui altri. A questo punto il passaggio a redattore editoriale, dice Keserü, è agevole.
A me questa testimonianza convince. Almeno un po’.
*
La casualità è forse una delle cose che maggiormente mi colpiscono nel fare l’ufficio stampa. Io, ad esempio, non so scrivere, e non ho mai scritto nulla, per il cinema né per la televisione; non ho mai lavorato in radio, non ho mai scritto testi che dovessero seguire, inseguire?, le immagini. Mai. E neanche mai ci avevo pensato. Capita così che un pomeriggio di dicembre, me lo ricordo che faceva freddo e nero, il mio capo mi chiama nell’ufficio. Arrivo e vedo che siamo io, lui e un’altra persona, che chiameremo per comodità, Luca (che potrebbe essere anche il suo nome vero, ma non lo sapremo mai, io lo chiamerò Luca e così sia).
Tempo di sedermi e il capo ordina tre caffè. (Quando ordina il caffè c’è sempre qualcosa che non va.) Poi dice così: “Ho pensato per il congresso di fare un video, che aprisse in maniera diversa la prima giornata di lavori, così da renderlo meno palloso (ora è da dire che 2 ore di relazione sullo stato dell’industria italiana, piemontese e torinese, sulle problematiche sociali, economiche, sociologiche dell’Italia, del Piemonte e di Torino possono essere deleterie per chiunque) e ho pensato a voi due…”
Arrivano i caffè, io lo bevo subito e lui continua: “So che Luca si diverte a fare le riprese e montaggi, e a te Demetrio piace scrivere. Vi do la possibilità di sbizzarrirvi…”
Il discorso fu più lungo, ma quello che dovete tenere a mente sono i termini diverte e piace: entrambi possono essere racchiusi nella parola diletto.
Io scrivo per diletto.
Luca per diletto riprende.
Siamo dilettanti, esseri ibridi: possediamo competenze certe, ma nello stesso tempo non le utilizziamo a fini di lucro o di guadagno, ma per diletto, per divertimento.
L’essere dilettante ha questo spessore di fondo, uno spessore assolutamente leggero: quello di non dover rendere conto di ciò che usi, di ciò che fai, ma solo del farlo in sé.
Io non credo di essere (nemmeno vorrei esserlo) uno scrittore di professione, perché questo mi priverebbe dell’unica vera luminosità che possiede lo scrivere: il divertimento di mettersi ad un tavolo di prendere, un quaderno o un computer e mettere giù un fatto una storia un accadimento, come se fosse una lettera che scrivi ad un amico, a cui voi raccontare un fatto.
Questa è la motivazione che anima la scrittura, si scrive per questo bisogno e non perché si è convinti che si possa cambiare il mondo, né si scrive, pensando di doverlo fare perché siamo stati irretiti in una malia del potere, che costringe a pigiare alcune lettere piuttosto che altre.
Questi sono discorsi e atteggiamenti da autori professionisti.
*
Io, che continuo a stupirmi delle mie idee semplici semplici, quasi vuote come le bucce di arancia che metto sul radiatori del termosifoni per profumare l’ambiente, credo che certe volte perdiamo di vista l’idea stessa che ci ha portato a scrivere. Cioè raccontare una storia, dirla precisamente così come è arrivata a te, così come l’hai vissuta e pensata, ma soprattutto scriverla perché l’idea di comunicarla ad altri ti diverte.
Divertire. Diverte. Divertere. Distogliere lo sguardo da.
Questa sequela mi fa venire in mente Primo Levi, che diceva di essere uno scrittore del sabato e della domenica. Uno scrittore da fine settimana, che dal lunedì al venerdì faceva un altro mestiere, ingegnere chimico in una ditta, e che tutti i giorni si sorbiva il traffico in via Cigna, una via, come dice lui, ‘frusta’ e incredibilmente trafficata (la sorte vuole che l’incrocio in cui si incontrano corso Regina Margherita e Corso Palestro, la cui prosecuzione è Via Cigna, si chiami Rondò della Forca. Chissà quante volte ci avrà pensato Levi all’ironia di questo inizio di percorso).
Poi il sabato, compatibilmente con i figli, la moglie, la passione della montagna, Levi si metteva alla sua scrivania e, circondato da diversi dizionari, incominciava a scrivere. Sabato e domenica.
L’immagine di Levi seduto alla scrivania, ne fa nascere altre: quella di Pannwitz, che siede dietro la sua scrivania formidabilmente complicata. Statuario e fermo, non guarda negli occhi il deportato Primo Levi, ma lo interroga ben sapendo che un suo no o un suo sì potranno significare morte o vita, salvezza o dannazione. Così Pannwitz è simile a Minosse, che sta “orribilmente e ringhia”. Lo stesso Levi narra la selezione per le camere a gas e, raccontando quei fatti, scrive “oggi questo vero oggi in cui io sto seduto a un tavolo e scrivo…”. Levi scrive, sta alla scrivania, quasi fosse un contrappasso.
La tregua, a detta dello stesso autore, è un libro ‘divertente’: uno sguardo che cerca, tenta di volgere gli occhi altrove rispetto al lager.
Levi, il dilettante scrittore da fine settimana, scrive una storia divertente, incastonata tra un incipit e un explicit funerei. Il primo capitolo, Campo grande, è forse uno degli ultimi grandi esempi di letteratura pestilenziale. Leggete quelle pagine, che descrivono un’umanità, un mondo che si sta disfacendo (la realtà è quella concentrazionaria, ma la scrittura di Levi la eleva a totalità, come se dopo i lager l’uomo non possa essere altro che un fantasma) e poi confrontatele con le pagine pestilenti di Tucidide, di Lucrezio, di Manzoni; o con quelle rovinose di Nord di Celine per capire di quale stoffa è questo scrittore dilettante da fine settimana.
Levi, però, sente il bisogno di divertire e quindi il resto di racconto è un romanzo d’avventura, picaresco e gigante, carnascialesco, pieno e brulicante di esseri umani, un romanzo formicaio, un romanzo termitaio, unico nella produzione leviana, ma che si chiude con quel sigillo nichilista, totale e assoluto, che non lascia molto spazio ad altro: nulla è vero all’infuori del lager.
Lo sguardo, insomma, si volge per un attimo - la vita è petrarchescamente breve sogno – per poi tornare alla verità finale.
*

Beh questo scrittore della domenica dilettante, che scriveva per divertire e per divertirsi, per volgere lo sguardo, ha dovuto, come ci racconta in un suo saggio Alberto Cavaglion, dimostrare di essere uno scrittore e ha dovuto scrivere racconti, poesie, saggi e quant’altro spinto dal desiderio di attestarsi, quasi che all’ambiente letterario italiano non bastassero testi come Se questo è un uomo e La tregua.
Questa miopia di clima culturale è forse sostanziale, anche per capire il dibattito lanciato su]Nazione Indiana. E proprio leggendo queste cose ho pensato a Levi: dove rientra in quel discorso uno scrittore come lui?
Non rientra. Non entra in quelle categorie, anzi. Ne è fuori proprio perché fa una scelta dilettante: e non è un caso che proprio i suoi libri migliori non siano quelli scritti per dimostrare di essere uno scrittore – in questo senso il romanzo Se non ora quando? è una narrazione debole, fatta quasi per assolvere ad un dovere del tipo: se sei uno scrittore, devi per forza scrivere un romanzo classico -, ma quelli per “volgere lo sguardo da” come, li metto in ordine di personale preferenza: I sommersi e i salvati, La Tregua, Se questo è un uomo.
Levi non è coinvolto nei dibattiti così vivi in quegli anni. Leggendo i suoi libri, le sue lettere non ci si imbatte mai nelle discussioni letterarie, che sono fiorite tra il ’60, ’70 e inizio ’80.
E come potrebbe? Lui è un chimico, uno scrittore della domenica, un dilettante di lusso. Mica le capisce queste cose: gli è capitato qualcosa di simile a quello che è capitato a Keserü.
Gli è successo di incappare nel bel mezzo di una lotta tra serpenti: e lì è rimasto.
L’unica cosa che poteva fare era scrivere. L’ha fatto.
Questo per dire che il dibattito su Nazione Indiana ha del pre-testuoso (per quanto io non possa dire molto, anzi, per quanto io non possa neanche ambire a dire qualcosa, per questa mia impressione minimale delle mie idee), quando indica nella scrittura un gesto che ha un carattere di resistenza ad una presunta restaurazione. E poi io mi chiedo chi sta compiendo questa presunta restaurazione? E cosa si restaura? Per restaurare bisogna prima aver abbattuto, e – scusate - cosa mai è stato abbattuto? A me non sembra che nulla di quello che c’era un tempo è stato buttato giù, mi pare, che tutto quello, presentato in fase di restauro, è sommessamente, sommariamente, totalmente presente.

La scrittura ha un senso, e per logica uno scrittore possiede un ruolo, se compie una scelta etica: la scrittura non si oppone, non si ribella, non vuole cambiare, ma una scrittura è tale se decide di avere a che fare con il vero.
*

In Liquidazione (i miei dieci lettori mi diranno, ma come è andata a finire la storia del video? beh questa è un’altra storia, che racconteremo poi) il romanzo Liquidazione viene scritto per essere bruciato, perché non poteva essere scritto. Era qualcosa che atteneva all'indicibile, era talmente vero, talmente reale, che pareva scialbo e scipito: una scrittura che ha che fare con il vero corre questo rischio quello di destinarsi al silenzio.
Scrivere un testo è liquidarlo, per poi liquidarsi.
Come è successo nell’aprile 1987 ad uno scrittore dilettante della domenica.

2.0 la libertà

Io non lavoro troppo. Nel senso che il lavoro che faccio mi lascia tempo di fare altro, in questo senso ci sono dei contratti a progetto – il mio è un orgoglioso e flessibile contratto a progetto, dopo essere stato un altrettanto orgoglioso co.co.co – che permettono di fare altro. A me interessa, ad esempio, fare altro. In questo caso (non voglio generalizzare, perché ci sono contratti di lavoro che definire capestro è offendere la gogna) il soggetto in questione, ovvero me medesimo, gode di una obiettiva libertà; credo che l’obiettiva libertà sia uno dei categorie fondamentali per poter essere uno scrittore dilettante. Al solito non è di questo che volevo parlare, ma di una cosa che mi è venuta in mente, quando giravo per la città cercando di fare il filmato. L’idea che avevo nella testa era: faccio parlare la città. La città ci parla.
E mi sono ricordato di uno scritto di Levi, un breve saggio, ne L’altrui mestiere, in cui lo scrittore raccontava come camminando e guardando i marciapiedi si scoprono tanti segreti di una città.
Io ho sempre avuto l’impressione che Torino parli una lingua difficile da districare: proprio come certi vecchi che ti raccontano una storia che fatichi a capire, perché è raccontata con parole che non si usano più, ma proprio perché così strane, extravaganti rispetto al nostro dire comune, alla fine ci colpiscono e ci affascinano.
Camminando per le vie di Torino e guardando non all’insù, ma all’ingiù, dice Levi (per Levi l’uso degli avverbi insù e ingiù è centrale: ingiù è l’uomo conficcato nell’inferno del lager, insù è il desiderio di uscirne), possiamo scoprire che alcuni marciapiedi sono feriti, bucherellati e colpiti da piccole pietre. Sono le schegge delle bombe, dice sempre Levi, che esplose in un punto si sono sperse in un raggio di chilometri.
Da quando ho letto questo racconto ho iniziato a guardare Torino, come una sopravvissuta, come una vecchia dalle rughe fonde che porta su di sé i segni di un oltraggio violento.
Una di queste schegge micidiali, di questi bolidi, è conficcata vicino a piazza Bodoni. A voler essere sinceri in quei dintorni le schegge sono due, ma una è viva. Vivissima.
*
Non so se avete presente la poesia di Primo Levi Il superstite, spero di sì, perché non è della poesia che voglio parlare. Anche se ci sarebbe da dire di quella chiusa disperata con il poeta che dice: “Non è colpa mia se vivo e respiro/ e mangi e bevo e dormo e vesto panni”, che rimanda a Inf. XXIII, 141: “e mangia e bee e dorme e veste panni”. Che uno dirà: embè, è una citazione da Dante, dove è la novità né sono pieni di Cantos di Pound, o ne troviamo a bizzeffe in The waste land di Eliot. Certo, ma che citazione, che contesto. Seguite un attimo: Levi con i suoi versi vuole discolparsi per essere sopravvissuto (il male di sopravvivere), ma per farlo usa un endecasillabo di Dante che si riferisce all’anima di un dannato, che è già nel più profondo inferno, mentre il suo corpo è ancora in vita: Levi si paragona ad un fantoccio senza vita, e discolpandosi si accusa; se questa non è grandissima arte, comunque, voglio parlare della dedica, che di per sé è semplice, due iniziali: a B.V.
Infatti se andate vicino a p.zza Bodoni c’è un campanello con queste due iniziali. Suonate e vi trovate davanti B.V. al secolo Bruno Vasari, grande amico di Levi, partigiano, deportato a Mauthausen, autore del libro, il primo che narrava dei campi di concentramento, Mauthausen Bivacco della morte (1945), presidente dell’Aned, vice direttore della RAI negli 50 e 60, uomo di punta del Partito d’Azione, triestino di nascita, ma adottato da Torino.
E’ un uomo grande e immane: grande di corporatura, anche se adesso è un po’ curvo, squisito nei modi e soprattutto immane nella voglia di portare testimonianza. La mia obiettiva libertà mi ha portato ad aiutarlo, in questi ultimi anni, in questa sua opera/missione.
Siamo diventati amici e così una volta gli ho chiesto come si sentiva ad essere il dedicatario di una delle poesie più belle della letteratura italiana (è questa una mia personalissima convinzione). Lui sorrise, mentre accarezzava il suo gatto, complice di tutte le nostre attività editoriali.
“Un giorno parlavo con Primo e lui mi diceva di questo suo sentimento difficile da spiegare, ovvero di sentirsi usurpatore della vita altrui”
“…”
"Insomma la poesia di Levi è nata quel giorno e siccome ne aveva parlato con me, Primo fece il gesto affettuoso di dedicarmela. Quello che ha scritto Levi è un sentimento doloroso che ogni deportato sente proprio: ti ricordi Calore no?"
"Certo, come no..."
*
E come non potevo ricordarmi Bepi Calore, che ho incontrato a Milano in un maggio caldo. Stavo curando un suo libro-intervista, quando Bruno mi disse che secondo lui bisognava fargli ancora qualche domanda. E allora mi ero messo in viaggio ed ero finito a casa sua. Una casa bellissima e luminosa. Lui mi accoglie con gentilezza: ha una pelle limpida, quasi senza rughe, gli occhi azzurri e umidi, e la sua magrezza è appena coperta dalla camicia e da un paio di pantaloni di taglio classico. Abbiamo parlato per ore. Finita l’intervista, Bepi mi ha accompagnato alla porta e mi ha abbracciato, poi le sue mani hanno stretto i miei polsi, e fissandomi negli occhi mi ha detto:
“Io mi sono chiesto mille volte perché sono vivo. Già quando ero a Mauthausen, e i miei compagni mi confidavano le loro ultime volontà, perché dicevano che io sarei tornato e loro no, io mi mi chiedevo perché mi sarei dovuto salvare io e non loro. Perché? Mille volte me lo domando: perché io vivo e loro sono morti? Perché? Perché?”
Io non gli risposi. E uscito nell’afa milanese, mi sembrò di respirare.
*
E’ un sentimento, quell’assenza di respiro e di parola, che ti prende ogni volta che incontri un testimone, come se ti levasse l’aria dai polmoni. E’ quel sentimento strano, quell’angoscia spossante che c’è in tutti i testi di letteratura concentrazionaria. E’ questa un’inquietudine maledettamente presente, sempre attuale.
E’, uso una definizione cara ad Agamben, la vergogna dell’esistere, anzi la vergogna dell’esserci ancora. Ecco perché quando sento parlare di memoria pacificata, provo ribrezzo.
Sì ribrezzo e odio.
Avete mai parlato con un deportato? Non letto, sulle pagine, ma parlato faccia a faccia, la tua faccia davanti alla sua, con lui che ti guarda negli occhi, che muove le mani, e si aggiusta i capelli?
Insomma se lo farete, ecco lui vi sembrerà vivo in tutto per tutto, ma che con le sue parole dirà il contrario, ovvero che stai parlando con un fantasma, con un morto, che gode di una breve vancanza, perché la morte ha lasciato – per motivi imperscrutabili – il lavoro a metà. Un uomo consapevole che nessun lavoro viene lasciato incompiuto.
Sentire i discorsi di questi uomini è sentire un campionario di male, da riempirti per sempre; ogni incontro è colmare la misura, ogni volta è un sentirsi afflitti con loro, con loro subire quelle angherie.
Noi, mi diceva Bruno un giorno, in cui ero particolarmente turbato, dobbiamo farlo, dobbiamo per forza parlare: è un fatto di egoismo, o di sopravvivenza, e di storia. Io non posso portare per tutta la vita quei ricordi, o meglio li posso portare, ma devo condividerli con qualcuno. Ecco perché racconto, so che raccontando infliggo i miei dolori ad un altro, è una sospensione di pena breve, leggera, volatile, ma c’è. Io ad esempio infliggo a te i miei dolori, le cose che ho subito a Mauthausen. Io so che tu potrai mai capire fino in fondo cosa significhi, e nello stesso tempo non è vero che io mi liberi della mia angoscia. Per un secondo, però, tu senti, profondamente, quasi per osmosi il mio dolore, il mio strazio.
E questa comunanza ci porta a voler ricordare, a farne memoria e storia.
Ecco perché odio.
Io so che bisogna studiare, ricostruire obiettivamente i fatti, non essere mai falsificatori, ma detto questo io non penserò che ci possano essere delle motivazioni ragionevoli per pacificare la memoria.
La memoria pacificata è una memoria depotenziata: finisce per appiattire, per rendere tutto uguale.
Chi vuole poi lo faccia.
Io per me preferisco conservare il ricordo di queste vite, e delle milioni di vite che hanno incenerito i cieli e la terra di mezz’Europa.
Io lascio a voi la pace.
Io mi tengo il ricordo e l’odio.

3.0 qualcosa come il veleno

Prima di fare l’ufficio stampa, per alcuni anni ho fatto il giornalista, ed era proprio quello che volevo fare: non sono mai stato di quelli che fanno i giornalisti perché vogliono fare gli scrittori o di quelli che vanno in una redazione e chiedono di scrivere solo di libri e di cultura. Io volevo proprio fare il giornalista; certo la scrittura m’interessava, ma mi ero messo in testa di essere un poeta di pochissimi e sublimi versi, e mai avrei pensato di trovarmi a scrivere]un romanzo o di]dibatterne.
Così quando sono entrato nella piccola redazione del Corriere d’Asti e ho visto il faccia barbuta e grassa di Franco Ventura (la persona a cui tra l’altro è Il pasto grigio è dedicato) mi sono detto che forse avevo fatto la cosa giusta. Tu che voi fare?, mi disse, mica sei uno di quelli che vuole fare lo spettacolo, il teatro e queste cosette da donne. Franco era misogino, non lo nascondeva, come non nascondeva la sua stazza un metro e sessantacinque per cento e pussa chili.
No, io risposi, non mi interessa fare quello, vorrei fare il giornalista. Lui sorrise e proprio il suo sorridere era qualcosa di incredibile, perché gli si smuoveva tutta la pancia; sembrava un terremoto e da subito mi venne prepotente alla testa un’immagine, che sempre mi accompagna pensando a Franco, ovvero quella di un elefante con i piedi di una ballerina. Lui aveva i piedi piccolissimi, portava il 36, e questa sproporzione era qualcosa di affascinante.
Comunque, gli dissi solo che volevo fare il giornalista e lui allora mi disse: va bene farai la nera e la giudiziaria. Asti, dove allora lavoravo e vivevo, era una piccola città e tutto sommato si poteva fare il cronista sia di nera che di giudiziaria. Avrei iniziato dopo capodanno, mi ricordo che quando ci incontrammo in redazione era appena passato Santo Stefano (e a ben pensare questa ricorrenza spiega anche bene il perché di questa cosa che sto scrivendo). Così dopo capodanno, forse il 3 o il 4, ora non ricordo, ho preso la mia panda bianca, il mio taccuino (in realtà un quaderno) e sono andato in redazione.
Ora la redazione di un piccolo giornale, di una piccola provincia, ha più la foggia di una casa male arredata: un’entrata, una batteria di computer nel salone centrale, una stanza per i grafici, e la stanza del direttore. Punto.
Entro e dico a Franco: eccomi. Bene, mi dice, ora che ci sei vai con lui, e mi indica un altro tizio, all’ospedale. Due giorni fa c’è stato un tremendo incidente 3 giovani morti, oggi i corpi sono all’obitorio dell’ospedale, ci saranno i parenti; tu vai lì e li intervisti. E poi aggiunse: quaranta, massimo cinquanta righe.
Non credevo neppure io di essere in grado di fare quello che mi veniva chiesto e invece, quando parcheggiai la macchina nella piazza e mi diressi verso l’obitorio, tutto venne naturale: le domande, le titubanze delle persone, le ciniche bugie del tipo “so e capisco il suo dolore, signora; so cosa vuol dire perdere un figlio in una situazione del genere, ma è per questo che lei deve raccontare, così che ad altri non accada”, misere captatio benevolentiae per avere materiale per scrivere quelle 50 righe richieste, e poi sentire le persone parlare e già pensare a che taglio dare, quale incipit usare e la chiusa, tutto mentre loro parlavano e tu le ascoltavi.
E’ sinceramente difficile spiegare cosa sia la cronaca nera, cosa sia avere a che fare con morti violente, che non sono solo gli omicidi, ma anche incidenti stradali, suicidi, incidenti sul lavoro etc etc. Una vicinanza piuttosto complessa che ti fa pensare, ti convince proprio, che l’unica morte vera sia quella che avviene per qualcosa di brutale, e che morire nel proprio letto per vecchiaia sia un po’ meno morte.
Certo, ti dici, è un cessare alla vita, ma non ha niente a che fare con il morire.
*
Non è per niente, questo che state leggendo, un discorso estetico sulla morte. Non c’è proprio niente di profondamente poetico nel corpo morto di morte violenta, sia esso colpito da un’arma da fuoco, o investito da una macchina o schiacciato da una paratia di cemento armato.
Eppure l’altro giorno, era Santo Stefano, stavo seduto nel taxi che mi riportava a casa mia, dopo i festeggiamenti natalizi a casa dei miei. Ero silenzioso e guardavo la città nera nera appena toccata da leggere spruzzate di ghiaccio che qualcuno maldestro scambiava per fiocchi di neve.
Dove?, mi aveva detto l’autista, e io avevo recitato a memoria la via, spiegando che era meglio passare da c.so Orbassano e lui mi aveva detto che si era meglio e che conosceva la strada perché lì ci abitava la sua ex moglie. Sa mi ha lasciato, disse, due anni orsono, non è facile con uno che fa il nostro lavoro. Io avevo annuito e avevo pensato che tutti dicono così, cioè tutti danno la colpa del loro fallimento matrimoniale al lavoro; e non importa quale lavoro fai: ci siamo lasciati, sa faccio il tassista, il giornalista, lo scrittore, l’operaio, l’agente immobiliare, l’art director, l’architetto…
Io, per non sapere cosa dire, dissi semplicemente: già. E fu il segnale che non avevo voglia di parlare, ma di arrivare a casa al più presto possibile.
Così mentre si correva verso casa, ad un tratto come una illuminazione, che arriva da qualche profondità inaspettata eppure vera, mi sono detto nella testa, ma chiara come una voce udita nitidamente in una piazza che dice il tuo nome, ecco mi sono detto: mi manca un omicidio.
Mi manca un omicidio può suonare tremendo, ma arrivare sul luogo di un delitto è qualcosa che non dimentichi e ti lascia un’impressione profonda. Sì, certo c’è la compassione per il morto, c’è una sorta di adrenalina dovuta al tutta la messa in scena , che è un po’ meno scenografica di quella che si vede nei film, ma rende l’idea; tutte queste cose ci sono ed entrano in gioco quando arrivi, ma c’è qualcosa di più oscuro nel visitare la scena di una morte violenta, che ti attrae e ti eccita. Qualche cosa che ha che fare con due tensioni diverse che convivono, da una parte senti nella schiena come uno scatto felino di animalità, gli occhi, il naso e le orecchie si dilatano, si aguzzano i sensi: senti più nitidi i rumori, gli odori arrivano prima, e noti particolari minimi. Dall’altra parte provi un senso di sgomento e capisci che questa paura, questo orrore e desiderio, erano gli stessi che sentivano coloro che nell’antichità assistevano ai sacrifici umani.
Mentre pensavo a queste cose, il tassista mi disse: siamo arrivati, fanno 10 euro e 20. Ecco, risposi, tenga il resto, sporgendogli 11 euro. Ma questo, riprese lui, è il condominio dove l’anno scorso uccisero quel marocchino, vero? Si, non potevo mica mentire, è stato qui.
E io mi ricordo ancora quel giorno, anzi quella notte, le urla animali e non umane che hanno svegliato tutti, urla come di uomo che viene pugnalato e poi sgozzato, nella migliore tradizione dei regolamenti di conti tra trafficanti di droga, che ha sempre stranamente dei precisi rituali; e il nostro scendere all’arrivo della polizia e gli interrogatori di ognuno di noi. Quella volta mi resi conto che avevo perduto quella sensazione che sempre mi aveva accompagnato nei miei servizi; ero come infastidito da tutto questo e provai pure scriverci qualcosa, ma ne uscì]una poesia e l’ipotesi di un racconto “voci di condominio” che come vedete giace abbandonato.
Non ero più abituato a quello che significa trovarsi in un luogo di morte violenta, e in quel frangente il mio linguaggio o la mia percezione ne uscirono impoveriti.
Non ho sentito, però, in quel caso, nessuna nostalgia, perché era ancora forte in me il desiderio di allontanarmi da tutto quello, un fastidio che mi ha portato a cambiare prima settore per occuparmi di politica e di sindacato; un disagio che alla fine mi ha portato a scegliere di fare l’ufficio stampa e di mollare in giornalismo.
Ma l’altro giorno nel taxi, qualcosa mi ha rivisitato, una primordiale mancanza, quella di tornare a raccontare quello strano e turbante sentimento che ti incantesima, quando hai a che fare con la morte violenta.
Qualcosa come un veleno, che pur sopito rimane nelle vene ad intossicarti.

And I choose us...

Questa è la battuta finale di THE FAMILY MAN, il bel film natalizio con Nicholas Cage che altro non è che una rivisitazione del vecchissimo LA VITA E' MERAVIGLIOSA. Le storie di Natale mi sono sempre piaciute, sin dove arriva a scavare la talpa dei ricordi mi vedo bimbo panciuto a far presepi con mio padre, perché mia madre non si è mai accontentata di un solo presepe, no, troppo banale... dato che casa mia si espande su tre piani con cinque stanze per piano, ne facevamo almeno quattro, quello monumentale stava nella fioriera del salotto, uno mignon stava nella cucina (un presepe che mia madre aveva vinto ad una pesca di beneficenza quando  ancora era una picciridda coi boccoli nerissimi), uno nella mia stanza (avevo investito così i soldi che la mia madrina di battesimo m'aveva regalato per la mia prima Comunione) e uno nella stanza dei miei.



Quello monumentale era un'utopia fattasi sughero e colla e carta e tanto, tantissimo nastro da imballaggio, quello marrone che se non tratti bene finisce per appiccicarsi dovunque tranne nelle due metà che dovrebbe sposare, mio padre è stato sempre megalomane, una volta ne abbiamo fatto uno che era una torre di babele di cassette di frutta, quelle di legno in cui si mettono a maturare le arance. pareva quei paesini abbarbicati su un monte, con tutte le case e la vecchina che filava, l'uomo delle castagne, il macellaio, l'addumisciutu e perfino il pastorello col culo all'aria e con un pezzo di cacca che gli usciva dal deretano (quello mia madre lo ammucciava sempre e io dovevo rimetterlo nella zona più illuminata per rendere la scena più reale. Su quel presepe suonava le sue nenie stonate il Signor Di Nardo, un pecoraro che dopo che un trattore se l'era preso di petto aveva fatto voto di suonare a Bagheria sino alla fine dei suoi giorni la sua ciaramella, la sua zampogna. Il signor Di Nardo sapeva di cacio e di vino e la sua ciaramella era una pecora scuoiata che prima di suonare doveva gonfiare per bene e poi partivano le prime stonature, tutte a lode e gloria della Vergine Benedetta.



Quello che preferivo restava quello della cucina, un presepe-carillon piccolo e essenziale. Ma la megalomania paterna non risparmiò neanche il girotondo dei pastori attorno alla grotta dell'Evento. Mio padre gli appiccicò negli spazi vuoti quei pastorelli mignon che servono per rispettare le leggi immutabili della prospettiva. Girò per anni il disco di compensato attorno alla grotta sino a quando l'ennesimo giro di chiavetta gli fu letale.



E poi c'era l'Opera Incompiuta, qua servirebbe una microparentesi sulle Grandi Incompiute di Giovanni Pintacuda ma questa è un'altra storia e magari un giorno ve la racconterò. L'Opera Incompiuta è un presepe di compensato che le cronache dicono iniziò ad essere traforato nel 1972, qualcosa come 33 anni fa, guarda caso l'età del Redentore. Mio padre traforava in attesa dell'arrivo della prole, poi arrivò mia sorella e il presepe sembrava già finito ma il risultato non letificava mio padre che è sempre stato un cagacazzi tale e quale a me.

Mai soddisfatti delle nostre fatiche, io e mio padre potremmo lavorare di lima all'infinito. A me capita soprattutto quando i miei sforzi cozzano col fallimento del dialogo, soprattutto quello con mio padre, com'è giusto che sia nella dialettica intergenerazionale condita dai quarant'anni che ci separano. Lui invece inizia duemila progetti lasciandoli sempre in uno stato di imperitura perfettibilità, non me l'ha mai detto, ma credo che, se fosse possibile, riproverebbe pure a rifarmi ex novo, con più accortezza, scozzando dal mio DNA tutti i tratti che ci rendono quelli che siamo.



Il presepe doveva essere un lavoro di fine, trenta pastorelli e una capanna, niente di che, ma il progetto iniziale prevedeva di traforare il legno ogni oltre umano limite, levare tutto per lasciare praticamente quattro linee stilizzate. Mio padre pensò di usare il pirografo, oggetto che nella mia testa doveva costare come minimo mezzo milione visto che mio padre non l'ha mai voluto acquistare e sopperiva a quella mancanza riscaldando gli spiedini di ferro in cui mia madre infilza i suoi mitici involtini alla siciliana sino a che diventavano roventi, rossi come le fiamme dell'inferno. E poi li passava sul compensato. Poi venne a trovarci un'amica di famiglia, nella fattispecie la Professoressa che mi donò la parola DICOTOMIA. Iniziò a guardare con concupiscenza il presepe che nel novantadue era quasi finito, mio padre non ci pensò due volte, prese il suo ego ipertrofico e la sua sete di elogi e donò alla professoressa il presepe, finendolo in meno di due settimane. A noi disse che l'avrebbe rifatto meglio, con del compensato di faggio.



Ma l'estro artistico di mio padre si manifestò nella forma dei mitici uniposca, i pennarelloni dell'Osama che si dovevano sguazzariare per bene prima di essere utilizzati. Mio padre prese le sagome del presepe e li colorò con pallini verdi e blu, rossi e gialli. Un abominio.

E per di più chiese a me, sangue del suo sangue, cosa ne pensavo. Preferii tacere. Poi gli anni passarono, il presepe s'era arenato di nuovo, come ogni anno. Sino a quando andai a comprare alla Feltrinelli le poesie di Paul Celan per iniziare a scrivere la tesi. Sulla strada c'era una ferramenta, mio padre vide in vetrina il suo oggetto totemico, quel pirografo che avrebbe comprato un giorno se avesse mai azzeccato il terno giusto sulla ruota di Palermo. Lo vidi anch'io, capita sempre così, quando i genitori imbiancano ritornano più bambini di prima, mio padre aveva la stessa faccia che avevo io quando scartai il regalo del mio sesto compleanno, il bellissimo castello di Greyskull, il rifugio della maga che aveva donato a He-Man i poteri.

MI squagliò qualcosa dentro, presi dodici euro e entrai.

Uscii e glielo diedi, lui mi guardò strano, iniziò la sua filippica fatta di "non dovevi disturbarti", "perché non li spendevi per cose più utili..." e altre frasi da genitori.

Ero fiero di me. Ma ancora il presepe aspetta d'essere concluso. Com'è giusto che sia. Non lo so, forse è che a sessantatre anni se ne sono andati dalla vita e dal mondo tutti i miei nonni, e 63 anni sono gli anni che mio padre ha nelle sue rughe da apache. Forse pensa che non muore mai chi ha ancora qualcosa da finire. Forse è come succede a me con i miei racconti, sempre perfettibili, future riscritture di pagine già pensate milioni di volte, storie che ci spuntano nel cuore e che devono macerare nell'esperienza quotidiana prima di transustanziarsi.
Ora ha promesso che ne farà un altro per Maria, la donna che amo, per lei e per la sua famiglia. Che ha una parte importante anche in questa digressione natalizia.

E' il secondo anno che i presepi in casa Pintacuda sono solo tre. il mio dorme nella scatola delle mie vecchie Nike, nell'armadio a muro del corridoio. Dorme lì, aspetta invano. Ma quest'anno il presepe l'ho fatto pure io. Anzi l'abbiamo fatto noi, io e Maria. Nella cucina di casa sua. Con sua madre sullo sfondo che ci guardava beata sistemare le montagne e il cielo di carta velina. Tutto ha un senso, mi sono detto quando abbiamo finito. Perché il presepe che abbiamo fatto in cucina è uguale a quello che io e mio padre abbiamo fatto in un Natale di una dozzina d'anni fa. Uno dei più belli, che ha deciso di viaggiare incastrato nella mia memoria e nelle mie mani sino a manifestarsi per me e Maria.

Anche il presepe ha scelto noi.

demetrio paolin. il tempo del lavoro materiale

carissimi vi posto qui un po' di pagine che ho scritto in questi mesi che hanno a che fare con il mio lavoro e con la scrittura. Non vogliono essere ne un saggio, né un racconto, né una memoria, né un trattato, ma una qualche via di mezzo. eccolo i seguito (lo so che è piuttosto lunghino..)

d.

0.0 INTRO

La pizzeria al taglio dove vado spesso in pausa pranzo è quasi dietro il mio ufficio. Esci, chiudi la porta, scendi le scale, fai una decina di metri, imbocchi una via laterale minuscola e buia, e te la trovi davanti. Focaccia di Recco: l’insegna è verde, mentre la scritta è gialloro. Qui fanno in assoluto, se escludiamo la cittadina ligure omonima, la focaccia di Recco migliore dell’Italia. Ma non è di questo che volevo parlavi, comunque mentre mangiavo, un uomo e una donna sono venuti a sedersi lì accanto. Dovete sapere che questa focacceria è minuscola, ci saranno, se la memoria non falla, 10 (massì dieci, tanto chi tra i miei 13 lettori andrà mai a controllare) sgabelli. Insomma si sono messi nell’angolo, vicino a me, a discutere.
“E tre…” fa il primo vestito come un assicuratore.
“Tre? Cosa?” disse lei, il cui abito tradiva la medesima origine.
“Tre nel senso che è morto pure Ranieri…”
“…”
“E così con la Schiavo, il Papa e il Ranieri abbiamo fatto…”
“Tris!” ha fatto lei, succhiando via un fungo porcino – consiglio se non c’è la focaccia di recco, prendete quella con i funghi procini – che le stava per cadere.
“Finalmente …”
“…”
“…potremo riavere i telegiornali di prima, senza contare che non ho visto il gran premio”
Duante questa conversazione luminosa, mi chiama un amico al telefonino
Hai visto chi è morto...
Chi? Ranieri?
No, cioè sì anche lui, ma è morto Bellow
Dai.
Massì
L’autore di Herzog?
L’hai letto?
Una volta
Ma è bellissimo
E infatti l’ho letto una volta, constatato che è bellissimo sono passato ad altri libri
Bellissimi?
Un po’ di tutti i tipi…
Comunque è morto.
E' più forte di me, e quindi mi giro verso l’assicuratore e la sua accompagnatrice, mettendo su la faccia gentile, da ragazzo che ha studiato, timido e impacciato. Mi vedono.
Lei fa: “Scusi…”
Volevo dire che è morto Saul Bellow
“Ah”
Ve l'ho detto perché pensavo che quando ero piccolo preferivo giocare a Forza Quattro.
L’uomo ha fatto un gesto che non è proprio riproducibile, perché la voce si era fatta precisa precisa ad un grugnito. Il mio amico, intanto, era ancora in linea. Ho messo giù, ne arriva subito un’altra. Mia madre.
Ti devo raccontare una cosa
Dimmi…
Allora è venuto uno per affittare la casa. E’ un marocchino. Mi chiama la mattina e mi dice che sarebbe interessato a vedere la casa. E io gli rispondo che va bene che venga nel pomeriggio. Questo succedeva l’altro ieri. Ieri è venuto: lui si chiama Kaleb, ed è venuto con un amico, ma il nome non me lo ricordo. Abbiamo visto la casa e Kaleb mi ha detto: bella, va bene. Io gli ho detto, ma con chi ci vieni a vivere?, e lui mi ha detto: con mia moglie, non abbiamo figli. Io gli ho risposto, perché mi sembrava giusto dirgli così, ma se tua moglie neppure l’ha vista. In fin dei conti è lei che ci deve passare la maggior parte del tempo. Ho fatto bene o no?…
Hai fatto benissimo.
Ma senti è mica finita. Quando ho detto così, l’amico di Kaleb mi ha detto che se la casa piace al marito, piace sicuramente anche alla moglie. E Kaleb faceva su e giù con la testa, come per dire, che l’amico aveva pienamente ragione. Allora se ne vanno e mi dicono che mi avrebbero chiamato. Questa mattina mi chiama Kaleb e mi dice che voleva venire a vedere la casa, perché ne ha parlato con sua moglie e sua moglie vuole vederla, se no non se ne fa niente. Allora io gli dico ma scusa, tu non eri quello che se la casa piace al marito piace anche alla moglie. Allora Kaleb ha detto: il Corano è una legge scritta per il cielo, sulla terra bisogna arrangiarsi. Hai capito?
Sì.
Ecco no volevo dirtelo.
Bene.
Non stavi mica mangiando?
Qualcosa ma non c’è problema.
(Questa di solito è la mia pausa pranzo.)
Mentre torno in ufficio, aspettando sognando e già assaporando il caffè, il cellulare mi suona nuovamente.
Ciao
Ciao
Volevo ancora chiederti una cosa, visto che prima mi ha buttato giù
Ah
Che non stai più aggiornando il blog
Lo so..
Come mai…
Boh
Non hai idee, non stai scrivendo?
No. Sto scrivendo, scrivo scrivo tantissimo
E cosa stai scrivendo?
Pensa che ho scritto solo oggi un testo di 9 mila battute, poi un altro di 3mila. In due orette.
E non le pubblichi?
Sono cose di lavoro
Ah
Perché dici “Ah”?
Perché quelle cose non le puoi pubblicare, sono pallose.
Eppure mi domando come mai quando mi metto a scrivere "quelle cose", di cui sinceramente, a me per primo, non me ne fotte un cazzo, le parole mi vengono fluide, si mettono in ordine da sole, come se sapessero come devono disporsi. Certe volte mi colpisce questa loro pre-disporsi. Ecco…
Cosa?
E’ una questione di disposizione: le parole si dispongono come è giusto: si mettono in certo ordine che l'unico e solo.E’ un’esperienza strana. Io frequento (potremmo dire che sono un abitudinario?) questo tipo di scrittura impiegatizia, più di quanto non faccia con quella, tra virgolette, creativa, ma non ci ho mai riflettuto come si conviene. Forse dovrei...
Dici? Secondo me è una cosa pallosa, a chi vuoi che freghi di sapere cosa è scrivere un comunicato stampa
Io non voglio dire cosa è la scrittura di un comunicato stampa, ma come è un’esperienza di lavoro, soprattutto quando entra in gioco lo scrivere.
Fregherà a qualcuno?
No. Non lo so. Però è vero quando tu dici sul mancato aggiornamento del blog. Ti devo confessare che, in questi giorni, ho provato alcune volte a scrivere qualcosa sul Papa e su Terry Schiavo: questo mi avrebbe reso decisamente alla moda; le mie idee, però, erano troppo semplici e brevi. Ti capita mai di avere idee brevi?
In che senso?
Nel senso che pensando al Papa mi dicevo: l’unica cosa che dobbiamo ad un morto è seppellirlo in pace. Mentre pensando alla Schiavo mi dicevo: è possibile considerare essere umano una persona attaccata ad una macchina? E se la risposta è affermativa: mi si spiega, perché per farla morire basta staccare una spina come nel più frusto degli elettrodomestici? Io pensavo queste cose qui, e vedevo le mie idee come pensate semplici semplici e soprattutto di poco conto. Mentre avrei tanto da dire su quello che sto scrivendo adesso per il mio lavoro.
Dici?
Stiamo organizzando un congresso e io credo che possa essere interessante dare uno sguardo dal didentro. Capisci?
Mah
E’ questo che devi capire, che io per lavoro scrivo delle cose teniche, scrivo delle cose che hanno a che fare con un mondo, che si interroga se per commemorare il Papa sia meglio fare una semplice ‘fermata’ o una ‘battuta’ di sciopero: che suonano come la medesima cosa, ma non lo sono per nulla.
E come farai?
Adesso sono in ufficio, mi metto alla scrivania e scrivo l’introduzione…
C’hai trovato un titolo?
Lo pensavo mentre salivo le scale, che ne dici de Il tempo del lavoro materiale
Bel titolo...
Bene, vado ad iniziare.

0.1 ancora intro (il committente)

Capita lunedì di leggere una mail di un lettore, maschio adulto, che mi chiede di scrivere una cosa sulla tenerezza e l’onnipotenza. La lettera, che non riporto, mi chiedeva di scrivere su questo tema. Quelle parole mi hanno colpito, perché in un certo senso mi commissionavano un lavoro, una scrittura e un articolo. Questo significa che per alcuni dei lettori io sono in possesso di una voce e un tono, che rende familiari determinati argomenti e non altri. Ciò che produco ha creato una certa aspettativa, che è una sensazione oscura quanto luminosa di chi apre queste pagine, cercando una determinata tonalità. La commissione di un lavoro è, come in questo caso, un’apertura di credito, compie un atto di fede in me e negli strumenti che posseggo nello scrivere una certa cosa. I pensieri che sono passati in testa al mio amico in mail tutto questo marchingegno in cui si legano fiducia, ascolto, stupore) non sono molto diversi da quelli che hanno spinto il mio capo a diventare mio committente. Dopo una serie di colloqui, e dopo aver letto i miei articoli su alcuni giornali torinesi, lui ha deciso che quel tipo di scrittura, di professionalità e di competenza poteva andare bene per la cura dei rapporti tra la stampa e la sua organizzazione.
Lui non solo mi ha dato credito, ma mi fa credito, pagando il 27 del mese il mio stipendio. Quella che si produce, quindi, è una scrittura sotto padrone.
Non voglio dare a questo termine niente di negativo, ma chiarire come molte volte le cose che scriviamo rispondano in maniera più o meno coscia ad una serie di richieste, che i lettori ci fanno. E questo fatto cambia quello che noi andiamo facendo con la nostra scrittura? Sì e no. L’accorgersi di un pubblico è la presa d’atto di una certa responsabilità: Primo Levi, ne La ricerca delle Radici, sostiene parlando del Parini che un autore deve essere responsabile delle parole che scrive. La percezione di un lettore, che non è neutro, ma bensì un committente ovvero uno che ci dà credito, quindi ci porta ad avere una sorta di atteggiamento nuovo verso le cose, che scriviamo, ma nello stesso tempo sancisce la libertà di poterci esprimere come sempre abbiamo fatto, perché – alla fine – è questo ciò che desidera il committente.
*
Cosa avrei dovuto scrivere all’amico della lettera? Perché la sua richiesta non era poi così diversa dal post che avrei voluto pubblicare lunedì. La sua lettera invece mi ha convinto a soprassedere. Gli potrei ora, se vuole, se ancora quella sua urgenza lo richiede, raccontare questo aneddoto.
Mercoledì sera ero a casa dai miei, e in quel momento chiama un cugino, uno dei tanti. Risponde mia madre e sento che dice: Sei a Roma? C’è tanta gente. L’hai visto? Sì. Ma dai. Veramente. Mio cugino, che entra in chiesa giusto perché ci sono i temporali, è andato a Roma; ne sono incuriosito, chiedo a mamma di passarmi il cugino, che mi chiede come sto come va il lavoro la vita in genere (è una telefonata solita, che ho pensato bene di risparmiare al mio lettore committente), ma alla fine gli chiedo: Ma tu cosa hai visto? Lui mi dice sorridendo: le suole delle scarpe, è che non riesci a vedere molto di più. Solo le suole delle scarpe. Tempo di accorgerti dove sei e devi spostarti.
Ora questa cosa mi ha fatto ridere, e ridevo mentre abbiamo chiuso la telefonata. Ripensandoci, quelle scarpe così pulite, così ordinate e lucide, quella suola vergine, che non aveva mai toccato terra o nient’altro mi avevano disturbato, domenica pomeriggio, quando il corpo del Papa era stato esposto. Mi avevano colpito perché era l’unica cosa di lui visibile e l’unica cosa che stonava (so che Zucconi ha scritto un articolo su questo tema, dovrebbe essere Repubblica di lunedì, ma il bello della commissione e della scrittura su commissione è poter reiterare un tema in tutte le sue varianti), perché di colpo quelle scarpe riportavano il Papa ad una dimensione scarsamente sacrale. Mi sono ritrovato a pensare che una cosa del genere la poteva giusto immaginarla mia nonna, che per il suo funerale aveva preparato tutto comprese le scarpe (che erano nere, con un po' di tacco, e una piccola fibia civettuola; per non parlare della foto, che lei aveva voluto per la tomba. Aveva scelto una foto di lei giovane e bella, mia nonna era stata vanitosa fino all'ultimo respiro). Mi sono immaginato il Papa fare la stessa cosa: farsi fare un paio di scarpe nuove e linde e metterle via nel giorno del Nunc dimittis.
Inutile dire che queste scarpe stonino con il resto. Troppo nuove e mai calzate, sembrano di cera o di plastica tanto sono luminose: sono loro a imporsi alla tua memoria più di quanto non lo faccia il corpo del Papa, che anzi è coperto e nascosto.
Inizialmente poi la televisione si era decisa per una ripresa frontale, ma poi proprio l’invadenza delle scarpe, li ha costretti a scegliere una visione laterale. Il regista aveva pensato una cosa del genere, forse inconsapevole, ma una cosa del genere: quando ci troviamo davanti ad un morto, la nostra prospettiva deve essere quella di Mantenga nel Cristo Morto. Frontale dai piedi verso il viso, sigillato nella smorfia - ci avete fatto caso? tutte le facce morte hanno la medesima espressione - della morte. Si desidera quella ripresa, quel tipo di visione e di visuale, ma le scarpe rendono tutto impossibile. Le prime immagini del Papa morto sono dei mocassini di pregevolissima fattura di un colore acceso e lucido e con una suola nera mai usata. Si rischia il ridicolo. Meglio spostare l’inquadratura, sul lato sinistro, dai piedi verso il viso. A ben vedere il regista poteva fare un’altra scelta, diversa: fare del Papa l'icona del Cristo nel sepolcro. Un’inquadratura laterale, piatta, parallela. Questa sarebbe stata la ripresa adatta, perché forniva un’evidenza. “Quel corpo, che stiamo vedendo, è morto”. Tutta la nostra fede sta nel fatto che noi crediamo che quel corpo, schiacciato in quella visione opprimente, svuotato di vita, come quello di chiunque altro, tornerà vivo.
Più passa il tempo e più mi convinco che la salvezza avrà ben poco a che fare con la tenerezza, la salvezza sarà un evento violento. E a pensarci bene non può che essere così. Se uno immagina una distesa di ossa morte e finite, quale tenerezza potrà farle rivivere? Nessuna. La resurrezione della carne sarà un atto violento, di colpo, come ridestati da una forza potente, saremmo nuovamente strappati dal nulla, e rimessi nelle nostre ossa. Guardo le scarpe del Papa e penso, è un lampo doloroso, che salvezza e violenza sono, anche se lontane su di un piano remotissimo, sinonimi. Rappresentano la stessa cosa.


1.0 Il dilettante o l'ibrido

Ho appena finito di leggere un libro essenziale di Imre Kertesz Liquidazione (Feltrinelli). Liquidazione, il libro, racconta la storia di un libro Liquidazione, che non è mai stato scritto. Di più si parla dell’impossibilità di scrivere un libro che ha per titolo Liquidazione. Ad essere sinceri il libro, Liquidazione, di cui si parla nel libro Liquidazione, c’è, ma per motivi, che non voglio stare qui a spiegare, il libro Liquidazione sancisce l’impossibilità di poterlo rendere pubblico, e quindi di pubblicare il libro Liquidazione.
Non è ovviamente questo che mi preme dire, cioè mi interessa, ma cerco di camminare di sbieco (questo fine settimana sono stato a casa dai miei, e mia madre mi ha detto che ho sempre questo vizio di camminare per sbieco, di traverso, di non riuscire ad andare diritto. Mia madre e mio padre hanno messo a nuovo la cucina, mi piace così come è adesso. Comunque ce l’hanno che non saluto nessuno quando cammino per strada) e di arrivare ad una qualche provvisoria conclusione.
Nel libro Liquidazione, che racconta come abbiamo cercato di dire l’impossibilità di scrivere un libro intitolato Liquidazione, c’è la figura di un redattore editoriale, che si porta dietro il nome Keserü (che vuol dire amaro).
Tra le miriadi di cose che Keserü dice, o che gli fa dire l’autore del libro – che si chiama B. – e che sta componendo il testo intitolato Liquidazione -, una in particolare attira la mia attenzione; Keserü parla di come è diventato redattore editoriale. Lui racconta più o meno così: succede che un giorno, camminando per l’università, un amico ti dà da leggere una cosa sua, una poesia, piuttosto che un racconto, e tu dopo che l’hai letta dici al tuo amico: io cambierei qui, metterei un altro aggettivo in questo distico, un’altra tonalità a questo verso. E così via. Succede che la poesia come tu l’hai modificata, viene pubblicata. E da quel giorno quell’amico ogni volta che deve pubblicare qualcosa, viene da te e ti chiede un parere, e come lui altri. A questo punto il passaggio a redattore editoriale, dice Keserü, è agevole.
A me questa testimonianza convince. Almeno un po’.
*
La casualità è forse una delle cose che maggiormente mi colpiscono nel fare l’ufficio stampa. Io, ad esempio, non so scrivere, e non ho mai scritto nulla, per il cinema né per la televisione; non ho mai lavorato in radio, non ho mai scritto testi che dovessero seguire, inseguire?, le immagini. Mai. E neanche mai ci avevo pensato. Capita così che un pomeriggio di dicembre, me lo ricordo che faceva freddo e nero, il mio capo mi chiama nell’ufficio. Arrivo e vedo che siamo io, lui e un’altra persona, che chiameremo per comodità, Luca (che potrebbe essere anche il suo nome vero, ma non lo sapremo mai, io lo chiamerò Luca e così sia).
Tempo di sedermi e il capo ordina tre caffè. (Quando ordina il caffè c’è sempre qualcosa che non va.) Poi dice così: “Ho pensato per il congresso di fare un video, che aprisse in maniera diversa la prima giornata di lavori, così da renderlo meno palloso (ora è da dire che 2 ore di relazione sullo stato dell’industria italiana, piemontese e torinese, sulle problematiche sociali, economiche, sociologiche dell’Italia, del Piemonte e di Torino possono essere deleterie per chiunque) e ho pensato a voi due…”
Arrivano i caffè, io lo bevo subito e lui continua: “So che Luca si diverte a fare le riprese e montaggi, e a te Demetrio piace scrivere. Vi do la possibilità di sbizzarrirvi…”
Il discorso fu più lungo, ma quello che dovete tenere a mente sono i termini diverte e piace: entrambi possono essere racchiusi nella parola diletto.
Io scrivo per diletto.
Luca per diletto riprende.
Siamo dilettanti, esseri ibridi: possediamo competenze certe, ma nello stesso tempo non le utilizziamo a fini di lucro o di guadagno, ma per diletto, per divertimento.
L’essere dilettante ha questo spessore di fondo, uno spessore assolutamente leggero: quello di non dover rendere conto di ciò che usi, di ciò che fai, ma solo del farlo in sé.
Io non credo di essere (nemmeno vorrei esserlo) uno scrittore di professione, perché questo mi priverebbe dell’unica vera luminosità che possiede lo scrivere: il divertimento di mettersi ad un tavolo di prendere, un quaderno o un computer e mettere giù un fatto una storia un accadimento, come se fosse una lettera che scrivi ad un amico, a cui voi raccontare un fatto.
Questa è la motivazione che anima la scrittura, si scrive per questo bisogno e non perché si è convinti che si possa cambiare il mondo, né si scrive, pensando di doverlo fare perché siamo stati irretiti in una malia del potere, che costringe a pigiare alcune lettere piuttosto che altre.
Questi sono discorsi e atteggiamenti da autori professionisti.
*
Io, che continuo a stupirmi delle mie idee semplici semplici, quasi vuote come le bucce di arancia che metto sul radiatori del termosifoni per profumare l’ambiente, credo che certe volte perdiamo di vista l’idea stessa che ci ha portato a scrivere. Cioè raccontare una storia, dirla precisamente così come è arrivata a te, così come l’hai vissuta e pensata, ma soprattutto scriverla perché l’idea di comunicarla ad altri ti diverte.
Divertire. Diverte. Divertere. Distogliere lo sguardo da.
Questa sequela mi fa venire in mente Primo Levi, che diceva di essere uno scrittore del sabato e della domenica. Uno scrittore da fine settimana, che dal lunedì al venerdì faceva un altro mestiere, ingegnere chimico in una ditta, e che tutti i giorni si sorbiva il traffico in via Cigna, una via, come dice lui, ‘frusta’ e incredibilmente trafficata (la sorte vuole che l’incrocio in cui si incontrano corso Regina Margherita e Corso Palestro, la cui prosecuzione è Via Cigna, si chiami Rondò della Forca. Chissà quante volte ci avrà pensato Levi all’ironia di questo inizio di percorso).
Poi il sabato, compatibilmente con i figli, la moglie, la passione della montagna, Levi si metteva alla sua scrivania e, circondato da diversi dizionari, incominciava a scrivere. Sabato e domenica.
L’immagine di Levi seduto alla scrivania, ne fa nascere altre: quella di Pannwitz, che siede dietro la sua scrivania formidabilmente complicata. Statuario e fermo, non guarda negli occhi il deportato Primo Levi, ma lo interroga ben sapendo che un suo no o un suo sì potranno significare morte o vita, salvezza o dannazione. Così Pannwitz è simile a Minosse, che sta “orribilmente e ringhia”. Lo stesso Levi narra la selezione per le camere a gas e, raccontando quei fatti, scrive “oggi questo vero oggi in cui io sto seduto a un tavolo e scrivo…”. Levi scrive, sta alla scrivania, quasi fosse un contrappasso.
La tregua, a detta dello stesso autore, è un libro ‘divertente’: uno sguardo che cerca, tenta di volgere gli occhi altrove rispetto al lager.
Levi, il dilettante scrittore da fine settimana, scrive una storia divertente, incastonata tra un incipit e un explicit funerei. Il primo capitolo, Campo grande, è forse uno degli ultimi grandi esempi di letteratura pestilenziale. Leggete quelle pagine, che descrivono un’umanità, un mondo che si sta disfacendo (la realtà è quella concentrazionaria, ma la scrittura di Levi la eleva a totalità, come se dopo i lager l’uomo non possa essere altro che un fantasma) e poi confrontatele con le pagine pestilenti di Tucidide, di Lucrezio, di Manzoni; o con quelle rovinose di Nord di Celine per capire di quale stoffa è questo scrittore dilettante da fine settimana.
Levi, però, sente il bisogno di divertire e quindi il resto di racconto è un romanzo d’avventura, picaresco e gigante, carnascialesco, pieno e brulicante di esseri umani, un romanzo formicaio, un romanzo termitaio, unico nella produzione leviana, ma che si chiude con quel sigillo nichilista, totale e assoluto, che non lascia molto spazio ad altro: nulla è vero all’infuori del lager.
Lo sguardo, insomma, si volge per un attimo - la vita è petrarchescamente breve sogno – per poi tornare alla verità finale.
*

Beh questo scrittore della domenica dilettante, che scriveva per divertire e per divertirsi, per volgere lo sguardo, ha dovuto, come ci racconta in un suo saggio Alberto Cavaglion, dimostrare di essere uno scrittore e ha dovuto scrivere racconti, poesie, saggi e quant’altro spinto dal desiderio di attestarsi, quasi che all’ambiente letterario italiano non bastassero testi come Se questo è un uomo e La tregua.
Questa miopia di clima culturale è forse sostanziale, anche per capire il dibattito lanciato su]Nazione Indiana. E proprio leggendo queste cose ho pensato a Levi: dove rientra in quel discorso uno scrittore come lui?
Non rientra. Non entra in quelle categorie, anzi. Ne è fuori proprio perché fa una scelta dilettante: e non è un caso che proprio i suoi libri migliori non siano quelli scritti per dimostrare di essere uno scrittore – in questo senso il romanzo Se non ora quando? è una narrazione debole, fatta quasi per assolvere ad un dovere del tipo: se sei uno scrittore, devi per forza scrivere un romanzo classico -, ma quelli per “volgere lo sguardo da” come, li metto in ordine di personale preferenza: I sommersi e i salvati, La Tregua, Se questo è un uomo.
Levi non è coinvolto nei dibattiti così vivi in quegli anni. Leggendo i suoi libri, le sue lettere non ci si imbatte mai nelle discussioni letterarie, che sono fiorite tra il ’60, ’70 e inizio ’80.
E come potrebbe? Lui è un chimico, uno scrittore della domenica, un dilettante di lusso. Mica le capisce queste cose: gli è capitato qualcosa di simile a quello che è capitato a Keserü.
Gli è successo di incappare nel bel mezzo di una lotta tra serpenti: e lì è rimasto.
L’unica cosa che poteva fare era scrivere. L’ha fatto.
Questo per dire che il dibattito su Nazione Indiana ha del pre-testuoso (per quanto io non possa dire molto, anzi, per quanto io non possa neanche ambire a dire qualcosa, per questa mia impressione minimale delle mie idee), quando indica nella scrittura un gesto che ha un carattere di resistenza ad una presunta restaurazione. E poi io mi chiedo chi sta compiendo questa presunta restaurazione? E cosa si restaura? Per restaurare bisogna prima aver abbattuto, e – scusate - cosa mai è stato abbattuto? A me non sembra che nulla di quello che c’era un tempo è stato buttato giù, mi pare, che tutto quello, presentato in fase di restauro, è sommessamente, sommariamente, totalmente presente.

La scrittura ha un senso, e per logica uno scrittore possiede un ruolo, se compie una scelta etica: la scrittura non si oppone, non si ribella, non vuole cambiare, ma una scrittura è tale se decide di avere a che fare con il vero.
*

In Liquidazione (i miei dieci lettori mi diranno, ma come è andata a finire la storia del video? beh questa è un’altra storia, che racconteremo poi) il romanzo Liquidazione viene scritto per essere bruciato, perché non poteva essere scritto. Era qualcosa che atteneva all'indicibile, era talmente vero, talmente reale, che pareva scialbo e scipito: una scrittura che ha che fare con il vero corre questo rischio quello di destinarsi al silenzio.
Scrivere un testo è liquidarlo, per poi liquidarsi.
Come è successo nell’aprile 1987 ad uno scrittore dilettante della domenica.

2.0 la libertà

Io non lavoro troppo. Nel senso che il lavoro che faccio mi lascia tempo di fare altro, in questo senso ci sono dei contratti a progetto – il mio è un orgoglioso e flessibile contratto a progetto, dopo essere stato un altrettanto orgoglioso co.co.co – che permettono di fare altro. A me interessa, ad esempio, fare altro. In questo caso (non voglio generalizzare, perché ci sono contratti di lavoro che definire capestro è offendere la gogna) il soggetto in questione, ovvero me medesimo, gode di una obiettiva libertà; credo che l’obiettiva libertà sia uno dei categorie fondamentali per poter essere uno scrittore dilettante. Al solito non è di questo che volevo parlare, ma di una cosa che mi è venuta in mente, quando giravo per la città cercando di fare il filmato. L’idea che avevo nella testa era: faccio parlare la città. La città ci parla.
E mi sono ricordato di uno scritto di Levi, un breve saggio, ne L’altrui mestiere, in cui lo scrittore raccontava come camminando e guardando i marciapiedi si scoprono tanti segreti di una città.
Io ho sempre avuto l’impressione che Torino parli una lingua difficile da districare: proprio come certi vecchi che ti raccontano una storia che fatichi a capire, perché è raccontata con parole che non si usano più, ma proprio perché così strane, extravaganti rispetto al nostro dire comune, alla fine ci colpiscono e ci affascinano.
Camminando per le vie di Torino e guardando non all’insù, ma all’ingiù, dice Levi (per Levi l’uso degli avverbi insù e ingiù è centrale: ingiù è l’uomo conficcato nell’inferno del lager, insù è il desiderio di uscirne), possiamo scoprire che alcuni marciapiedi sono feriti, bucherellati e colpiti da piccole pietre. Sono le schegge delle bombe, dice sempre Levi, che esplose in un punto si sono sperse in un raggio di chilometri.
Da quando ho letto questo racconto ho iniziato a guardare Torino, come una sopravvissuta, come una vecchia dalle rughe fonde che porta su di sé i segni di un oltraggio violento.
Una di queste schegge micidiali, di questi bolidi, è conficcata vicino a piazza Bodoni. A voler essere sinceri in quei dintorni le schegge sono due, ma una è viva. Vivissima.
*
Non so se avete presente la poesia di Primo Levi Il superstite, spero di sì, perché non è della poesia che voglio parlare. Anche se ci sarebbe da dire di quella chiusa disperata con il poeta che dice: “Non è colpa mia se vivo e respiro/ e mangi e bevo e dormo e vesto panni”, che rimanda a Inf. XXIII, 141: “e mangia e bee e dorme e veste panni”. Che uno dirà: embè, è una citazione da Dante, dove è la novità né sono pieni di Cantos di Pound, o ne troviamo a bizzeffe in The waste land di Eliot. Certo, ma che citazione, che contesto. Seguite un attimo: Levi con i suoi versi vuole discolparsi per essere sopravvissuto (il male di sopravvivere), ma per farlo usa un endecasillabo di Dante che si riferisce all’anima di un dannato, che è già nel più profondo inferno, mentre il suo corpo è ancora in vita: Levi si paragona ad un fantoccio senza vita, e discolpandosi si accusa; se questa non è grandissima arte, comunque, voglio parlare della dedica, che di per sé è semplice, due iniziali: a B.V.
Infatti se andate vicino a p.zza Bodoni c’è un campanello con queste due iniziali. Suonate e vi trovate davanti B.V. al secolo Bruno Vasari, grande amico di Levi, partigiano, deportato a Mauthausen, autore del libro, il primo che narrava dei campi di concentramento, Mauthausen Bivacco della morte (1945), presidente dell’Aned, vice direttore della RAI negli 50 e 60, uomo di punta del Partito d’Azione, triestino di nascita, ma adottato da Torino.
E’ un uomo grande e immane: grande di corporatura, anche se adesso è un po’ curvo, squisito nei modi e soprattutto immane nella voglia di portare testimonianza. La mia obiettiva libertà mi ha portato ad aiutarlo, in questi ultimi anni, in questa sua opera/missione.
Siamo diventati amici e così una volta gli ho chiesto come si sentiva ad essere il dedicatario di una delle poesie più belle della letteratura italiana (è questa una mia personalissima convinzione). Lui sorrise, mentre accarezzava il suo gatto, complice di tutte le nostre attività editoriali.
“Un giorno parlavo con Primo e lui mi diceva di questo suo sentimento difficile da spiegare, ovvero di sentirsi usurpatore della vita altrui”
“…”
"Insomma la poesia di Levi è nata quel giorno e siccome ne aveva parlato con me, Primo fece il gesto affettuoso di dedicarmela. Quello che ha scritto Levi è un sentimento doloroso che ogni deportato sente proprio: ti ricordi Calore no?"
"Certo, come no..."
*
E come non potevo ricordarmi Bepi Calore, che ho incontrato a Milano in un maggio caldo. Stavo curando un suo libro-intervista, quando Bruno mi disse che secondo lui bisognava fargli ancora qualche domanda. E allora mi ero messo in viaggio ed ero finito a casa sua. Una casa bellissima e luminosa. Lui mi accoglie con gentilezza: ha una pelle limpida, quasi senza rughe, gli occhi azzurri e umidi, e la sua magrezza è appena coperta dalla camicia e da un paio di pantaloni di taglio classico. Abbiamo parlato per ore. Finita l’intervista, Bepi mi ha accompagnato alla porta e mi ha abbracciato, poi le sue mani hanno stretto i miei polsi, e fissandomi negli occhi mi ha detto:
“Io mi sono chiesto mille volte perché sono vivo. Già quando ero a Mauthausen, e i miei compagni mi confidavano le loro ultime volontà, perché dicevano che io sarei tornato e loro no, io mi mi chiedevo perché mi sarei dovuto salvare io e non loro. Perché? Mille volte me lo domando: perché io vivo e loro sono morti? Perché? Perché?”
Io non gli risposi. E uscito nell’afa milanese, mi sembrò di respirare.
*
E’ un sentimento, quell’assenza di respiro e di parola, che ti prende ogni volta che incontri un testimone, come se ti levasse l’aria dai polmoni. E’ quel sentimento strano, quell’angoscia spossante che c’è in tutti i testi di letteratura concentrazionaria. E’ questa un’inquietudine maledettamente presente, sempre attuale.
E’, uso una definizione cara ad Agamben, la vergogna dell’esistere, anzi la vergogna dell’esserci ancora. Ecco perché quando sento parlare di memoria pacificata, provo ribrezzo.
Sì ribrezzo e odio.
Avete mai parlato con un deportato? Non letto, sulle pagine, ma parlato faccia a faccia, la tua faccia davanti alla sua, con lui che ti guarda negli occhi, che muove le mani, e si aggiusta i capelli?
Insomma se lo farete, ecco lui vi sembrerà vivo in tutto per tutto, ma che con le sue parole dirà il contrario, ovvero che stai parlando con un fantasma, con un morto, che gode di una breve vancanza, perché la morte ha lasciato – per motivi imperscrutabili – il lavoro a metà. Un uomo consapevole che nessun lavoro viene lasciato incompiuto.
Sentire i discorsi di questi uomini è sentire un campionario di male, da riempirti per sempre; ogni incontro è colmare la misura, ogni volta è un sentirsi afflitti con loro, con loro subire quelle angherie.
Noi, mi diceva Bruno un giorno, in cui ero particolarmente turbato, dobbiamo farlo, dobbiamo per forza parlare: è un fatto di egoismo, o di sopravvivenza, e di storia. Io non posso portare per tutta la vita quei ricordi, o meglio li posso portare, ma devo condividerli con qualcuno. Ecco perché racconto, so che raccontando infliggo i miei dolori ad un altro, è una sospensione di pena breve, leggera, volatile, ma c’è. Io ad esempio infliggo a te i miei dolori, le cose che ho subito a Mauthausen. Io so che tu potrai mai capire fino in fondo cosa significhi, e nello stesso tempo non è vero che io mi liberi della mia angoscia. Per un secondo, però, tu senti, profondamente, quasi per osmosi il mio dolore, il mio strazio.
E questa comunanza ci porta a voler ricordare, a farne memoria e storia.
Ecco perché odio.
Io so che bisogna studiare, ricostruire obiettivamente i fatti, non essere mai falsificatori, ma detto questo io non penserò che ci possano essere delle motivazioni ragionevoli per pacificare la memoria.
La memoria pacificata è una memoria depotenziata: finisce per appiattire, per rendere tutto uguale.
Chi vuole poi lo faccia.
Io per me preferisco conservare il ricordo di queste vite, e delle milioni di vite che hanno incenerito i cieli e la terra di mezz’Europa.
Io lascio a voi la pace.
Io mi tengo il ricordo e l’odio.

3.0 qualcosa come il veleno

Prima di fare l’ufficio stampa, per alcuni anni ho fatto il giornalista, ed era proprio quello che volevo fare: non sono mai stato di quelli che fanno i giornalisti perché vogliono fare gli scrittori o di quelli che vanno in una redazione e chiedono di scrivere solo di libri e di cultura. Io volevo proprio fare il giornalista; certo la scrittura m’interessava, ma mi ero messo in testa di essere un poeta di pochissimi e sublimi versi, e mai avrei pensato di trovarmi a scrivere]un romanzo o di]dibatterne.
Così quando sono entrato nella piccola redazione del Corriere d’Asti e ho visto il faccia barbuta e grassa di Franco Ventura (la persona a cui tra l’altro è Il pasto grigio è dedicato) mi sono detto che forse avevo fatto la cosa giusta. Tu che voi fare?, mi disse, mica sei uno di quelli che vuole fare lo spettacolo, il teatro e queste cosette da donne. Franco era misogino, non lo nascondeva, come non nascondeva la sua stazza un metro e sessantacinque per cento e pussa chili.
No, io risposi, non mi interessa fare quello, vorrei fare il giornalista. Lui sorrise e proprio il suo sorridere era qualcosa di incredibile, perché gli si smuoveva tutta la pancia; sembrava un terremoto e da subito mi venne prepotente alla testa un’immagine, che sempre mi accompagna pensando a Franco, ovvero quella di un elefante con i piedi di una ballerina. Lui aveva i piedi piccolissimi, portava il 36, e questa sproporzione era qualcosa di affascinante.
Comunque, gli dissi solo che volevo fare il giornalista e lui allora mi disse: va bene farai la nera e la giudiziaria. Asti, dove allora lavoravo e vivevo, era una piccola città e tutto sommato si poteva fare il cronista sia di nera che di giudiziaria. Avrei iniziato dopo capodanno, mi ricordo che quando ci incontrammo in redazione era appena passato Santo Stefano (e a ben pensare questa ricorrenza spiega anche bene il perché di questa cosa che sto scrivendo). Così dopo capodanno, forse il 3 o il 4, ora non ricordo, ho preso la mia panda bianca, il mio taccuino (in realtà un quaderno) e sono andato in redazione.
Ora la redazione di un piccolo giornale, di una piccola provincia, ha più la foggia di una casa male arredata: un’entrata, una batteria di computer nel salone centrale, una stanza per i grafici, e la stanza del direttore. Punto.
Entro e dico a Franco: eccomi. Bene, mi dice, ora che ci sei vai con lui, e mi indica un altro tizio, all’ospedale. Due giorni fa c’è stato un tremendo incidente 3 giovani morti, oggi i corpi sono all’obitorio dell’ospedale, ci saranno i parenti; tu vai lì e li intervisti. E poi aggiunse: quaranta, massimo cinquanta righe.
Non credevo neppure io di essere in grado di fare quello che mi veniva chiesto e invece, quando parcheggiai la macchina nella piazza e mi diressi verso l’obitorio, tutto venne naturale: le domande, le titubanze delle persone, le ciniche bugie del tipo “so e capisco il suo dolore, signora; so cosa vuol dire perdere un figlio in una situazione del genere, ma è per questo che lei deve raccontare, così che ad altri non accada”, misere captatio benevolentiae per avere materiale per scrivere quelle 50 righe richieste, e poi sentire le persone parlare e già pensare a che taglio dare, quale incipit usare e la chiusa, tutto mentre loro parlavano e tu le ascoltavi.
E’ sinceramente difficile spiegare cosa sia la cronaca nera, cosa sia avere a che fare con morti violente, che non sono solo gli omicidi, ma anche incidenti stradali, suicidi, incidenti sul lavoro etc etc. Una vicinanza piuttosto complessa che ti fa pensare, ti convince proprio, che l’unica morte vera sia quella che avviene per qualcosa di brutale, e che morire nel proprio letto per vecchiaia sia un po’ meno morte.
Certo, ti dici, è un cessare alla vita, ma non ha niente a che fare con il morire.
*
Non è per niente, questo che state leggendo, un discorso estetico sulla morte. Non c’è proprio niente di profondamente poetico nel corpo morto di morte violenta, sia esso colpito da un’arma da fuoco, o investito da una macchina o schiacciato da una paratia di cemento armato.
Eppure l’altro giorno, era Santo Stefano, stavo seduto nel taxi che mi riportava a casa mia, dopo i festeggiamenti natalizi a casa dei miei. Ero silenzioso e guardavo la città nera nera appena toccata da leggere spruzzate di ghiaccio che qualcuno maldestro scambiava per fiocchi di neve.
Dove?, mi aveva detto l’autista, e io avevo recitato a memoria la via, spiegando che era meglio passare da c.so Orbassano e lui mi aveva detto che si era meglio e che conosceva la strada perché lì ci abitava la sua ex moglie. Sa mi ha lasciato, disse, due anni orsono, non è facile con uno che fa il nostro lavoro. Io avevo annuito e avevo pensato che tutti dicono così, cioè tutti danno la colpa del loro fallimento matrimoniale al lavoro; e non importa quale lavoro fai: ci siamo lasciati, sa faccio il tassista, il giornalista, lo scrittore, l’operaio, l’agente immobiliare, l’art director, l’architetto…
Io, per non sapere cosa dire, dissi semplicemente: già. E fu il segnale che non avevo voglia di parlare, ma di arrivare a casa al più presto possibile.
Così mentre si correva verso casa, ad un tratto come una illuminazione, che arriva da qualche profondità inaspettata eppure vera, mi sono detto nella testa, ma chiara come una voce udita nitidamente in una piazza che dice il tuo nome, ecco mi sono detto: mi manca un omicidio.
Mi manca un omicidio può suonare tremendo, ma arrivare sul luogo di un delitto è qualcosa che non dimentichi e ti lascia un’impressione profonda. Sì, certo c’è la compassione per il morto, c’è una sorta di adrenalina dovuta al tutta la messa in scena , che è un po’ meno scenografica di quella che si vede nei film, ma rende l’idea; tutte queste cose ci sono ed entrano in gioco quando arrivi, ma c’è qualcosa di più oscuro nel visitare la scena di una morte violenta, che ti attrae e ti eccita. Qualche cosa che ha che fare con due tensioni diverse che convivono, da una parte senti nella schiena come uno scatto felino di animalità, gli occhi, il naso e le orecchie si dilatano, si aguzzano i sensi: senti più nitidi i rumori, gli odori arrivano prima, e noti particolari minimi. Dall’altra parte provi un senso di sgomento e capisci che questa paura, questo orrore e desiderio, erano gli stessi che sentivano coloro che nell’antichità assistevano ai sacrifici umani.
Mentre pensavo a queste cose, il tassista mi disse: siamo arrivati, fanno 10 euro e 20. Ecco, risposi, tenga il resto, sporgendogli 11 euro. Ma questo, riprese lui, è il condominio dove l’anno scorso uccisero quel marocchino, vero? Si, non potevo mica mentire, è stato qui.
E io mi ricordo ancora quel giorno, anzi quella notte, le urla animali e non umane che hanno svegliato tutti, urla come di uomo che viene pugnalato e poi sgozzato, nella migliore tradizione dei regolamenti di conti tra trafficanti di droga, che ha sempre stranamente dei precisi rituali; e il nostro scendere all’arrivo della polizia e gli interrogatori di ognuno di noi. Quella volta mi resi conto che avevo perduto quella sensazione che sempre mi aveva accompagnato nei miei servizi; ero come infastidito da tutto questo e provai pure scriverci qualcosa, ma ne uscì]una poesia e l’ipotesi di un racconto “voci di condominio” che come vedete giace abbandonato.
Non ero più abituato a quello che significa trovarsi in un luogo di morte violenta, e in quel frangente il mio linguaggio o la mia percezione ne uscirono impoveriti.
Non ho sentito, però, in quel caso, nessuna nostalgia, perché era ancora forte in me il desiderio di allontanarmi da tutto quello, un fastidio che mi ha portato a cambiare prima settore per occuparmi di politica e di sindacato; un disagio che alla fine mi ha portato a scegliere di fare l’ufficio stampa e di mollare in giornalismo.
Ma l’altro giorno nel taxi, qualcosa mi ha rivisitato, una primordiale mancanza, quella di tornare a raccontare quello strano e turbante sentimento che ti incantesima, quando hai a che fare con la morte violenta.
Qualcosa come un veleno, che pur sopito rimane nelle vene ad intossicarti.

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