mercoledì 31 maggio 2006

I monologhi della varechina

I Monologhi della Varechina è una nuova rivista di letteratura e immagini, distribuita gratuitamente in rete. Si propone di offrire una stanza tutta per sé a donne che raccontano storie. Vi collaborano e vi collaboreranno scrittrici, giornaliste, blogger, illustratrici, artiste, fotografe, autrici di teatro e di cinema.

Il numero zero de I Monologhi della Varechina è dedicato al Lavoro in bianco e nero, interpretato dalle autrici come cinema d'autore: lavoro sommerso, immigrati clandestini, precariato, lavoro di strada, disoccupazione, sfruttamento, disparità uomo/donna, pubblico e privato, flessibilità. Le narrazioni di questo numero sono di:



Manuela ARDINGO
Alice AVALLONE
Antonella CICOGNA
Antonella CILENTO
Babsi JONES
Loredana LIPPERINI
Laura PUGNO
Chiara REALI
Silvana RIGOBON
Stafania SCATENI
Nadia ZORZIN


Il prossimo appuntamento sarà sul tema Guerra e Pace, ed è previsto per l'autunno 2006.
La rivista, in formato pdf, si potrà scaricare gratuitamente presso vibrisse, il bollettino di scritture e letture curato da Giulio Mozzi, nonché dai siti delle blogger partecipanti, a partire dal 1° Giugno 2006.

Il titolo della rivista, I Monologhi della Varechina, è un gioco di parole con la celeberrima opera teatrale di Eve Ensler, e la scelta dei termini non è casuale. Il monologo, infatti, è la forma più rappresentativa per la comunicazione al femminile, non necessariamente per scelta delle donne. La varechina rimanda a qualcosa di caustico, che arriva anche negli angoli più difficili.

Ideatrice e curatrice del progetto è Silvana Rigobon.

Per ulteriori informazioni: varechina@gmail.com


Verona, 26 Maggio 2006

I monologhi della varechina

I Monologhi della Varechina è una nuova rivista di letteratura e immagini, distribuita gratuitamente in rete. Si propone di offrire una stanza tutta per sé a donne che raccontano storie. Vi collaborano e vi collaboreranno scrittrici, giornaliste, blogger, illustratrici, artiste, fotografe, autrici di teatro e di cinema.

Il numero zero de I Monologhi della Varechina è dedicato al Lavoro in bianco e nero, interpretato dalle autrici come cinema d'autore: lavoro sommerso, immigrati clandestini, precariato, lavoro di strada, disoccupazione, sfruttamento, disparità uomo/donna, pubblico e privato, flessibilità. Le narrazioni di questo numero sono di:



Manuela ARDINGO
Alice AVALLONE
Antonella CICOGNA
Antonella CILENTO
Babsi JONES
Loredana LIPPERINI
Laura PUGNO
Chiara REALI
Silvana RIGOBON
Stafania SCATENI
Nadia ZORZIN


Il prossimo appuntamento sarà sul tema Guerra e Pace, ed è previsto per l'autunno 2006.
La rivista, in formato pdf, si potrà scaricare gratuitamente presso vibrisse, il bollettino di scritture e letture curato da Giulio Mozzi, nonché dai siti delle blogger partecipanti, a partire dal 1° Giugno 2006.

Il titolo della rivista, I Monologhi della Varechina, è un gioco di parole con la celeberrima opera teatrale di Eve Ensler, e la scelta dei termini non è casuale. Il monologo, infatti, è la forma più rappresentativa per la comunicazione al femminile, non necessariamente per scelta delle donne. La varechina rimanda a qualcosa di caustico, che arriva anche negli angoli più difficili.

Ideatrice e curatrice del progetto è Silvana Rigobon.

Per ulteriori informazioni: varechina@gmail.com


Verona, 26 Maggio 2006

lunedì 29 maggio 2006

Il liceo e l'oblio

io sono quello col simbolo della Wolksvagen e gli occhialoni neriAlla fine di IT, il capolavoro di Steve King, Bill progressivamente dimentica i nomi dei suoi amici, a poco a poco l'oblio mastica tutta l'avventura. Facciamo spesso spazio ai nuovi ricordi e lasciamo che il resto svapori via. Oggi a lavoro stavano ritinteggiando le pareti del Punto INPS ed ero profugo in altri uffici, sotto il climatizzatore e nel blocco note cercavo di ricostruire la mia classe del liceo.

In ogni tentativo dimenticavo qualcuno, perfino Stella, che pure è una mia carissima amica. Cercavo di recuperare la litania dell'appello mattutino, alla fine, dopo svariati tentativi forse ce l'ho fatta. Un giorno magari faccio una pagina ad hoc per evitare che scompaiano definitivamente quei giorni di santo disimpegno. Solo sei anni, sei anni e le facce di alcuni proprio non riesco a trovarle.

Paride, Calogero e Io coi capelli a mezzo collo sul Ponte CarloEravamo la V^ E, la mitica Quinta E del Liceo Scientifico Statale Giuseppe D'Alessandro di Bagheria (1999/2000). 22 belle teste trasudanti ormoni e speranze. La classe era uno scantinato, a una finestra di distanza dalla pizzeria Mineo's, arrivava l'odore dei Moffoletti a ricordarci che fuori c'era un mondo che ci aspettava mentre i professori continuavano a inculcarci i loro tic.




  1. BONAFEDE Elisa

  2. BRUNO Valentina

  3. BUSETTA Pietro

  4. CACCIATORE Rosario

  5. CANALE Maria Stella

  6. CIRASOLA Biagio

  7. CORSO Linda

  8. GARBO Carlo

  9. GAROFALO Mary

  10. GIULIANA Luigi

  11. GUAGLIARDO Francesca

  12. GUTTILLA Loredana

  13. IMBURGIA Salvo

  14. MANULI Valentina

  15. MONTALBANO Roberto

  16. NICOLOSI Stefania

  17. OLIVERI Dario

  18. PIAZZA Donatella

  19. PINTACUDA Antonino

  20. PROFITA Loredana

  21. SANTANGELO Paride

  22. SCANNAVINO Oreste

  23. TORNESE Calogero


la gita ad Acireale, 10/2/1997

Il liceo e l'oblio

io sono quello col simbolo della Wolksvagen e gli occhialoni neriAlla fine di IT, il capolavoro di Steve King, Bill progressivamente dimentica i nomi dei suoi amici, a poco a poco l'oblio mastica tutta l'avventura. Facciamo spesso spazio ai nuovi ricordi e lasciamo che il resto svapori via. Oggi a lavoro stavano ritinteggiando le pareti del Punto INPS ed ero profugo in altri uffici, sotto il climatizzatore e nel blocco note cercavo di ricostruire la mia classe del liceo.

In ogni tentativo dimenticavo qualcuno, perfino Stella, che pure è una mia carissima amica. Cercavo di recuperare la litania dell'appello mattutino, alla fine, dopo svariati tentativi forse ce l'ho fatta. Un giorno magari faccio una pagina ad hoc per evitare che scompaiano definitivamente quei giorni di santo disimpegno. Solo sei anni, sei anni e le facce di alcuni proprio non riesco a trovarle.

Paride, Calogero e Io coi capelli a mezzo collo sul Ponte CarloEravamo la V^ E, la mitica Quinta E del Liceo Scientifico Statale Giuseppe D'Alessandro di Bagheria (1999/2000). 22 belle teste trasudanti ormoni e speranze. La classe era uno scantinato, a una finestra di distanza dalla pizzeria Mineo's, arrivava l'odore dei Moffoletti a ricordarci che fuori c'era un mondo che ci aspettava mentre i professori continuavano a inculcarci i loro tic.




  1. BONAFEDE Elisa

  2. BRUNO Valentina

  3. BUSETTA Pietro

  4. CACCIATORE Rosario

  5. CANALE Maria Stella

  6. CIRASOLA Biagio

  7. CORSO Linda

  8. GARBO Carlo

  9. GAROFALO Mary

  10. GIULIANA Luigi

  11. GUAGLIARDO Francesca

  12. GUTTILLA Loredana

  13. IMBURGIA Salvo

  14. MANULI Valentina

  15. MONTALBANO Roberto

  16. NICOLOSI Stefania

  17. OLIVERI Dario

  18. PIAZZA Donatella

  19. PINTACUDA Antonino

  20. PROFITA Loredana

  21. SANTANGELO Paride

  22. SCANNAVINO Oreste

  23. TORNESE Calogero


la gita ad Acireale, 10/2/1997

domenica 14 maggio 2006

figli di un disfatto padre





Mauro, figlio mio,

sì, è così che sempre ti ho chiamato e continuo a chiamarti: figlio mio. Ora più che mai, lontani come siamo, ridotti in due diversi esili, il tuo forzato e il mio volontario in questa città infernale, in questa casa… smetto per timore d'irritarti coi lamenti.

Figlio, anche se da molto tempo tu mi neghi come padre.

So, Mauro, che non neghi me, ma tutti i padri, la mia generazione, quella che non ha fatto la guerra, ma il dopoguerra, che avrebbe dovuto ricostruire, dopo il disastro, questo Paese, formare una nuova società, una civile, giusta convivenza.

Abbiamo fallito, prima di voi e come voi dopo, nel vostro temerario azzardo.

Ci rinnegate, e a ragione, tu anzi con la lucida ragione che ha sempre improntato la tua parola, la tua azione. Ragione che hai negli anni tenacemente acuminato, mentre in casa nostra dolorosamente rovinava, nell'innocente tua madre, in me, inerte, murato nel mio impegno, nel folle azzardo letterario.

In quel modo volevo anch'io rinnegare padri, e ho compiuto come te il parricidio. La parola è forte, ma questa è.

Il mio primo, privato parricidio non è, al contrario del tuo, metaforico, ma forse tremendamente vero, reale.

Tu sai dello sfollamento per la guerra a Rassalemi, del marabutto, dell'atroce fine di mio padre, della madre di tua madre, del contadino e del polacco. Non sono riuscito a ricordare, o non ho voluto, se sono stato io a rivelare a quei massacratori, a quei tedeschi spietati il luogo dove era stato appena condotto il disertore. Sono certo ch'io credevo di odiare in quel momento mio padre, per la sua autorità, il suo essere uomo adulto con bisogni e con diritti dai quali ero escluso, e ne soffrivo, come tutti i fanciulli che cominciano a sentire nel padre l'avversario.

Quella ferita grave, iniziale per mia fortuna, s'è rimarginata grazie a un padre ulteriore, a un non padre, a quello scienziato poeta che fu lo zio Mauro. Ma non s'è rimarginata, ahimè, in tua madre, nella mia Lucia, cresciuta con l'assenza della madre e con la presenza odiosa di quello che formalmente era il padre.

Sappi che non per rimorso l'ho sposata ma per profondo sentimento, precoce e inestinguibile. Quella donna, tua madre, era per me la verità del mondo, la grazia, l'unica mia luce, e per sempre viva.

La mia capacità d'amare una creatura come lei è stato ancora un dono dello zio.

Al di là di questo, rimaneva in me il bisogno della rivolta in un altro ambito, nella scrittura. Il bisogno di trasferire sulla carta – come avviene credo a chi è vocato a scrivere – il mio parricidio, di compierlo con logico progetto, o metodo nella follia, come dice il grande Tizio, per mezzo d'una lingua che fosse contraria a ogni altra logica, fiduciosamente comunicativa, di padri o fratelli – confrères – più anziani, involontari complici pensavo dei responsabili del disastro sociale.

Ho fatto come te, se permetti, la mia lotta e ho pagato con la sconfitta, la dimissione, l'abbandono della penna.

Compatisci, Mauro, questo lungo dire di me. È debolezza d'un vecchio, desiderio estremo di confessare finalmente, di chiarire.

Questa città, lo sai, è diventata un campo di battaglia, un macello quotidiano. Sparano, fanno esplodere tritolo, straziano vite umane, carbonizzano corpi, spiaccicano membra su alberi e asfalto – ah l'infernale cratere sulla strada per l'aeroporto! - è una furia bestiale, uno sterminio. Si ammazzano tra di loro, i mafiosi, ma il loro principale obiettivo sono i giudici, questi uomini diversi da quelli d'appena ieri o ancora attivi, giudici di una nuova cultura, di salda etica e di totale impegno costretti a combattere su due fronti, quello interno delle istituzioni, del corpo loro stesso giudiziario, asservito al potere o nostalgico del boia, dei governanti complici e sostenitori dei mafiosi, da questi sostenuti, e quello esterno delle cosche, che qui hanno la loro prima linea, ma la cui guerra è contro lo Stato, gli Stati per il dominio dell'illegalità, il comando dei più immondi traffici.

Ma ti parlo di fatti noti, diffusi dalle cronache, consegnati alla più recente storia.

Voglio solo comunicarti le mie impressioni su questa realtà in cui vivo.

Dopo l'assassinio in maggio del giudice, della moglie e delle guardie, dopo i tumultuosi funerali, la rabbia, le urla, il furore della gente, dopo i cortei, le notturne fiaccolate, i simboli agitati del cordoglio e del rimpianto, in questo luglio di fervore stagno sopra la conca di cemento, di luce incandescente che vanisce il mondo, greve di profumi e di miasmi, tutto sembra assopito, lontano. Sembra di vivere ora in una strana sospensione, in un'attesa.

Ho conosciuto un giudice, procuratore aggiunto che lavorava già con l'altro ucciso, un uomo che sembra aver celato la sua natura affabile, sentimentale dietro la corazza del rigore, dell'asprezza. Lo vedo qualche volta dalla finestra giungere con la scorta in questa via d'Astorga per far visita all'anziana madre che abita nel palazzo antistante. Lo vedo sempre più pallido, teso, l'eterna sigaretta fra le dita. Mi fa pena, credimi, e ogni altro impiegato in questa lotta. Sono persone che vogliono ripristinare, contro quello criminale, il potere dello Stato, il rispetto delle sue leggi. Sembrano figli, loro, di un disfatto padre, minato da misterioso male, che si ostinano a far vivere, restituirgli autorità e comando…



Vincenzo Consolo, Lo Spasimo di Palermo, Mondadori, Milano 1998.

figli di un disfatto padre





Mauro, figlio mio,

sì, è così che sempre ti ho chiamato e continuo a chiamarti: figlio mio. Ora più che mai, lontani come siamo, ridotti in due diversi esili, il tuo forzato e il mio volontario in questa città infernale, in questa casa… smetto per timore d'irritarti coi lamenti.

Figlio, anche se da molto tempo tu mi neghi come padre.

So, Mauro, che non neghi me, ma tutti i padri, la mia generazione, quella che non ha fatto la guerra, ma il dopoguerra, che avrebbe dovuto ricostruire, dopo il disastro, questo Paese, formare una nuova società, una civile, giusta convivenza.

Abbiamo fallito, prima di voi e come voi dopo, nel vostro temerario azzardo.

Ci rinnegate, e a ragione, tu anzi con la lucida ragione che ha sempre improntato la tua parola, la tua azione. Ragione che hai negli anni tenacemente acuminato, mentre in casa nostra dolorosamente rovinava, nell'innocente tua madre, in me, inerte, murato nel mio impegno, nel folle azzardo letterario.

In quel modo volevo anch'io rinnegare padri, e ho compiuto come te il parricidio. La parola è forte, ma questa è.

Il mio primo, privato parricidio non è, al contrario del tuo, metaforico, ma forse tremendamente vero, reale.

Tu sai dello sfollamento per la guerra a Rassalemi, del marabutto, dell'atroce fine di mio padre, della madre di tua madre, del contadino e del polacco. Non sono riuscito a ricordare, o non ho voluto, se sono stato io a rivelare a quei massacratori, a quei tedeschi spietati il luogo dove era stato appena condotto il disertore. Sono certo ch'io credevo di odiare in quel momento mio padre, per la sua autorità, il suo essere uomo adulto con bisogni e con diritti dai quali ero escluso, e ne soffrivo, come tutti i fanciulli che cominciano a sentire nel padre l'avversario.

Quella ferita grave, iniziale per mia fortuna, s'è rimarginata grazie a un padre ulteriore, a un non padre, a quello scienziato poeta che fu lo zio Mauro. Ma non s'è rimarginata, ahimè, in tua madre, nella mia Lucia, cresciuta con l'assenza della madre e con la presenza odiosa di quello che formalmente era il padre.

Sappi che non per rimorso l'ho sposata ma per profondo sentimento, precoce e inestinguibile. Quella donna, tua madre, era per me la verità del mondo, la grazia, l'unica mia luce, e per sempre viva.

La mia capacità d'amare una creatura come lei è stato ancora un dono dello zio.

Al di là di questo, rimaneva in me il bisogno della rivolta in un altro ambito, nella scrittura. Il bisogno di trasferire sulla carta – come avviene credo a chi è vocato a scrivere – il mio parricidio, di compierlo con logico progetto, o metodo nella follia, come dice il grande Tizio, per mezzo d'una lingua che fosse contraria a ogni altra logica, fiduciosamente comunicativa, di padri o fratelli – confrères – più anziani, involontari complici pensavo dei responsabili del disastro sociale.

Ho fatto come te, se permetti, la mia lotta e ho pagato con la sconfitta, la dimissione, l'abbandono della penna.

Compatisci, Mauro, questo lungo dire di me. È debolezza d'un vecchio, desiderio estremo di confessare finalmente, di chiarire.

Questa città, lo sai, è diventata un campo di battaglia, un macello quotidiano. Sparano, fanno esplodere tritolo, straziano vite umane, carbonizzano corpi, spiaccicano membra su alberi e asfalto – ah l'infernale cratere sulla strada per l'aeroporto! - è una furia bestiale, uno sterminio. Si ammazzano tra di loro, i mafiosi, ma il loro principale obiettivo sono i giudici, questi uomini diversi da quelli d'appena ieri o ancora attivi, giudici di una nuova cultura, di salda etica e di totale impegno costretti a combattere su due fronti, quello interno delle istituzioni, del corpo loro stesso giudiziario, asservito al potere o nostalgico del boia, dei governanti complici e sostenitori dei mafiosi, da questi sostenuti, e quello esterno delle cosche, che qui hanno la loro prima linea, ma la cui guerra è contro lo Stato, gli Stati per il dominio dell'illegalità, il comando dei più immondi traffici.

Ma ti parlo di fatti noti, diffusi dalle cronache, consegnati alla più recente storia.

Voglio solo comunicarti le mie impressioni su questa realtà in cui vivo.

Dopo l'assassinio in maggio del giudice, della moglie e delle guardie, dopo i tumultuosi funerali, la rabbia, le urla, il furore della gente, dopo i cortei, le notturne fiaccolate, i simboli agitati del cordoglio e del rimpianto, in questo luglio di fervore stagno sopra la conca di cemento, di luce incandescente che vanisce il mondo, greve di profumi e di miasmi, tutto sembra assopito, lontano. Sembra di vivere ora in una strana sospensione, in un'attesa.

Ho conosciuto un giudice, procuratore aggiunto che lavorava già con l'altro ucciso, un uomo che sembra aver celato la sua natura affabile, sentimentale dietro la corazza del rigore, dell'asprezza. Lo vedo qualche volta dalla finestra giungere con la scorta in questa via d'Astorga per far visita all'anziana madre che abita nel palazzo antistante. Lo vedo sempre più pallido, teso, l'eterna sigaretta fra le dita. Mi fa pena, credimi, e ogni altro impiegato in questa lotta. Sono persone che vogliono ripristinare, contro quello criminale, il potere dello Stato, il rispetto delle sue leggi. Sembrano figli, loro, di un disfatto padre, minato da misterioso male, che si ostinano a far vivere, restituirgli autorità e comando…



Vincenzo Consolo, Lo Spasimo di Palermo, Mondadori, Milano 1998.

padri e figli

Sono diventato padre a undici anni, lo stesso anno di Jurassic Park che non ho visto quell’anno perché ero troppo attento a nascondermi sotto il giubbotto a jeans con mia madre e mia sorella che me l’avrebbero ricordato per una dozzina d’anni.

Lo stesso anno del T-Rex ero andato a vedermi Hook, la favola di Spielberg che s’immagina Peter Pan cresciuto, imbolsito, padre di due marmocchi. Alla fine il monello e la sua ombra sono cresciuti, hanno dimenticato la strada per l’Isola che non c’è e i bimbi sperduti. Capitan Uncino gli rapisce i figli perché vuole la sua vendetta, vuole vendicarsi per la sua mano data in pasto all’alligatore. Peter ritorna all’isola, non crede ancora di essere il ragazzo che non voleva crescere mai, alla fine ritorna a volare, il suo pensiero felice sono proprio i suoi figli, E qui sono diventato padre pure io. Pure io voglio abbracciare un frugoletto e volare felice.

Perché mio padre non s’è più ripreso dopo la nascita di mia sorella che l’ha fatto padre e gli ha tolto il senno. Nei quotidiani screzi che capitano tra padre e figli distanti quarant’anni, guardo mio padre e lo percepisco chiaro che gli piacerebbe risolvere quel momento intagliandomi uno spadino di legno come quand’ero piccolo.

padri e figli

Sono diventato padre a undici anni, lo stesso anno di Jurassic Park che non ho visto quell’anno perché ero troppo attento a nascondermi sotto il giubbotto a jeans con mia madre e mia sorella che me l’avrebbero ricordato per una dozzina d’anni.

Lo stesso anno del T-Rex ero andato a vedermi Hook, la favola di Spielberg che s’immagina Peter Pan cresciuto, imbolsito, padre di due marmocchi. Alla fine il monello e la sua ombra sono cresciuti, hanno dimenticato la strada per l’Isola che non c’è e i bimbi sperduti. Capitan Uncino gli rapisce i figli perché vuole la sua vendetta, vuole vendicarsi per la sua mano data in pasto all’alligatore. Peter ritorna all’isola, non crede ancora di essere il ragazzo che non voleva crescere mai, alla fine ritorna a volare, il suo pensiero felice sono proprio i suoi figli, E qui sono diventato padre pure io. Pure io voglio abbracciare un frugoletto e volare felice.

Perché mio padre non s’è più ripreso dopo la nascita di mia sorella che l’ha fatto padre e gli ha tolto il senno. Nei quotidiani screzi che capitano tra padre e figli distanti quarant’anni, guardo mio padre e lo percepisco chiaro che gli piacerebbe risolvere quel momento intagliandomi uno spadino di legno come quand’ero piccolo.

sabato 13 maggio 2006

Leggendo D'Arrigo

Sto leggendo Horcynus Orca. Sono a un quinto dell'impresa. Difficile e vano spiegare la sensazione che si prova quando finalmente si penetra dentro D'Arrigo. All'inizio ti ingolfi, sputacchi l'acqua salata che trasuda dalle pagine. Dici, e che minchia, non ce la farò mai. Poi la chiave gira.

A me è capitato con Cata, la vedova bianca di marinaro che quando doveva diventare femmina e femmina tutta si vede scippare marito e flauto di pelle dalla Guerra. Resta sul letto senza il suo piacere tanto atteso. Allora resta prigioniera dell'idea di marinaro e la vecchia Jacoma se la tira dietro in cerca di un marinaro che con argomenti di mascolo riesca a ridarle sorriso e sapienza.

Jacoma ha pure scoperto che Cata pipìa solo sul mascherone del Duce, un'icona di gesso già ammolliata dal piscio della femminota bella e perduta. Ecco, quando Cata sparisce tra i bergamotti per pipiare sul mascherone la chiave è girata e anche la lettura ha subito un'accelerata. Da dieci pagine faticosamente attraversate la mia favea oculare è schizzata verso la centinaia e ora a 264 aspetto il momento in cui riaprirò il libro per continuare a viaggiare con 'Ndrìa, lì, tra Scilla e Cariddi.

Ci sono personaggi vivi e viventi, lo spiaggiatore vestito di tutte le divise di tutte le guerre, le femminote, il piccolo Duardo e Ndrìa che cercano confetti e trovvano un "muccusello" morto con lo spadino e la medaglietta della comunione, ci sono soprattutto le fere che gli altri chiamano delfino, ma delfino è delfino, la fera è fera. Con una discussione sul nome e sul senso dei nomi che non sfigura il confronto col Cratilo platonico, il dialogo che il maestro del Maestro di color che sanno dedicò proprio al problema dei nomi e delle cose.

La scena più bella, sinora, è quella dei pellisquadre che si vendicano delle fere dopo l'ennesimo atto di sfida, arriva la nave del Fascio che va verso l'Abissinia, il gerarca intima di liberare il delfino femmina, il padre di Ndrìa è obbligato a recitare un inno al delfino che nulla ha della cattiveria da cristiani che muove la fera, sordida e cattiva coi suoi 264 dentuzzi affilati.

E sogna Ndrìa sogna il cimitero delle fere, sogna di tornare in Sicilia, e il mare è lì, sempre uguale che rigurgita fere che vanno a riempire le pancie col loro mollame. E il professore di messina cerca le uova delle anguilla... Lo volevo condividere, col sorriso di chi ha altre 800 pagine da leggere...

Leggendo D'Arrigo

Sto leggendo Horcynus Orca. Sono a un quinto dell'impresa. Difficile e vano spiegare la sensazione che si prova quando finalmente si penetra dentro D'Arrigo. All'inizio ti ingolfi, sputacchi l'acqua salata che trasuda dalle pagine. Dici, e che minchia, non ce la farò mai. Poi la chiave gira.

A me è capitato con Cata, la vedova bianca di marinaro che quando doveva diventare femmina e femmina tutta si vede scippare marito e flauto di pelle dalla Guerra. Resta sul letto senza il suo piacere tanto atteso. Allora resta prigioniera dell'idea di marinaro e la vecchia Jacoma se la tira dietro in cerca di un marinaro che con argomenti di mascolo riesca a ridarle sorriso e sapienza.

Jacoma ha pure scoperto che Cata pipìa solo sul mascherone del Duce, un'icona di gesso già ammolliata dal piscio della femminota bella e perduta. Ecco, quando Cata sparisce tra i bergamotti per pipiare sul mascherone la chiave è girata e anche la lettura ha subito un'accelerata. Da dieci pagine faticosamente attraversate la mia favea oculare è schizzata verso la centinaia e ora a 264 aspetto il momento in cui riaprirò il libro per continuare a viaggiare con 'Ndrìa, lì, tra Scilla e Cariddi.

Ci sono personaggi vivi e viventi, lo spiaggiatore vestito di tutte le divise di tutte le guerre, le femminote, il piccolo Duardo e Ndrìa che cercano confetti e trovvano un "muccusello" morto con lo spadino e la medaglietta della comunione, ci sono soprattutto le fere che gli altri chiamano delfino, ma delfino è delfino, la fera è fera. Con una discussione sul nome e sul senso dei nomi che non sfigura il confronto col Cratilo platonico, il dialogo che il maestro del Maestro di color che sanno dedicò proprio al problema dei nomi e delle cose.

La scena più bella, sinora, è quella dei pellisquadre che si vendicano delle fere dopo l'ennesimo atto di sfida, arriva la nave del Fascio che va verso l'Abissinia, il gerarca intima di liberare il delfino femmina, il padre di Ndrìa è obbligato a recitare un inno al delfino che nulla ha della cattiveria da cristiani che muove la fera, sordida e cattiva coi suoi 264 dentuzzi affilati.

E sogna Ndrìa sogna il cimitero delle fere, sogna di tornare in Sicilia, e il mare è lì, sempre uguale che rigurgita fere che vanno a riempire le pancie col loro mollame. E il professore di messina cerca le uova delle anguilla... Lo volevo condividere, col sorriso di chi ha altre 800 pagine da leggere...

I Barbari di Baricco





Baricco sta scrivendo un saggio a puntate, un giorno dopo l'altro su Repubblica, ha iniziato ieri:

"sarà un saggio, nel senso letterale del termine, cioè un tentativo: di pensare: scrivendo. Ci sono alcune cose che mi va di capire, a proposito di quel che sta succedendo qui intorno. Per "qui intorno" intendo la sottilissima porzione di mondo in cui mi muovo io: persone che hanno studiato, persone che stanno studiando, narratori, gente di spettacolo, intellettuali, cose così. Un mondaccio, per molti versi, ma alla fine è lì che le idee pascolano, ed è lì che sono stato seminato."

Il titolo fa riferimento alla celeberrima poesia di Kavafis, rilanciata da Celentano che l'ha fatta leggere a Depardieu nella prima puntata del suo show.






I Barbari di Baricco





Baricco sta scrivendo un saggio a puntate, un giorno dopo l'altro su Repubblica, ha iniziato ieri:

"sarà un saggio, nel senso letterale del termine, cioè un tentativo: di pensare: scrivendo. Ci sono alcune cose che mi va di capire, a proposito di quel che sta succedendo qui intorno. Per "qui intorno" intendo la sottilissima porzione di mondo in cui mi muovo io: persone che hanno studiato, persone che stanno studiando, narratori, gente di spettacolo, intellettuali, cose così. Un mondaccio, per molti versi, ma alla fine è lì che le idee pascolano, ed è lì che sono stato seminato."

Il titolo fa riferimento alla celeberrima poesia di Kavafis, rilanciata da Celentano che l'ha fatta leggere a Depardieu nella prima puntata del suo show.






domenica 7 maggio 2006

Leggo sul prode LetturaLenta:
---------------------------8<-----------------------------------------------

1. Il supplemento del sabato del quotidiano La Stampa (torinese come la fiera-salone) riprende il vecchio glorioso nome Tuttolibri e tornerà a occuparsi solo di libri ed editoria. Si tratta di un ritorno al passato. Da svariati anni, infatti, il supplemento si chiamava TTL, che - come spiega il precisissimo .mau. - stava per Tuttolibri Tempo Libero e includeva sezioni dedicate a viaggi, gastronomia e altri temi culturali.

 2. L’altrettanto vecchio e glorioso sito librialice.it (che una volta si chiamava alice.it, dominio poi ceduto alla Telecom) si suicida per far sorgere dalle sue ceneri Wuz, un portale che a differenza del defunto si occuperà non solo di libri, ma anche di cinema, musica e attualità.

[...] Eppure Tuttolibri non è uguale a TTL e Wuz non è uguale a librialice.it. Cambiare i nomi è il primo passo per cambiare le cose.

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Aggiungo di passaggio il fermento sulla possibilità di Vibrisse Rivista, quello che fu un bollettino e che poco a poco è diventato il portalino di letture e scritture (anche se a quest'ultimo versante, in verità carente, si pensa di dedicare una Bottega di Scrittura che faccia il paio con la Bottega di Lettura di cui anch'io faccio parte).

Qualcosa si muove, anche in BombaCarta che è diventato un sito collettivo che cerca di dar voce alle 9 realtà che ne compongono la Federazione.
Leggo sul prode LetturaLenta:
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1. Il supplemento del sabato del quotidiano La Stampa (torinese come la fiera-salone) riprende il vecchio glorioso nome Tuttolibri e tornerà a occuparsi solo di libri ed editoria. Si tratta di un ritorno al passato. Da svariati anni, infatti, il supplemento si chiamava TTL, che - come spiega il precisissimo .mau. - stava per Tuttolibri Tempo Libero e includeva sezioni dedicate a viaggi, gastronomia e altri temi culturali.

 2. L’altrettanto vecchio e glorioso sito librialice.it (che una volta si chiamava alice.it, dominio poi ceduto alla Telecom) si suicida per far sorgere dalle sue ceneri Wuz, un portale che a differenza del defunto si occuperà non solo di libri, ma anche di cinema, musica e attualità.

[...] Eppure Tuttolibri non è uguale a TTL e Wuz non è uguale a librialice.it. Cambiare i nomi è il primo passo per cambiare le cose.

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Aggiungo di passaggio il fermento sulla possibilità di Vibrisse Rivista, quello che fu un bollettino e che poco a poco è diventato il portalino di letture e scritture (anche se a quest'ultimo versante, in verità carente, si pensa di dedicare una Bottega di Scrittura che faccia il paio con la Bottega di Lettura di cui anch'io faccio parte).

Qualcosa si muove, anche in BombaCarta che è diventato un sito collettivo che cerca di dar voce alle 9 realtà che ne compongono la Federazione.

Sabato sera nel senso ultimo della letteratura

C'è chi pianta e trapianta cactus, chi mastica istanti perduti, chi passeggia con Beckett e chi fallisce l'ennesima retromarcia  con la pancia pesante di Messico, fracassando la porta chiusa del garage. Succede anche questo di sabato. Leggo e rileggo libri che sparlano e riparlano di lettura e di vuoti da riempire con il bagaglio d'esperienze fatte o da fare.

Che tanto, conclude bene Lavagetto nel suo Eutanasia della critica: "Qualcosa che è sotto gli occhi di tutti, che è letteralmente nascosto nelle superfici, tra una frase e l'altra: non un fantasma o un'ipostasi, ma qualcosa che c'è, che è testo che è lettera, è dispositivo e materia, è la trama e il tessuto che ci corre tra le mani, E' anche il senso ultimo della letteratura".

Leggo Horcynus Orca, riemergo e ve lo dico. Prima o poi.

Sabato sera nel senso ultimo della letteratura

C'è chi pianta e trapianta cactus, chi mastica istanti perduti, chi passeggia con Beckett e chi fallisce l'ennesima retromarcia  con la pancia pesante di Messico, fracassando la porta chiusa del garage. Succede anche questo di sabato. Leggo e rileggo libri che sparlano e riparlano di lettura e di vuoti da riempire con il bagaglio d'esperienze fatte o da fare.

Che tanto, conclude bene Lavagetto nel suo Eutanasia della critica: "Qualcosa che è sotto gli occhi di tutti, che è letteralmente nascosto nelle superfici, tra una frase e l'altra: non un fantasma o un'ipostasi, ma qualcosa che c'è, che è testo che è lettera, è dispositivo e materia, è la trama e il tessuto che ci corre tra le mani, E' anche il senso ultimo della letteratura".

Leggo Horcynus Orca, riemergo e ve lo dico. Prima o poi.

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