lunedì 26 aprile 2004

IT Il terrore che...

IT
Il terrore che sarebbe durato ventotto anni, ma forse di più, ebbe inizio, per quel che mi è dato di sapere e narrare, con una barchetta di carta di giornale che scendeva lungo un marciapiede in un rivolo gonfio di pioggia.
S. King


Lo straniero
Oggi la mamma è morta, o forse ieri, non so.
Albert Camus 

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IT
Il terrore che sarebbe durato ventotto anni, ma forse di più, ebbe inizio, per quel che mi è dato di sapere e narrare, con una barchetta di carta di giornale che scendeva lungo un marciapiede in un rivolo gonfio di pioggia.
S. King


Lo straniero
Oggi la mamma è morta, o forse ieri, non so.
Albert Camus 

domenica 18 aprile 2004

Che cosa c'è tra le ...

Che cosa c'è tra le cose umane che viva a lungo o abbia una durata consistente? Soltanto per la nostra debolezza e per la brevità della nostra vita, a mio giudizio, anche queste ci appaiono grandi. (B106) Se si prende in considerazione ciò, chi potrebbe allora pensare di essere felice e beato, - chi fra noi, che tutti, fin dal principio (come si dice quando si è iniziati ai misteri), siamo costruiti dalla natura come se dovessimo portare una pena? Perchè davvero divina è la parola degli antichi, quando dicono che l'anima deve pagare una pena, e che noi viviamo per l'espiazione di un qualche grande peccato. (B107) Mi sembra che questa immagine esprima bene l'unione dell'anima con il corpo: come si racconta che i prigionieri dei Tirreni spesso vengono sottoposti alla tortura di essere legati vivi a dei cadaveri, con il viso contro il viso e le membra unite insieme con le membra, allo stesso modo anche l'anima sembra distesa e incatenata a tutte le membra sensibili del corpo. (B108) Per gli uomini non c'è dunque nulla di divino e di beato, all'infuori di quell'unica cosa che sola merita i nostri sforzi, cioè quanto esiste in noi di intelligenza e capacità della mente. Di tutto ciò che è nostro, questo solo sembra incorruttibile, questo solo divino. (B109) Grazie alla nostra possibilità di partecipare di questa facoltà, la nostra vita, sebbene per natura misera e penosa, è così magnificamente ordinata che l'uomo, a paragone di degli altri esseri viventi, sembra essere un dio. (B110) Perchè giustamente dicono i poeti che "il nous è il dio in noi", e la "vita umana conserva qualche parte di un dio in sè". Si deve dunque filosofare, oppure congedarsi dalla vita e dipartirsi di qui; perchè ogni altra cosa appare soltanto chiacchiera insensata e vana diceria.


Aristotele, Protreptico

Ennesimo restyling p...

Ennesimo restyling per la virulenta bombasicilia. Fateci un giro...

Che cosa c'&egrave; tra le ...

Che cosa c'è tra le cose umane che viva a lungo o abbia una durata consistente? Soltanto per la nostra debolezza e per la brevità della nostra vita, a mio giudizio, anche queste ci appaiono grandi. (B106) Se si prende in considerazione ciò, chi potrebbe allora pensare di essere felice e beato, - chi fra noi, che tutti, fin dal principio (come si dice quando si è iniziati ai misteri), siamo costruiti dalla natura come se dovessimo portare una pena? Perchè davvero divina è la parola degli antichi, quando dicono che l'anima deve pagare una pena, e che noi viviamo per l'espiazione di un qualche grande peccato. (B107) Mi sembra che questa immagine esprima bene l'unione dell'anima con il corpo: come si racconta che i prigionieri dei Tirreni spesso vengono sottoposti alla tortura di essere legati vivi a dei cadaveri, con il viso contro il viso e le membra unite insieme con le membra, allo stesso modo anche l'anima sembra distesa e incatenata a tutte le membra sensibili del corpo. (B108) Per gli uomini non c'è dunque nulla di divino e di beato, all'infuori di quell'unica cosa che sola merita i nostri sforzi, cioè quanto esiste in noi di intelligenza e capacità della mente. Di tutto ciò che è nostro, questo solo sembra incorruttibile, questo solo divino. (B109) Grazie alla nostra possibilità di partecipare di questa facoltà, la nostra vita, sebbene per natura misera e penosa, è così magnificamente ordinata che l'uomo, a paragone di degli altri esseri viventi, sembra essere un dio. (B110) Perchè giustamente dicono i poeti che "il nous è il dio in noi", e la "vita umana conserva qualche parte di un dio in sè". Si deve dunque filosofare, oppure congedarsi dalla vita e dipartirsi di qui; perchè ogni altra cosa appare soltanto chiacchiera insensata e vana diceria.


Aristotele, Protreptico

Ennesimo restyling p...

Ennesimo restyling per la virulenta bombasicilia. Fateci un giro...

sabato 17 aprile 2004

Chi sono io, chi s...


Chi sono io, chi sei tu


Ho perso treni e donne,
sbagliato sogni,
disatteso speranze.
Ora subisco silenzi.
La giacca nera l'ho usata per troppi funerali
e al mio non ci sarò.
Inscatolati in legno vellutato
per capire - troppo presto -
che non serve a nulla
posteggiare tra due macchine, capire Kant
e il momento giusto per l'arrocco.
Ricorderò copertine e profumi
di libri,
di reggiseni,
di stilografiche.
Alla fine non capirò mai
chi sono io, chi sei tu.

Chi sono io, chi s...


Chi sono io, chi sei tu


Ho perso treni e donne,
sbagliato sogni,
disatteso speranze.
Ora subisco silenzi.
La giacca nera l'ho usata per troppi funerali
e al mio non ci sarò.
Inscatolati in legno vellutato
per capire - troppo presto -
che non serve a nulla
posteggiare tra due macchine, capire Kant
e il momento giusto per l'arrocco.
Ricorderò copertine e profumi
di libri,
di reggiseni,
di stilografiche.
Alla fine non capirò mai
chi sono io, chi sei tu.

venerdì 16 aprile 2004

L'invenzione di se s...

L'invenzione di se stessi


[...] Scoprire se stessi è impossibile, bisogna inventare se stessi. Roth ha inventato se stesso in ogni libro , chiuso da solo in una camera davanti alla sua macchina per scrivere. Nella sua casa di Torino (la casa dove nacque), Primo Levi raccontò a Roth che la sua scrivania «occupa secondo la leggenda familiare, esattamente il punto in cui io sono venuto alla luce». Il particolare colpì Roth. Credo che gli abbia risvegliato un vecchio sospetto: che l'atto di scrivere è misteriosamente collegato all'atto di nascere. E' l'invenzione di se stessi.


Antonio D'Orrico, da "Il caso Roth", Sette n. 16 - 2004, pag. 92

L'invenzione di se s...

L'invenzione di se stessi


[...] Scoprire se stessi è impossibile, bisogna inventare se stessi. Roth ha inventato se stesso in ogni libro , chiuso da solo in una camera davanti alla sua macchina per scrivere. Nella sua casa di Torino (la casa dove nacque), Primo Levi raccontò a Roth che la sua scrivania «occupa secondo la leggenda familiare, esattamente il punto in cui io sono venuto alla luce». Il particolare colpì Roth. Credo che gli abbia risvegliato un vecchio sospetto: che l'atto di scrivere è misteriosamente collegato all'atto di nascere. E' l'invenzione di se stessi.


Antonio D'Orrico, da "Il caso Roth", Sette n. 16 - 2004, pag. 92

martedì 13 aprile 2004

John Fante, la vita ...

John Fante, la vita
raccontata con talento
di ALESSANDRO BARICCO



stimoli per macchiafogliChiedi alla polvere è un romanzo costruito su tre storie. Prima: un ventenne sogna di diventare uno scrittore e in effetti lo diventa. Seconda: un ventenne cattolico cerca di vivere nonostante il fatto di essere cattolico. Terza: un ventenne italoamericano si innamora di una ragazza ispanoamericana e cerca di sposarla. Il tutto a bagno nella California.


Immaginate di fondere le tre storie facendo convergere i tre ventenni (lo scrittore, il cattolico, l'italoamericano innamorato) in un unico ventenne e otterrete Arturo Bandini. Fatelo muovere e otterrete Chiedi alla polvere. Ammesso, naturalmente, che abbiate un talento bestiale.


Non so se lo fece consapevolmente, ma di fatto John Fante scelse per quelle tre storie un andamento sorprendentemente geometrico: la storia dello scrittore finisce bene, la storia del cattolico non finisce, resta bloccata su se stessa, e la storia dell'innamorato finisce male. Per cui il libro cresce seguendo l'armonico strabismo di un personaggio che vince pareggia e perde simultaneamente. Se il lettore avrà, ciò nondimeno, la percezione di un libro profondamente doloroso e addolorato, è per il modo con cui Fante, più o meno consapevolmente, distribuì le tre storie nel tessuto del libro. Chiedi alla polvere inizia raccontando le prime due (dove Bandini vince e pareggia): e lì il libro cresce nella luce gradevole di un'umanità fragile ma allegramente indistruttibile.


Con "Chiedi alla polvere" Einaudi Stile Libero inizia la pubblicazione delle opere di John Fante a cura di Emanuele Trevi. Anticipiamo parte dell'introduzione di Poi appare Camilla, e il libro viene risucchiato nella sua vertigine di sconfitta. Negli ultimi capitoli, i successi del Bandini scrittore e le paludi immobili del suo cattolicume, accompagnano l'inabissamento di Camilla come scenari sempre più lontani e inessenziali. Con metamorfosi da insetto, il libro esce dal bozzolo di un allegro diario giovanile per volare il volo di una adulta disfatta senza rimedio. Vedi cosa può fare una cameriera messicana...


La storia del ventenne che sogna di diventare uno scrittore è molto lineare, semplice e corredata di lieto fine. A chi sia imbarcato in simili ambizioni, essa regala, nondimeno, alcune utili lezioni. La prima riguarda il rapporto tra scrivere e denaro. Bandini scrive per fare denaro: non per esprimersi, non per fare qualcosa di bello, forse neppure per dimostrare qualcosa a qualcuno. Scrive perché ha fame e vuole mangiare, perché è solo e vuole donne ricche e profumate, perché intorno a sé vede Los Angeles e vuole possederla. Molto pragmatico e molto americano. Non è che le cose, in genere, stiano esattamente così, ma la connessione tra il gesto dello scrivere e il gesto dell'artigiano che lavora per campare è un buon punto di partenza. Tutto il resto, se mai, viene dopo. In questo credo che avesse ragione lui.


Altra bella lezione: scrivere è un'ossessione. Anche qui, non è che le cose stiano sempre così, ma certo un'assurda propensione a ridurre la vita a un concept eventualmente buono per un racconto è spesso alla base dell'ambizione letteraria. "Sono qui per una ragione ben precisa; questi momenti - il lato brutto della vita - si trasformeranno in altrettante pagine". Gente così in genere sconta una certa micidiale incapacità a viverla, la vita, già che è per lo più occupata a copiarla mentalmente e a dividerla in capitoli. A un certo punto Bandini finisce tra le onde, davanti alla spiaggia di Santa Monica, e se la vede davvero brutta. Sta per morire, e probabilmente sta per morire anche Camilla, il suo amore, scomparsa tra i cavalloni. L'unica cosa che dovrebbe fare sarebbe trovare un modo di salvare la pelle. "Eppure, anche in quel momento, era come stessi scrivendo, come se stessi registrando tutto sulla carta. Davanti agli occhi avevo il foglio dattiloscritto, mentre fluttuavo, sbattuto dalle onde, senza riuscire a raggiungere la costa, sicuro che non ne sarei uscito vivo".


Chi non capisce una follia del genere ha poche probabilità di campare facendo lo scrittore. Fante la conosceva, credo, benissimo, e anzi ne fece la musica su cui ballare tutta la sua vita.


Ultima lezione: il prologo che qui trovate in appendice. Fante voleva metterlo in testa al libro (prologo, appunto) ma l'editore lo convinse a lasciar perdere (ed è difficile dargli torto, visto che racconta al lettore come il libro va a finire...). Fante ci riversò dentro, in forma piuttosto libera, tutto il materiale autobiografico da cui nasce Chiedi alla polvere.


La seconda storia, quella del ventenne cattolico che cerca di vivere nonostante il fatto di essere cattolico, è forse la storia che avrebbe potuto far diventare Chiedi alla polvere qualcosa di più di una riuscita commedia tragica. Purtroppo l'arrivo di Camilla e la forza della conseguente storia d'amore si portano via il libro, e la riflessione sulle tare di una giovane mente cattolica rimane un enunciato senza grandi sviluppi. Sarebbe stato bello vederla andare fino in fondo. Già l'enunciato, comunque, vale la pena. Quello che ha Bandini, di inesorabilmente cattolico, è l'istinto a interpretare la vita come una sequenza di colpa e castigo, destinata a ripetersi all'infinito. Quello che ha Bandini, di inesorabilmente cattolico, è l'odio per un simile modo di vedere le cose, e un'incapacità assoluta a sottrarvisi. Non so cosa il pubblico americano di Fante potesse capire di tutto questo perché se uno non è cresciuto in un paese cattolico non può sapere come quella geometria da giudizio finale si infili nelle pieghe più recondite della fantasia, e sopravviva a qualsiasi sincero ateismo. Ma Fante ne sapeva qualcosa. E la sua ricostruzione del curioso fenomeno è implacabile, e ironicamente feroce.


Si può dire che nei primi quattro capitoli Bandini non faccia altro che cercare di essere un bambino cattivo, pensiero fisso di qualsiasi bravo bambino: va a puttane, poi ruba, poi maltratta a colpi di razzismo una ragazza che non gli ha fatto niente. Una specie di cammino di formazione al contrario. Punteggiato, inesorabilmente, da fallimenti: il complesso di colpa arriva istantaneo, a volte ancor prima di commettere il peccato, rendendo incapaci di commetterlo. Nel dodicesimo capitolo Bandini finisce a letto con una donna sbagliata, una donna fragile a cui non può che fare del male. La usa, insomma. Al mattino si alza dal letto, esce, e la terra si mette a tremare: terremoto a Los Angeles. "Ero stato io. Era mia la colpa". Non credo che a un buddista verrebbe in mente. Neanche a un protestante. A un cattolico sì. "Sei stato tu, Arturo, e questa è la collera di Dio".


Quel che aveva capito Fante è che una simile incapacità di peccare non può che esiliare dalla vita. E lo scrisse mirabilmente nel personaggio di Bandini fino a metà del libro: facendone un tipo umano con una ossessiva domanda stampata in testa: cosa ci faccio io qui? Ovunque vada, Bandini vorrebbe andarsene. "Ora che ero qui, sapevo che non sarei dovuto venire". Si può dire che la scrittura sia l'unico posto in cui si senta legittimato a dimorare. Il resto del mondo è un posto sbagliato. Molti anni dopo, sull'altra costa americana, Holden Caufield porterà in giro, con analoga ironia, lo stesso sordo dolore (senza nemmeno la panacea della scrittura). Lui sarà però quel che Bandini non riuscì a essere: un personaggio universale. Perché il suo esilio era l'esilio dell'umano, che non riconosce la casa che si è costruito: in Bandini, le radici dell'estraniamento erano più, per così dire, regionali: la matrice cattolica faceva la parte del leone, e riportava tutto a una matrice particolare, quasi locale: non era esattamente la storia che i più riconoscevano. Quella di Holden ce l'avevano tutti in tasca.


Poi arriva Camilla, e in qualche modo, Bandini riassume e semplifica tutta la sua incapacità di vivere nella sua incapacità di amarla. In un certo senso smette di lottare. Camilla è il posto sbagliato in cui decide di restare, senza farsi più domande, esule cronico, vada come deve andare, come un automa fino in fondo. Ma non è una storia vissuta. Camilla è il suo esilio definitivo, la resa di qualsiasi ribellione. Sopravvivono, come tuoni di un temporale in allontanamento, quegli amplessi falliti, quell'incapacità di fare sesso con lei, quell'impotenza prevista, attesa, sofferta e odiata. Mi piace che in quei momenti Fante alzi il piede dall'acceleratore, posi il bisturi con cui stava operando e scelga eufemismi kitsch pur di non chiamare le cose col loro nome. "Desiderio senza passione", le chiama. Bisogna avere sangue cattolico nelle vene per essere capaci di dribbling del genere.
Quanto alla storia d'amore, be', lì c'è poco da dire. Gli era venuta veramente bene. Tutta sghemba, senza eroi, irrisolvibile, un po' ambigua, dolorosa. Mi piace che lei sia una di cui si può dire: "A parte il contorno del viso e il candore dei denti, non era bella". Mi piace che lui, quando finisce a letto con lei, si prende dei fugoni mentali che lo portano a chilometri da lì. Che poi la ama da pazzi, ma proprio non ci riesce a restare lì. "Mi parve di essere diventato di legno, senza più sentimenti, se non il panico e la sensazione che lei fosse troppo bella per me, anzi, più bella e salda di me. Mi rese estraneo a me stesso".


Forse le cose stanno esattamente così: quelli che vale la pena di amare veramente sono quelli che ti rendono estraneo a te stesso. Quelli che riescono a estirparti dal tuo habitat e dal tuo viaggio, e ti trapiantano in un altro ecosistema, riuscendo a tenerti in vita in quella giungla che non conosci e dove certamente moriresti se non fosse che loro sono lì e ti insegnano i passi i gesti e le parole: e tu, contro ogni previsione, sei in grado di ripeterli.


Ma poi chissà? Due note sullo stile di Fante, tanto per capire l'artigiano e il suo gesto. In Chiedi alla polvere Fante usa una lingua letteraria che conosce sostanzialmente due registri, e li alterna con sapienza. Il primo è una sua lingua standard, per così dire il Fante-base: una prosa filante, leggera, senza particolari asprezze lessicali o sintattiche, pulita, veloce, spesso lubrificata da un humour dispensato con mano leggera, abilissima. Valga come esempio, l'incipit:
Una sera me ne stavo a sedere nel letto della mia stanza d'albergo, a Bunker Hill, nel cuore di Los Angeles. Era un momento importante della mia vita; dovevo prendere una decisione nei confronti dell'albergo. O pagavo o me ne andavo: così diceva il biglietto che la padrona mi aveva infilato sotto la porta. Era un bel problema, degno della massima attenzione. Lo risolsi spegnendo la luce e andandomene a letto.


Se leggi un inizio del genere è immediatamente chiaro che non è Faulkner quel che stai leggendo. Ma nemmeno Chandler (non aveva quella sobrietà) o Saroyan (non aveva quello humour) o Steinbeck (sicuramente più ambizioso) o Hemingway (difficile anche per lui mettere nella prime righe tutto quello humour). Insomma, la lingua-base di Fante sembra stare al di qua delle ambizioni di una letteratura spinta, e si assesta su una sua medietà espressiva da abilissimo artigiano. Scioltezza, facilità e humour sembrano esserne i tratti distintivi, e in questo senso, lui sembra piuttosto un anticipatore di quell'aurea leggerezza che fece la fortuna di Salinger.


Al suo meglio riesce a produrre pagine come quella in cui Bandini arriva alla reception dell'albergo Alta Loma: ha in borsa il suo primo racconto pubblicato (Il cagnolino rise) e dietro al bancone trova la signora Hargraves.
- Ha un lavoro? - mi chiese.
- Faccio lo scrittore, - le risposi. - Guardi un po' qui.
Aprii la valigia ed estrassi una copia della rivista. - L'ho scritto io, - le dissi. Ero un entusiasta, a quei tempi. - Gliene regalo una copia, - le dissi. - Aspetti che gliela firmo.


Presi una stilografica dal banco, ma era senza inchiostro e dovetti intingerla. Mi passai la lingua sulle labbra, pensando a qualcosa di carino da scrivere. - Come si chiama? - le chiesi. Me lo disse a malincuore. - Sono la signora Hargraves. Perché? - Ma era un onore quello che le facevo e non avevo tempo di rispondere alle sue domande, così scrissi in cima alla prima pagina: "A una donna di fascino ineffabile, con gli occhi azzurri e il sorriso generoso, l'autore, Arturo Bandini".


Mi rivolse un sorriso che parve ferirle la faccia, riaprendo vecchie incrinature che le segnarono la carne arida attorno alla bocca e sulle guance. - Non tollero i racconti sui cani, - mi disse, imboscando la rivista. Mi guardò da un punto ancora più in alto, al di sopra degli occhiali. - Giovanotto, - mi disse. - È messicano, per caso?


Mi indicai e mi misi a ridere.
- Messicano, io? - scossi il capo. - Sono americano, signora Hargraves. E quello non è un racconto sui cani. Parla di un uomo e non è niente male. Non c'è nemmeno un cane, lì dentro.
- Non ospitiamo messicani in questo albergo, - insisté.
- Non sono messicano. Il titolo l'ho tratto da una favola. E il cagnolino rise a vedere un simile spasso.
- E nemmeno ebrei, - concluse. Pagina esemplare. Uno strike perfetto, se solo la letteratura fosse un bowling.


L'altro registro è un tono, per così dire, da ballata: più libero, meno disciplinato, quasi "cantato". Generalmente lo humour sparisce e irrompono toni dal sapore poetico. Le frasi si allungano e si vanno a cercare un passo e una rotondità musicali. Ballate, in tutto e per tutto. Non durano mai più di una pagina, una pagina e mezza. Spesso sono una faccenda lunga dieci righe. Esempio: Che fare allora? Alzerò la faccia al cielo, balbettando e farfugliando con voce impaurita? Mi scoprirò il petto e lo percuoterò come un tamburo per attirare l'attenzione del mio Cristo? O non è forse più ragionevole che io mi ricopra e continui il cammino? Ci saranno momenti di confusione e momenti di desiderio, e altri in cui la mia solitudine verrà alleviata solo dalle lacrime che, come uccellini bagnati, cadranno ad ammorbidire le mie labbra aride. Ma ci sarà consolazione e ci sarà bellezza, come l'amore di qualche fanciulla morta?


Capita d'incontrare simili ballate improvvise, seminate in pagine di scrittura completamente diversa, anche in Hemingway, in Saroyan, in Steinbeck. In un certo senso anche gli "Occhi fotografici" di Dos Passos erano una cosa del genere. Non so, deve essere una perversione degli americani. Ha qualcosa di ingenuo e vagamente non riuscito. Però se uno la tagliasse via, semplicemente, chissà che ne sarebbe degli equilibri interni, e del colore complessivo, e del profilo dei personaggi. Sono come orchestre, quelle scritture. Hai un bel dire togliamo i tromboni che il trombone mi fa schifo. Prova...


(© La Repubblica, 11 aprile 2004)

John Fante, la vita ...

John Fante, la vita
raccontata con talento
di ALESSANDRO BARICCO



stimoli per macchiafogliChiedi alla polvere è un romanzo costruito su tre storie. Prima: un ventenne sogna di diventare uno scrittore e in effetti lo diventa. Seconda: un ventenne cattolico cerca di vivere nonostante il fatto di essere cattolico. Terza: un ventenne italoamericano si innamora di una ragazza ispanoamericana e cerca di sposarla. Il tutto a bagno nella California.


Immaginate di fondere le tre storie facendo convergere i tre ventenni (lo scrittore, il cattolico, l'italoamericano innamorato) in un unico ventenne e otterrete Arturo Bandini. Fatelo muovere e otterrete Chiedi alla polvere. Ammesso, naturalmente, che abbiate un talento bestiale.


Non so se lo fece consapevolmente, ma di fatto John Fante scelse per quelle tre storie un andamento sorprendentemente geometrico: la storia dello scrittore finisce bene, la storia del cattolico non finisce, resta bloccata su se stessa, e la storia dell'innamorato finisce male. Per cui il libro cresce seguendo l'armonico strabismo di un personaggio che vince pareggia e perde simultaneamente. Se il lettore avrà, ciò nondimeno, la percezione di un libro profondamente doloroso e addolorato, è per il modo con cui Fante, più o meno consapevolmente, distribuì le tre storie nel tessuto del libro. Chiedi alla polvere inizia raccontando le prime due (dove Bandini vince e pareggia): e lì il libro cresce nella luce gradevole di un'umanità fragile ma allegramente indistruttibile.


Con "Chiedi alla polvere" Einaudi Stile Libero inizia la pubblicazione delle opere di John Fante a cura di Emanuele Trevi. Anticipiamo parte dell'introduzione di Poi appare Camilla, e il libro viene risucchiato nella sua vertigine di sconfitta. Negli ultimi capitoli, i successi del Bandini scrittore e le paludi immobili del suo cattolicume, accompagnano l'inabissamento di Camilla come scenari sempre più lontani e inessenziali. Con metamorfosi da insetto, il libro esce dal bozzolo di un allegro diario giovanile per volare il volo di una adulta disfatta senza rimedio. Vedi cosa può fare una cameriera messicana...


La storia del ventenne che sogna di diventare uno scrittore è molto lineare, semplice e corredata di lieto fine. A chi sia imbarcato in simili ambizioni, essa regala, nondimeno, alcune utili lezioni. La prima riguarda il rapporto tra scrivere e denaro. Bandini scrive per fare denaro: non per esprimersi, non per fare qualcosa di bello, forse neppure per dimostrare qualcosa a qualcuno. Scrive perché ha fame e vuole mangiare, perché è solo e vuole donne ricche e profumate, perché intorno a sé vede Los Angeles e vuole possederla. Molto pragmatico e molto americano. Non è che le cose, in genere, stiano esattamente così, ma la connessione tra il gesto dello scrivere e il gesto dell'artigiano che lavora per campare è un buon punto di partenza. Tutto il resto, se mai, viene dopo. In questo credo che avesse ragione lui.


Altra bella lezione: scrivere è un'ossessione. Anche qui, non è che le cose stiano sempre così, ma certo un'assurda propensione a ridurre la vita a un concept eventualmente buono per un racconto è spesso alla base dell'ambizione letteraria. "Sono qui per una ragione ben precisa; questi momenti - il lato brutto della vita - si trasformeranno in altrettante pagine". Gente così in genere sconta una certa micidiale incapacità a viverla, la vita, già che è per lo più occupata a copiarla mentalmente e a dividerla in capitoli. A un certo punto Bandini finisce tra le onde, davanti alla spiaggia di Santa Monica, e se la vede davvero brutta. Sta per morire, e probabilmente sta per morire anche Camilla, il suo amore, scomparsa tra i cavalloni. L'unica cosa che dovrebbe fare sarebbe trovare un modo di salvare la pelle. "Eppure, anche in quel momento, era come stessi scrivendo, come se stessi registrando tutto sulla carta. Davanti agli occhi avevo il foglio dattiloscritto, mentre fluttuavo, sbattuto dalle onde, senza riuscire a raggiungere la costa, sicuro che non ne sarei uscito vivo".


Chi non capisce una follia del genere ha poche probabilità di campare facendo lo scrittore. Fante la conosceva, credo, benissimo, e anzi ne fece la musica su cui ballare tutta la sua vita.


Ultima lezione: il prologo che qui trovate in appendice. Fante voleva metterlo in testa al libro (prologo, appunto) ma l'editore lo convinse a lasciar perdere (ed è difficile dargli torto, visto che racconta al lettore come il libro va a finire...). Fante ci riversò dentro, in forma piuttosto libera, tutto il materiale autobiografico da cui nasce Chiedi alla polvere.


La seconda storia, quella del ventenne cattolico che cerca di vivere nonostante il fatto di essere cattolico, è forse la storia che avrebbe potuto far diventare Chiedi alla polvere qualcosa di più di una riuscita commedia tragica. Purtroppo l'arrivo di Camilla e la forza della conseguente storia d'amore si portano via il libro, e la riflessione sulle tare di una giovane mente cattolica rimane un enunciato senza grandi sviluppi. Sarebbe stato bello vederla andare fino in fondo. Già l'enunciato, comunque, vale la pena. Quello che ha Bandini, di inesorabilmente cattolico, è l'istinto a interpretare la vita come una sequenza di colpa e castigo, destinata a ripetersi all'infinito. Quello che ha Bandini, di inesorabilmente cattolico, è l'odio per un simile modo di vedere le cose, e un'incapacità assoluta a sottrarvisi. Non so cosa il pubblico americano di Fante potesse capire di tutto questo perché se uno non è cresciuto in un paese cattolico non può sapere come quella geometria da giudizio finale si infili nelle pieghe più recondite della fantasia, e sopravviva a qualsiasi sincero ateismo. Ma Fante ne sapeva qualcosa. E la sua ricostruzione del curioso fenomeno è implacabile, e ironicamente feroce.


Si può dire che nei primi quattro capitoli Bandini non faccia altro che cercare di essere un bambino cattivo, pensiero fisso di qualsiasi bravo bambino: va a puttane, poi ruba, poi maltratta a colpi di razzismo una ragazza che non gli ha fatto niente. Una specie di cammino di formazione al contrario. Punteggiato, inesorabilmente, da fallimenti: il complesso di colpa arriva istantaneo, a volte ancor prima di commettere il peccato, rendendo incapaci di commetterlo. Nel dodicesimo capitolo Bandini finisce a letto con una donna sbagliata, una donna fragile a cui non può che fare del male. La usa, insomma. Al mattino si alza dal letto, esce, e la terra si mette a tremare: terremoto a Los Angeles. "Ero stato io. Era mia la colpa". Non credo che a un buddista verrebbe in mente. Neanche a un protestante. A un cattolico sì. "Sei stato tu, Arturo, e questa è la collera di Dio".


Quel che aveva capito Fante è che una simile incapacità di peccare non può che esiliare dalla vita. E lo scrisse mirabilmente nel personaggio di Bandini fino a metà del libro: facendone un tipo umano con una ossessiva domanda stampata in testa: cosa ci faccio io qui? Ovunque vada, Bandini vorrebbe andarsene. "Ora che ero qui, sapevo che non sarei dovuto venire". Si può dire che la scrittura sia l'unico posto in cui si senta legittimato a dimorare. Il resto del mondo è un posto sbagliato. Molti anni dopo, sull'altra costa americana, Holden Caufield porterà in giro, con analoga ironia, lo stesso sordo dolore (senza nemmeno la panacea della scrittura). Lui sarà però quel che Bandini non riuscì a essere: un personaggio universale. Perché il suo esilio era l'esilio dell'umano, che non riconosce la casa che si è costruito: in Bandini, le radici dell'estraniamento erano più, per così dire, regionali: la matrice cattolica faceva la parte del leone, e riportava tutto a una matrice particolare, quasi locale: non era esattamente la storia che i più riconoscevano. Quella di Holden ce l'avevano tutti in tasca.


Poi arriva Camilla, e in qualche modo, Bandini riassume e semplifica tutta la sua incapacità di vivere nella sua incapacità di amarla. In un certo senso smette di lottare. Camilla è il posto sbagliato in cui decide di restare, senza farsi più domande, esule cronico, vada come deve andare, come un automa fino in fondo. Ma non è una storia vissuta. Camilla è il suo esilio definitivo, la resa di qualsiasi ribellione. Sopravvivono, come tuoni di un temporale in allontanamento, quegli amplessi falliti, quell'incapacità di fare sesso con lei, quell'impotenza prevista, attesa, sofferta e odiata. Mi piace che in quei momenti Fante alzi il piede dall'acceleratore, posi il bisturi con cui stava operando e scelga eufemismi kitsch pur di non chiamare le cose col loro nome. "Desiderio senza passione", le chiama. Bisogna avere sangue cattolico nelle vene per essere capaci di dribbling del genere.
Quanto alla storia d'amore, be', lì c'è poco da dire. Gli era venuta veramente bene. Tutta sghemba, senza eroi, irrisolvibile, un po' ambigua, dolorosa. Mi piace che lei sia una di cui si può dire: "A parte il contorno del viso e il candore dei denti, non era bella". Mi piace che lui, quando finisce a letto con lei, si prende dei fugoni mentali che lo portano a chilometri da lì. Che poi la ama da pazzi, ma proprio non ci riesce a restare lì. "Mi parve di essere diventato di legno, senza più sentimenti, se non il panico e la sensazione che lei fosse troppo bella per me, anzi, più bella e salda di me. Mi rese estraneo a me stesso".


Forse le cose stanno esattamente così: quelli che vale la pena di amare veramente sono quelli che ti rendono estraneo a te stesso. Quelli che riescono a estirparti dal tuo habitat e dal tuo viaggio, e ti trapiantano in un altro ecosistema, riuscendo a tenerti in vita in quella giungla che non conosci e dove certamente moriresti se non fosse che loro sono lì e ti insegnano i passi i gesti e le parole: e tu, contro ogni previsione, sei in grado di ripeterli.


Ma poi chissà? Due note sullo stile di Fante, tanto per capire l'artigiano e il suo gesto. In Chiedi alla polvere Fante usa una lingua letteraria che conosce sostanzialmente due registri, e li alterna con sapienza. Il primo è una sua lingua standard, per così dire il Fante-base: una prosa filante, leggera, senza particolari asprezze lessicali o sintattiche, pulita, veloce, spesso lubrificata da un humour dispensato con mano leggera, abilissima. Valga come esempio, l'incipit:
Una sera me ne stavo a sedere nel letto della mia stanza d'albergo, a Bunker Hill, nel cuore di Los Angeles. Era un momento importante della mia vita; dovevo prendere una decisione nei confronti dell'albergo. O pagavo o me ne andavo: così diceva il biglietto che la padrona mi aveva infilato sotto la porta. Era un bel problema, degno della massima attenzione. Lo risolsi spegnendo la luce e andandomene a letto.


Se leggi un inizio del genere è immediatamente chiaro che non è Faulkner quel che stai leggendo. Ma nemmeno Chandler (non aveva quella sobrietà) o Saroyan (non aveva quello humour) o Steinbeck (sicuramente più ambizioso) o Hemingway (difficile anche per lui mettere nella prime righe tutto quello humour). Insomma, la lingua-base di Fante sembra stare al di qua delle ambizioni di una letteratura spinta, e si assesta su una sua medietà espressiva da abilissimo artigiano. Scioltezza, facilità e humour sembrano esserne i tratti distintivi, e in questo senso, lui sembra piuttosto un anticipatore di quell'aurea leggerezza che fece la fortuna di Salinger.


Al suo meglio riesce a produrre pagine come quella in cui Bandini arriva alla reception dell'albergo Alta Loma: ha in borsa il suo primo racconto pubblicato (Il cagnolino rise) e dietro al bancone trova la signora Hargraves.
- Ha un lavoro? - mi chiese.
- Faccio lo scrittore, - le risposi. - Guardi un po' qui.
Aprii la valigia ed estrassi una copia della rivista. - L'ho scritto io, - le dissi. Ero un entusiasta, a quei tempi. - Gliene regalo una copia, - le dissi. - Aspetti che gliela firmo.


Presi una stilografica dal banco, ma era senza inchiostro e dovetti intingerla. Mi passai la lingua sulle labbra, pensando a qualcosa di carino da scrivere. - Come si chiama? - le chiesi. Me lo disse a malincuore. - Sono la signora Hargraves. Perché? - Ma era un onore quello che le facevo e non avevo tempo di rispondere alle sue domande, così scrissi in cima alla prima pagina: "A una donna di fascino ineffabile, con gli occhi azzurri e il sorriso generoso, l'autore, Arturo Bandini".


Mi rivolse un sorriso che parve ferirle la faccia, riaprendo vecchie incrinature che le segnarono la carne arida attorno alla bocca e sulle guance. - Non tollero i racconti sui cani, - mi disse, imboscando la rivista. Mi guardò da un punto ancora più in alto, al di sopra degli occhiali. - Giovanotto, - mi disse. - È messicano, per caso?


Mi indicai e mi misi a ridere.
- Messicano, io? - scossi il capo. - Sono americano, signora Hargraves. E quello non è un racconto sui cani. Parla di un uomo e non è niente male. Non c'è nemmeno un cane, lì dentro.
- Non ospitiamo messicani in questo albergo, - insisté.
- Non sono messicano. Il titolo l'ho tratto da una favola. E il cagnolino rise a vedere un simile spasso.
- E nemmeno ebrei, - concluse. Pagina esemplare. Uno strike perfetto, se solo la letteratura fosse un bowling.


L'altro registro è un tono, per così dire, da ballata: più libero, meno disciplinato, quasi "cantato". Generalmente lo humour sparisce e irrompono toni dal sapore poetico. Le frasi si allungano e si vanno a cercare un passo e una rotondità musicali. Ballate, in tutto e per tutto. Non durano mai più di una pagina, una pagina e mezza. Spesso sono una faccenda lunga dieci righe. Esempio: Che fare allora? Alzerò la faccia al cielo, balbettando e farfugliando con voce impaurita? Mi scoprirò il petto e lo percuoterò come un tamburo per attirare l'attenzione del mio Cristo? O non è forse più ragionevole che io mi ricopra e continui il cammino? Ci saranno momenti di confusione e momenti di desiderio, e altri in cui la mia solitudine verrà alleviata solo dalle lacrime che, come uccellini bagnati, cadranno ad ammorbidire le mie labbra aride. Ma ci sarà consolazione e ci sarà bellezza, come l'amore di qualche fanciulla morta?


Capita d'incontrare simili ballate improvvise, seminate in pagine di scrittura completamente diversa, anche in Hemingway, in Saroyan, in Steinbeck. In un certo senso anche gli "Occhi fotografici" di Dos Passos erano una cosa del genere. Non so, deve essere una perversione degli americani. Ha qualcosa di ingenuo e vagamente non riuscito. Però se uno la tagliasse via, semplicemente, chissà che ne sarebbe degli equilibri interni, e del colore complessivo, e del profilo dei personaggi. Sono come orchestre, quelle scritture. Hai un bel dire togliamo i tromboni che il trombone mi fa schifo. Prova...


(© La Repubblica, 11 aprile 2004)

domenica 4 aprile 2004

Aspettando i barbari...

Aspettando i barbari


“Sull’agorà, qui in folla, chi attendiamo?”
“I Barbari, che devono arrivare.”
“E perché i senatori non si muovono?
Che aspettano essi per legiferare?”
“È che devono giungere, oggi, i Barbari.
Perché dettare leggi? Appena giunti,
i Barbari, sarà compito loro.”
“Perché l’Imperatore s’è levato
di buonora ed è fermo sull’ingresso
con la corona in testa?.”
“È che i Barbari devono arrivare
e anche l’Imperatore sta ad attenderli
per riceverne il Duce; e tiene in mano
tanto di pergamena con la quale
gli offre titoli e onori.”
“E perché mai
sono usciti i due consoli e i pretori
in toghe rosse e ricamate? e portano
anelli tempestati di smeraldi,
braccialetti e ametiste?”
“È che vengono i Barbari e che queste
cose li sbalordiscono.”
“E perché
gli oratori non son qui, come d’uso,
a parlare, ad esprimere pareri?”
È che giungono i Barbari, e non vogliono
sentire tante chiacchiere.”
“E perché
tutti sono nervosi? (I volti intorno
si fanno gravi). Perché piazze e strade
si vuotano ed ognuno torna a casa?”
“È che fa buio e i Barbari non vengono,
e chi arriva di là dalla frontiera
dice che non ce n’è più neppur l’ombra.”
“E ora che faremo senza i Barbari?
(Era una soluzione come un’altra,
dopo tutto…).”


Costantinos Kavafis (trad. di Eugenio Montale) 

Aspettando i barbari...

Aspettando i barbari


“Sull’agorà, qui in folla, chi attendiamo?”
“I Barbari, che devono arrivare.”
“E perché i senatori non si muovono?
Che aspettano essi per legiferare?”
“È che devono giungere, oggi, i Barbari.
Perché dettare leggi? Appena giunti,
i Barbari, sarà compito loro.”
“Perché l’Imperatore s’è levato
di buonora ed è fermo sull’ingresso
con la corona in testa?.”
“È che i Barbari devono arrivare
e anche l’Imperatore sta ad attenderli
per riceverne il Duce; e tiene in mano
tanto di pergamena con la quale
gli offre titoli e onori.”
“E perché mai
sono usciti i due consoli e i pretori
in toghe rosse e ricamate? e portano
anelli tempestati di smeraldi,
braccialetti e ametiste?”
“È che vengono i Barbari e che queste
cose li sbalordiscono.”
“E perché
gli oratori non son qui, come d’uso,
a parlare, ad esprimere pareri?”
È che giungono i Barbari, e non vogliono
sentire tante chiacchiere.”
“E perché
tutti sono nervosi? (I volti intorno
si fanno gravi). Perché piazze e strade
si vuotano ed ognuno torna a casa?”
“È che fa buio e i Barbari non vengono,
e chi arriva di là dalla frontiera
dice che non ce n’è più neppur l’ombra.”
“E ora che faremo senza i Barbari?
(Era una soluzione come un’altra,
dopo tutto…).”


Costantinos Kavafis (trad. di Eugenio Montale) 

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