martedì 30 agosto 2005

Bagheria morì d'improvviso

Eccovi il testo completo, in formato PDF, nemmeno 140 kb. Ne ho riscritto alcune scene e ho tagliato via il personaggio di Gigi. Il confronto Nino-Professore adesso è più diretto. Tutto quello che ho scritto deriva da fatti reali. Il fruttivendolo quel cazzotto l'ha dato a me. Ed è documentabile la fiaccolata per il rilascio di un indagato. Corrisponde al vero pure il male che viene dal mare. Resta ancora oggi un interrogativo inevaso. La scienza ufficiale non sa spiegarselo. E ogni anno ritorna. Puntuale.

Anche il cancro dei gerani ha chiesto e ottenuto la residenza a Bagheria.

Anche se contrabbando un pezzo di geranio da Partinico, Terrasini o Monreale e lo porto qui e mette radici, tempo due settimane e si ammala pure quello.



Grazie a tutti per l'attenzione che avete riservato a queste poche pagine. È stato bello condividere questo "work in progress" con voi. Ho scacciato il pasticcio siculo-italico su cui mi stavo incartando grazie soprattutto ai consigli di Demetrio e leggendo Vittorini e il suo intervento su PARLATO E METAFORA.



Buona lettura.



Cosa resterà di me, del transito terrestre?

Di tutte le impressioni che ho avuto in questa vita..."

Franco Battiato, Mesopotamia





Bagheria morì d'improvviso

Eccovi il testo completo, in formato PDF, nemmeno 140 kb. Ne ho riscritto alcune scene e ho tagliato via il personaggio di Gigi. Il confronto Nino-Professore adesso è più diretto. Tutto quello che ho scritto deriva da fatti reali. Il fruttivendolo quel cazzotto l'ha dato a me. Ed è documentabile la fiaccolata per il rilascio di un indagato. Corrisponde al vero pure il male che viene dal mare. Resta ancora oggi un interrogativo inevaso. La scienza ufficiale non sa spiegarselo. E ogni anno ritorna. Puntuale.

Anche il cancro dei gerani ha chiesto e ottenuto la residenza a Bagheria.

Anche se contrabbando un pezzo di geranio da Partinico, Terrasini o Monreale e lo porto qui e mette radici, tempo due settimane e si ammala pure quello.



Grazie a tutti per l'attenzione che avete riservato a queste poche pagine. È stato bello condividere questo "work in progress" con voi. Ho scacciato il pasticcio siculo-italico su cui mi stavo incartando grazie soprattutto ai consigli di Demetrio e leggendo Vittorini e il suo intervento su PARLATO E METAFORA.



Buona lettura.



Cosa resterà di me, del transito terrestre?

Di tutte le impressioni che ho avuto in questa vita..."

Franco Battiato, Mesopotamia





Bagheria mori' d'improvviso (4)

quattro



Gli incubi mi hanno tenuto sveglio, hanno masticato pure quelle poche ore che sono riuscito a restare a letto. Ripensavo a Padre Barbisio, il gesuita che mi ha cresciuto. Mi aveva conquistato con i santini e con le storie a cui li accoppiava. Mi piaceva quella di San Tarcisio Martire, il ragazzo che si fa uccidere per trasportare l’eucaristia, una storia bella, vibra dell’amore che si raggruma sino all’estremo sacrificio, sino a incarnarsi in qualcosa di reale.

Volevo fare la stessa cosa per la mia città, per rivederla affiorare, piano piano, senza fretta.

Nino ieri sera l’hanno gonfiato di botte, ha sperimentato quanto costa non piegare la testa.



Era uno di quei pomeriggi che pure le mosche si lasciano cullare dall’aria che soffia lenta al centro della stanza, i cani fanno finta di sognare e corrono nel sonno. Io sono lì, seduto sulla poltrona a cantare qualche aria di Mozart. La musica si propaga, gonfia le tende. E aspetto solo che le fette di vitello si scongelino sopra il lavello. Se mi concentro riesco pure a sentire il ghiaccio che si scioglie e gocciola sull’acciaio. Goccia dopo goccia, insieme al sangue che ritorna liquido nei solchi di quell’ammasso di nobili proteine. Un colapasta capovolto tiene lontane le mosche che cercano un po’ di refrigerio nell’odore del sangue.



Ecco ciò che mi hanno lasciato questi sessant’anni: un mondo di ricordi da pettinare nella solitudine del pomeriggio, quando tutti dormono e pure il camioncino dei surgelati è lontano. Sono stanco. Immensamente stanco, una vecchiaia da inavvicinabile bucapalloni non me la concederanno. È finito pure il latte, devo andare al supermercato, uno dei pochi che hanno lasciato in piedi. Ci hanno provato gli ipermercati a mettere radici a Bagheria e il racket ha atteso con pazienza di ragno, quando hanno finito di avvitare le ultime lampadine hanno chiesto il pizzo e hanno ricevuto un no secco. La stessa sera dell’inaugurazione li hanno lasciati divorare dalle fiamme. Anche stavolta nessuno ha parlato.



Giro tra gli scaffali e lascio perdere tutte le cose che mi piacciono. Il medico all’ultima visita mi ha tolto pure i dolciumi, mi sono beccato il diabete senile e io l’ho preso a cannolate. Quello stesso pomeriggio sono andato sino a Piana degli Albanesi e sulla sponda del lago, con i modellini di aeroplano che mi volteggiavano sulla chierica, ne ho addentati quattro, di quelli grossi.

Il latte lo mettono in basso, dove relegano le uniche cose davvero utili, il resto ti riempie la vista coi colori bislacchi delle confezioni di ipercaloriche meraviglie, falsi bisogni che ci inoculano sin da bambini con le pubblicità tra i cartoni animati.

Con tre cartoni di latte penzolanti nel sacchetto di polimeri sono andato all’edicola di Giuseppe, ho preso il doppio cd di Battiato che c’era allegato al Corriere della Sera. Ci gioco ancora con la vita, chiedetelo in giro, prima che questo corpo ceda del tutto farò qualcosa per la piccola Bagheria, pure che devo prendere a ciabattate il sindaco e tutta la giunta comunale. E farò lo stesso con quelli che hanno incrinato le costole di Nino.



Era andato al cinema con un amico. Posteggiano davanti ad un fruttivendolo, l’orologio digitale appiccicato al cruscotto della R4 segna le otto e mezza.

Si avvicina il fruttivendolo e chiede se è possibile spostare la macchina, lo chiede con voce gentile, in italiano stentato. Nino esce l’orologio dalla tasca, lo confronta con quello sul cruscotto e chiede l’ora di chiusura dell’esercizio. Il verduraio lo guarda strano, si liscia il baffo all’Abatantuono vecchia maniera e risponde che il “Paradiso della Cucuzza” chiude alle otto. Nino sillogizza che già il verduraio è chiuso.

Il proprietario del Paradiso della Cucuzza stavolta dice che se non vuole un colpo di roncola sul parabrezza è meglio che sposta il macinino.

Non è che Nino voleva fare l’avvocato delle cause perse, quel ragazzo credeva ancora alla forza di un dialogo lucido e, soprattutto, voleva solo evitare di togliere la catenazza con cui ha già impiccato il volante alla pedaliera. Per tutta l’operazione sarebbe squagliato via il primo tempo del film. Il verduraio ripete furente, gli occhi come piccoli tizzoni, la faccia di braciere su cui si rosola un’incazzatura crescente, che tracima nel primo cazzotto che Nino si becca in pancia.



Quel posto è tacitamente riservato ai clienti a cui impaccare lattughe resuscitate e zucchine ricurve di marcio. Nino non desiste, si alza, si toglie gli occhiali e fa la domanda più inutile: ma perché?

Arrivano tutti gli energumeni che campano così, a fare i guardaspalle ai negozianti, agli stessi a cui chiedono un contributo per la comune serenità.

I gorilla tengono fermo Nino e il verduraio continua a pestarlo. Passa una volante e il poliziotto chiede spiegazioni, si è già creata una piccola folla attorno al ring delimitato dalla cesta delle melanzane. Se non c’è una denuncia il poliziotto non può agire. Nino si allontana, scuro in volto, si tiene lo stomaco e piange via la rabbia che gli brucia sul labbro spaccato. L’amico è scappato via al primo cazzotto, aveva già capito tutto.

Bagheria mori' d'improvviso (4)

quattro



Gli incubi mi hanno tenuto sveglio, hanno masticato pure quelle poche ore che sono riuscito a restare a letto. Ripensavo a Padre Barbisio, il gesuita che mi ha cresciuto. Mi aveva conquistato con i santini e con le storie a cui li accoppiava. Mi piaceva quella di San Tarcisio Martire, il ragazzo che si fa uccidere per trasportare l’eucaristia, una storia bella, vibra dell’amore che si raggruma sino all’estremo sacrificio, sino a incarnarsi in qualcosa di reale.

Volevo fare la stessa cosa per la mia città, per rivederla affiorare, piano piano, senza fretta.

Nino ieri sera l’hanno gonfiato di botte, ha sperimentato quanto costa non piegare la testa.



Era uno di quei pomeriggi che pure le mosche si lasciano cullare dall’aria che soffia lenta al centro della stanza, i cani fanno finta di sognare e corrono nel sonno. Io sono lì, seduto sulla poltrona a cantare qualche aria di Mozart. La musica si propaga, gonfia le tende. E aspetto solo che le fette di vitello si scongelino sopra il lavello. Se mi concentro riesco pure a sentire il ghiaccio che si scioglie e gocciola sull’acciaio. Goccia dopo goccia, insieme al sangue che ritorna liquido nei solchi di quell’ammasso di nobili proteine. Un colapasta capovolto tiene lontane le mosche che cercano un po’ di refrigerio nell’odore del sangue.



Ecco ciò che mi hanno lasciato questi sessant’anni: un mondo di ricordi da pettinare nella solitudine del pomeriggio, quando tutti dormono e pure il camioncino dei surgelati è lontano. Sono stanco. Immensamente stanco, una vecchiaia da inavvicinabile bucapalloni non me la concederanno. È finito pure il latte, devo andare al supermercato, uno dei pochi che hanno lasciato in piedi. Ci hanno provato gli ipermercati a mettere radici a Bagheria e il racket ha atteso con pazienza di ragno, quando hanno finito di avvitare le ultime lampadine hanno chiesto il pizzo e hanno ricevuto un no secco. La stessa sera dell’inaugurazione li hanno lasciati divorare dalle fiamme. Anche stavolta nessuno ha parlato.



Giro tra gli scaffali e lascio perdere tutte le cose che mi piacciono. Il medico all’ultima visita mi ha tolto pure i dolciumi, mi sono beccato il diabete senile e io l’ho preso a cannolate. Quello stesso pomeriggio sono andato sino a Piana degli Albanesi e sulla sponda del lago, con i modellini di aeroplano che mi volteggiavano sulla chierica, ne ho addentati quattro, di quelli grossi.

Il latte lo mettono in basso, dove relegano le uniche cose davvero utili, il resto ti riempie la vista coi colori bislacchi delle confezioni di ipercaloriche meraviglie, falsi bisogni che ci inoculano sin da bambini con le pubblicità tra i cartoni animati.

Con tre cartoni di latte penzolanti nel sacchetto di polimeri sono andato all’edicola di Giuseppe, ho preso il doppio cd di Battiato che c’era allegato al Corriere della Sera. Ci gioco ancora con la vita, chiedetelo in giro, prima che questo corpo ceda del tutto farò qualcosa per la piccola Bagheria, pure che devo prendere a ciabattate il sindaco e tutta la giunta comunale. E farò lo stesso con quelli che hanno incrinato le costole di Nino.



Era andato al cinema con un amico. Posteggiano davanti ad un fruttivendolo, l’orologio digitale appiccicato al cruscotto della R4 segna le otto e mezza.

Si avvicina il fruttivendolo e chiede se è possibile spostare la macchina, lo chiede con voce gentile, in italiano stentato. Nino esce l’orologio dalla tasca, lo confronta con quello sul cruscotto e chiede l’ora di chiusura dell’esercizio. Il verduraio lo guarda strano, si liscia il baffo all’Abatantuono vecchia maniera e risponde che il “Paradiso della Cucuzza” chiude alle otto. Nino sillogizza che già il verduraio è chiuso.

Il proprietario del Paradiso della Cucuzza stavolta dice che se non vuole un colpo di roncola sul parabrezza è meglio che sposta il macinino.

Non è che Nino voleva fare l’avvocato delle cause perse, quel ragazzo credeva ancora alla forza di un dialogo lucido e, soprattutto, voleva solo evitare di togliere la catenazza con cui ha già impiccato il volante alla pedaliera. Per tutta l’operazione sarebbe squagliato via il primo tempo del film. Il verduraio ripete furente, gli occhi come piccoli tizzoni, la faccia di braciere su cui si rosola un’incazzatura crescente, che tracima nel primo cazzotto che Nino si becca in pancia.



Quel posto è tacitamente riservato ai clienti a cui impaccare lattughe resuscitate e zucchine ricurve di marcio. Nino non desiste, si alza, si toglie gli occhiali e fa la domanda più inutile: ma perché?

Arrivano tutti gli energumeni che campano così, a fare i guardaspalle ai negozianti, agli stessi a cui chiedono un contributo per la comune serenità.

I gorilla tengono fermo Nino e il verduraio continua a pestarlo. Passa una volante e il poliziotto chiede spiegazioni, si è già creata una piccola folla attorno al ring delimitato dalla cesta delle melanzane. Se non c’è una denuncia il poliziotto non può agire. Nino si allontana, scuro in volto, si tiene lo stomaco e piange via la rabbia che gli brucia sul labbro spaccato. L’amico è scappato via al primo cazzotto, aveva già capito tutto.

lunedì 29 agosto 2005

Bagheria mori' d'improvviso (3)

- Ma perché mi sta dicendo tutte queste cose? Perché proprio a me?



Il professore rimase zitto per un buon quarto d’ora, pure la pipa si spense. Quando parlò aveva lo sconforto a fargli compagnia. Già, perché aveva deciso di cercare Nino e Gigi? Perché proprio loro? Con quale diritto poteva chiedere un simile sacrificio a due giovani vite?

Lui aveva avuto una vita lunga, era arrivato a vedere il cambio del secolo. Quel doppio zero che si immaginava così lontano quando sfogliava il suo sussidiario, si vedeva vecchio, magari con un auto spaziale come quella degli eroi di intrepido. E Nino invece era contento perché in tv passavano i film che aveva visto al cinema con Gisella, mano a mano nel buio, con molti fotogrammi perduti in un bacio leggero tra un popcorn e l’altro.



***

Tre





Era solo questione di prospettiva, questo lo capivo bene. Bagheria vista dall’alto non ha più nessuno sviluppo architettonico, la forma di chitarra che partiva dai tre portoni e finiva nella villa dei mostri che affascinò pure Goethe s’era perduta nei piani regolatori che approvavano di notte. Chi cercava di limitare i danni spariva nel campo di concentramento che si celava nella Industria Chiodi e Reti. L’aveva chiamato così Nino Giuffrè che cantava come un usignolo: campo di sterminio. Lo fanno cantare perché la mafia si sta evolvendo. Lo sta facendo di nuovo.

Ne ho conosciute già due metamorfosi. Mi rivedo piccolo, arrivò a malapena alla maniglia del portone di una villa di periferia. Sono con mia madre. Sul portone c’è un battente a forma di leone. Mi faceva una paura… E mia madre era lì, da Don Santo. Mio padre era in Marina, veniva ogni sei mesi e ci aveva affidati al suo padrino di battesimo, uno di quei galantuomini all’antica. Vivevamo ancora nella casa del Corso. Quando ancora i Bagheresi si conoscevano tutti, capaci di ricostruire le genealogie di tutti quelli che bevevano un caffé al bar Aurora. Come gli Ebrei.



Se non l’ha scritta Mosè, la Bibbia di sicuro l’ha scritta un siciliano. Tutti quei Davide figlio di Giosafatte, figlio di Zebedeo. Fanno ancora così le vecchie nonne quando le loro nipoti si azzardano a presentarle il nuovo ragazzo. Si giurano amore eterno a colpi di sms e non resistono alla prima cena in famiglia. Perché se non sei cresciuto qui non lo capisci la grandissima importanza che ha per una famiglia ricostruire il tuo albero genealogico. La domanda è spiazzante: a chi appartieni?



Pure io mi sono dovuto sorbire tutta sta trafila, mia suocera arrivò a parlarmi di antenati di cui mio nonno aveva dimenticato nomi e facce. E le luccicarono gli occhi quando capì che ero bagherese da otto generazioni, il minimo per essere considerato uno di loro.

Perché di bagheresi ne sono rimasti davvero poco. La borgata è diventata paese, il paese è diventato comune e il comune città. E nelle facce dei sessantamila abitanti è difficile ritrovare quei lineamenti e quella parlata che ci rendevano unici. Una nenia leggera, le vocali dilatate, la u onnipresente e quel senso di superiorità nei confronti dei palermitani. Enzo Sellerio diceva che c’era un motivo palese. Bastava riflettere sul fatto che i bagheresi autoctoni erano i servitori dei signorotti del Barocco. I palermitani si facevano la villa, la decoravano con le follie di tufo che hanno dato vita alle leggende sulla villa dei mostri e si facevano poi vedere in mutandoni dai bagheresi. Quando hai visto il Principe di Palagonia seminudo, magari col batacchio scosciato non puoi non sentirti superiore.



Ora Bagheria era un groviglio di promesse mancate, una matassa di strade che conducono in mezzo al nulla, coi tondini di ferro che arrugginiscono al sole. Vedi quei fossili di calcestruzzo e pensi che magari nei pilastri c’è lo zio del tuo compagno di banco, cancellato dalla vita e dal mondo perché aveva sgarrato con la figlia di Don Ciccio e poi non aveva voluto riparare. Torti e riparazioni, si va avanti così.



Questo Nino ancora non lo sa. Suo padre non gliel’ha mai spiegato perché non si passeggia più nel Corso. Perché lui non aveva manco un anno quando ogni giorno ammazzavano almeno due persone quando la mafia cambiò. E cambiò davvero. Si sporcò l’anima con i dollari che arrivavano con lo smercio di droga. Joe Petrosino aveva intuito giusto prima di finire su una targa ricordo mangiata dal verderame in Piazza Marina.



Il leone sul portone ruggì e venne Don Santo in persona, alto sino al cielo, con un cappello in testa che si levò per salutare mia madre. C’era un prepotente che doveva per soverchieria bucarci il tetto per metterci la sua canna fumaria. Mia madre e mia nonna gli chiesero gentilmente di evitare. Niente, quello ci bucò il tetto e quando pioveva la nonna doveva mettere un tegamino dove cadevano fastidiosissime gocce. Facevano un rumore infernale. Ti sentivi la testa picchiettare da quello stillicidio continuo. Ci pensò Don Santo a raddrizzare il torto. Non so come, ma nemmeno due giorni dopo che eravamo andati a squietare il leone sul portone, la canna fumaria non c’era più e avevamo un tetto impeciato con asfalto di primissima qualità.



Funzionava così. Tutto filava dritto, nessuno si ammazzava più per il segno del limite spostato notte tempo nel proprio podere. Tutti si salutavano, gli uomini lavoravano e le donne non dovevano temere nessun pericolo quando i loro figli si attardavano a giocare per la strada.

Lo Stato assente era stato egregiamente rimpiazzato. Chi non voleva adeguarsi semplicemente spariva. Ma poi arrivarono gli anni Ottanta e il vuoto lasciato dalla morte dei vecchi capimafia annullò il clima di tregua armata. Si incominciò a vedere il sangue macchiare i marciapiedi. E mia nonna faceva sempre la stessa cosa: chiudeva le persiane e alzava il volume della televisione. E se i miei figli non tornavano a casa prima del crepuscolo prendevano tante di quelle sculacciate da non potersi sedere per tre giorni. Ho visto gente decapitata prima di pranzo, assassini che si inginocchiavano nel sagrato della Madrice e aspettavano la loro vittima. Sparavano un colpo solo. Dritto nel petto.



E poi tutto finì. Solo che la gente non camminava più sino all’alba, le case ora venivano chiuse con grate alle finestre perché incominciarono i furti. Ho visto un marocchino per la prima volta a trent’anni. Prima mai. E ora c’è un intero quartiere che pare un pugno di kasbe, durante i loro festeggiamenti ammazzano un vitello in mezzo alla strada e le grida della povera bestia le senti entrarti in testa.

Non rimpiango i vecchi tempi. Non posso farlo dopo che si sa quanto costavano quella pace e quella serenità di facciata. Troppe ossa sbiancate al sole, senza pace.

E la città vista in volo pare essersi contratta e poi esplosa, intere betoniere hanno riversato calcestruzzo dove c’erano campi di limoni e prati di gelsomino. Di notte gettavano le fondamenta e la mattina dopo c’erano già decine di carpentieri a tirar su pilastri. In due settimane una nuova palazzina.

E ci donarono pure lo svincolo autostradale più brutto di Italia, con le macchine che vengono da Palermo che cozzano inevitabilmente con quelle che a Palermo vogliono andare. Code chilometriche, bestemmie che fanno impallidire chiunque e i vigili che si sono rifugiati al Comando dopo che hanno bruciato ben tre volanti. Nessuno dice nulla, nessuno vede nulla. Tutti ciechi e sordomuti qui.



Ma le cose non cambiano scegliendo percorsi alternativi. Se voglio evitare l’autostrada, la Statale 113 mi porta a Santa Flavia e poi a Casteldaccia e lì c’è la stessa aria marcia. L’immutabilità è avvilente. I ragazzi cercano di resistere ma si ingrigiscono dentro e fuori. Come succederà anche a Nino. Ho sbagliato. Ho sbagliato anche solo a pensare di poter fare qualcosa. Che potrebbe fare la cultura contro una calibro nove? Dovrebbe fermare la mano che ha già impugnato l’arma? Non ci credo. Non ci credo più.



Non ci credo dal '92. Sono tredici anni che ho perso ogni speranza. Perché non si può far saltare un'intera autostrada per cancellare chi voleva fare davvero qualcosa. Solo perché Falcone l'amava irrimediabilmente questa terra. Hanno fatto esplodere un pezzo di autostrada, il Giudice tornava in volo da Roma, mette piede a terra, decide di guidare e si vede la strada sparire, l'asfalto polverizzato. Una catastrofe che presto hanno avvolto nei lenzuoli. Le loro idee cammineranno sulle nostre gambe, l'abbiamo gridato. L'abbiamo scritto sulle lenzuola. Le lenzuola. Sempre le lenzuola. Che prima stendevamo per far vedere che la nostra sposa era arrivata illibata. Sangue di verginità perdute, speranze perdute. Sempre sulle lenzuola. Che sbiancate dal sole assomigliano a vecchi sudari. Sindoni di civiltà perdute. Lenzuola e lì, dove il Giudice perse la sua battaglia hanno messo un doppio obelisco. Una minchia di pietra che si incula il cielo.

Bagheria mori' d'improvviso (3)

- Ma perché mi sta dicendo tutte queste cose? Perché proprio a me?



Il professore rimase zitto per un buon quarto d’ora, pure la pipa si spense. Quando parlò aveva lo sconforto a fargli compagnia. Già, perché aveva deciso di cercare Nino e Gigi? Perché proprio loro? Con quale diritto poteva chiedere un simile sacrificio a due giovani vite?

Lui aveva avuto una vita lunga, era arrivato a vedere il cambio del secolo. Quel doppio zero che si immaginava così lontano quando sfogliava il suo sussidiario, si vedeva vecchio, magari con un auto spaziale come quella degli eroi di intrepido. E Nino invece era contento perché in tv passavano i film che aveva visto al cinema con Gisella, mano a mano nel buio, con molti fotogrammi perduti in un bacio leggero tra un popcorn e l’altro.



***

Tre





Era solo questione di prospettiva, questo lo capivo bene. Bagheria vista dall’alto non ha più nessuno sviluppo architettonico, la forma di chitarra che partiva dai tre portoni e finiva nella villa dei mostri che affascinò pure Goethe s’era perduta nei piani regolatori che approvavano di notte. Chi cercava di limitare i danni spariva nel campo di concentramento che si celava nella Industria Chiodi e Reti. L’aveva chiamato così Nino Giuffrè che cantava come un usignolo: campo di sterminio. Lo fanno cantare perché la mafia si sta evolvendo. Lo sta facendo di nuovo.

Ne ho conosciute già due metamorfosi. Mi rivedo piccolo, arrivò a malapena alla maniglia del portone di una villa di periferia. Sono con mia madre. Sul portone c’è un battente a forma di leone. Mi faceva una paura… E mia madre era lì, da Don Santo. Mio padre era in Marina, veniva ogni sei mesi e ci aveva affidati al suo padrino di battesimo, uno di quei galantuomini all’antica. Vivevamo ancora nella casa del Corso. Quando ancora i Bagheresi si conoscevano tutti, capaci di ricostruire le genealogie di tutti quelli che bevevano un caffé al bar Aurora. Come gli Ebrei.



Se non l’ha scritta Mosè, la Bibbia di sicuro l’ha scritta un siciliano. Tutti quei Davide figlio di Giosafatte, figlio di Zebedeo. Fanno ancora così le vecchie nonne quando le loro nipoti si azzardano a presentarle il nuovo ragazzo. Si giurano amore eterno a colpi di sms e non resistono alla prima cena in famiglia. Perché se non sei cresciuto qui non lo capisci la grandissima importanza che ha per una famiglia ricostruire il tuo albero genealogico. La domanda è spiazzante: a chi appartieni?



Pure io mi sono dovuto sorbire tutta sta trafila, mia suocera arrivò a parlarmi di antenati di cui mio nonno aveva dimenticato nomi e facce. E le luccicarono gli occhi quando capì che ero bagherese da otto generazioni, il minimo per essere considerato uno di loro.

Perché di bagheresi ne sono rimasti davvero poco. La borgata è diventata paese, il paese è diventato comune e il comune città. E nelle facce dei sessantamila abitanti è difficile ritrovare quei lineamenti e quella parlata che ci rendevano unici. Una nenia leggera, le vocali dilatate, la u onnipresente e quel senso di superiorità nei confronti dei palermitani. Enzo Sellerio diceva che c’era un motivo palese. Bastava riflettere sul fatto che i bagheresi autoctoni erano i servitori dei signorotti del Barocco. I palermitani si facevano la villa, la decoravano con le follie di tufo che hanno dato vita alle leggende sulla villa dei mostri e si facevano poi vedere in mutandoni dai bagheresi. Quando hai visto il Principe di Palagonia seminudo, magari col batacchio scosciato non puoi non sentirti superiore.



Ora Bagheria era un groviglio di promesse mancate, una matassa di strade che conducono in mezzo al nulla, coi tondini di ferro che arrugginiscono al sole. Vedi quei fossili di calcestruzzo e pensi che magari nei pilastri c’è lo zio del tuo compagno di banco, cancellato dalla vita e dal mondo perché aveva sgarrato con la figlia di Don Ciccio e poi non aveva voluto riparare. Torti e riparazioni, si va avanti così.



Questo Nino ancora non lo sa. Suo padre non gliel’ha mai spiegato perché non si passeggia più nel Corso. Perché lui non aveva manco un anno quando ogni giorno ammazzavano almeno due persone quando la mafia cambiò. E cambiò davvero. Si sporcò l’anima con i dollari che arrivavano con lo smercio di droga. Joe Petrosino aveva intuito giusto prima di finire su una targa ricordo mangiata dal verderame in Piazza Marina.



Il leone sul portone ruggì e venne Don Santo in persona, alto sino al cielo, con un cappello in testa che si levò per salutare mia madre. C’era un prepotente che doveva per soverchieria bucarci il tetto per metterci la sua canna fumaria. Mia madre e mia nonna gli chiesero gentilmente di evitare. Niente, quello ci bucò il tetto e quando pioveva la nonna doveva mettere un tegamino dove cadevano fastidiosissime gocce. Facevano un rumore infernale. Ti sentivi la testa picchiettare da quello stillicidio continuo. Ci pensò Don Santo a raddrizzare il torto. Non so come, ma nemmeno due giorni dopo che eravamo andati a squietare il leone sul portone, la canna fumaria non c’era più e avevamo un tetto impeciato con asfalto di primissima qualità.



Funzionava così. Tutto filava dritto, nessuno si ammazzava più per il segno del limite spostato notte tempo nel proprio podere. Tutti si salutavano, gli uomini lavoravano e le donne non dovevano temere nessun pericolo quando i loro figli si attardavano a giocare per la strada.

Lo Stato assente era stato egregiamente rimpiazzato. Chi non voleva adeguarsi semplicemente spariva. Ma poi arrivarono gli anni Ottanta e il vuoto lasciato dalla morte dei vecchi capimafia annullò il clima di tregua armata. Si incominciò a vedere il sangue macchiare i marciapiedi. E mia nonna faceva sempre la stessa cosa: chiudeva le persiane e alzava il volume della televisione. E se i miei figli non tornavano a casa prima del crepuscolo prendevano tante di quelle sculacciate da non potersi sedere per tre giorni. Ho visto gente decapitata prima di pranzo, assassini che si inginocchiavano nel sagrato della Madrice e aspettavano la loro vittima. Sparavano un colpo solo. Dritto nel petto.



E poi tutto finì. Solo che la gente non camminava più sino all’alba, le case ora venivano chiuse con grate alle finestre perché incominciarono i furti. Ho visto un marocchino per la prima volta a trent’anni. Prima mai. E ora c’è un intero quartiere che pare un pugno di kasbe, durante i loro festeggiamenti ammazzano un vitello in mezzo alla strada e le grida della povera bestia le senti entrarti in testa.

Non rimpiango i vecchi tempi. Non posso farlo dopo che si sa quanto costavano quella pace e quella serenità di facciata. Troppe ossa sbiancate al sole, senza pace.

E la città vista in volo pare essersi contratta e poi esplosa, intere betoniere hanno riversato calcestruzzo dove c’erano campi di limoni e prati di gelsomino. Di notte gettavano le fondamenta e la mattina dopo c’erano già decine di carpentieri a tirar su pilastri. In due settimane una nuova palazzina.

E ci donarono pure lo svincolo autostradale più brutto di Italia, con le macchine che vengono da Palermo che cozzano inevitabilmente con quelle che a Palermo vogliono andare. Code chilometriche, bestemmie che fanno impallidire chiunque e i vigili che si sono rifugiati al Comando dopo che hanno bruciato ben tre volanti. Nessuno dice nulla, nessuno vede nulla. Tutti ciechi e sordomuti qui.



Ma le cose non cambiano scegliendo percorsi alternativi. Se voglio evitare l’autostrada, la Statale 113 mi porta a Santa Flavia e poi a Casteldaccia e lì c’è la stessa aria marcia. L’immutabilità è avvilente. I ragazzi cercano di resistere ma si ingrigiscono dentro e fuori. Come succederà anche a Nino. Ho sbagliato. Ho sbagliato anche solo a pensare di poter fare qualcosa. Che potrebbe fare la cultura contro una calibro nove? Dovrebbe fermare la mano che ha già impugnato l’arma? Non ci credo. Non ci credo più.



Non ci credo dal '92. Sono tredici anni che ho perso ogni speranza. Perché non si può far saltare un'intera autostrada per cancellare chi voleva fare davvero qualcosa. Solo perché Falcone l'amava irrimediabilmente questa terra. Hanno fatto esplodere un pezzo di autostrada, il Giudice tornava in volo da Roma, mette piede a terra, decide di guidare e si vede la strada sparire, l'asfalto polverizzato. Una catastrofe che presto hanno avvolto nei lenzuoli. Le loro idee cammineranno sulle nostre gambe, l'abbiamo gridato. L'abbiamo scritto sulle lenzuola. Le lenzuola. Sempre le lenzuola. Che prima stendevamo per far vedere che la nostra sposa era arrivata illibata. Sangue di verginità perdute, speranze perdute. Sempre sulle lenzuola. Che sbiancate dal sole assomigliano a vecchi sudari. Sindoni di civiltà perdute. Lenzuola e lì, dove il Giudice perse la sua battaglia hanno messo un doppio obelisco. Una minchia di pietra che si incula il cielo.

retroazioni (o feedback che dir si voglia)

parlano del mio BAGHERIA MORI' D'IMPROVVISO. E siccome è una delle cose nuove di questa vita altrettanto nuova, riporto qui ogni commento per farne tesoro. E volare alto.


"solo un piccolo parere il mio Tonino... direi che la prima parte mi è piaciuta molto, l'incipit mi ha fatto venire i brividi , diciamo che la primissima parte è di respiro, ci scaraventi dentro la tua Bagheria e ce la fai vivere così come è. Nella seconda parte tu prendi nuovamente il sopravvento, la narrazione ti si avvolge addosso e si allontana. Certi periodi si allungano forse troppo e si appesantiscono e il vecchio professore si confonde con gli altri personaggi in un'unica identità. Non conosco di preciso le aspettative di Demetrio, io amo il ritmo della tua scrittura e il tuo voler stretto il filo dell'aquilone ma credo che a volte"



Questo era rimasto nelle mie bozze...un commento alla tua prima Bagheria, come vedi non ho terminato di scriverlo se non nella mia mente... già scrivendolo avevo rinunciato a spedirlo.

Quello che leggo oggi è ben diverso, posso solo dare una piccola preferenza alla prima parte forse per quel filo di speranza che traduce, forse perchè sebbene in modo diverso la mia terra è affetta dallo stesso cancro e di quello spiraglio ne ho bisogno.

Bravo Tonino



Lisa

***



sono contento e no. se posso dire.

contento perché hai incominciato a fare i conti con qualcosa che non sia te stesso, ma nello stesso tempo non sono contento perché ci caschi dentro di nuovo.

è bello l'inizio, come diceva lisa, perché viene fuori il tuo mondo, senza che tu ci sia, poi poco alla volta il mondo tuo diventa nuovamente orizzonte e ritorna la figura del laureato, innamorato.

Intendiamoci è una cosa legittima, ma perché dare a questa figura il primo piano, quando Bagheria era così bella? Perché avvitarti su questa tua figura e lasicare perdere il paese intero?

mh.

questo mi convince di meno, mi convince molto il discorso sulla mafia, meno il discorso sul fatto che la cultura vincerà la mafia.

io chiederei a te più crudezza e meno idilio.

ecco.

il resto è forte: soprattutto la lingua, hai imparato secondo me a dosare quella tua volontà di pasticcio linguistico, trovando una via mediana e giusta.



Demetrio


 

retroazioni (o feedback che dir si voglia)

parlano del mio BAGHERIA MORI' D'IMPROVVISO. E siccome è una delle cose nuove di questa vita altrettanto nuova, riporto qui ogni commento per farne tesoro. E volare alto.


"solo un piccolo parere il mio Tonino... direi che la prima parte mi è piaciuta molto, l'incipit mi ha fatto venire i brividi , diciamo che la primissima parte è di respiro, ci scaraventi dentro la tua Bagheria e ce la fai vivere così come è. Nella seconda parte tu prendi nuovamente il sopravvento, la narrazione ti si avvolge addosso e si allontana. Certi periodi si allungano forse troppo e si appesantiscono e il vecchio professore si confonde con gli altri personaggi in un'unica identità. Non conosco di preciso le aspettative di Demetrio, io amo il ritmo della tua scrittura e il tuo voler stretto il filo dell'aquilone ma credo che a volte"



Questo era rimasto nelle mie bozze...un commento alla tua prima Bagheria, come vedi non ho terminato di scriverlo se non nella mia mente... già scrivendolo avevo rinunciato a spedirlo.

Quello che leggo oggi è ben diverso, posso solo dare una piccola preferenza alla prima parte forse per quel filo di speranza che traduce, forse perchè sebbene in modo diverso la mia terra è affetta dallo stesso cancro e di quello spiraglio ne ho bisogno.

Bravo Tonino



Lisa

***



sono contento e no. se posso dire.

contento perché hai incominciato a fare i conti con qualcosa che non sia te stesso, ma nello stesso tempo non sono contento perché ci caschi dentro di nuovo.

è bello l'inizio, come diceva lisa, perché viene fuori il tuo mondo, senza che tu ci sia, poi poco alla volta il mondo tuo diventa nuovamente orizzonte e ritorna la figura del laureato, innamorato.

Intendiamoci è una cosa legittima, ma perché dare a questa figura il primo piano, quando Bagheria era così bella? Perché avvitarti su questa tua figura e lasicare perdere il paese intero?

mh.

questo mi convince di meno, mi convince molto il discorso sulla mafia, meno il discorso sul fatto che la cultura vincerà la mafia.

io chiederei a te più crudezza e meno idilio.

ecco.

il resto è forte: soprattutto la lingua, hai imparato secondo me a dosare quella tua volontà di pasticcio linguistico, trovando una via mediana e giusta.



Demetrio


 

la guerra selvaggia degli allegati

É sempre tempo di raccolte, i quotidiani e i periodici, da tempo, allegano qualsiasi cosa: dvd, cd interattivi, libri, enciclopedie, videocassette, cataloghi d'arte, antologie di fumetti, saggi storici, dossier monotematici, video-inchieste, etc. etc. perfino gli intoccabili Meridiani che costituivano il mio desiderio nascosto... quante letterine a Babbo Natale per averli tutti, almeno uno all'anno. Approfittando dello sconto di Dieci Euro che la Mondadori concedeva...



Bene, mi fa piacere, è sempre cultura. Certo, lontana anni luce dalla cultura spazza-sofferenze che sognavano i baffi di Elio Vittorini sull'editoriale del primo numero del Politecnico, ma le coordinate e le ascisse spazio-temporali mutano gusti e preferenze.



Non basta più il contenuto del giornale a stimolare l'acquisto. E Gianni Riotta può continuare a dire all'infinito che la mano oscura che cerca di strizzare il Corriere lo fa perché ancora i giornali e i giornalisti sono visti con un senso di rispetto. Il giornale vacilla, anzi: il quotidiano è diventato quell'entità cartacea che danno come allegato alla videocassetta o alle tette del calendario. Lo usano per avvolgere il volume, come prima facevano le venditrici di uova "a parte di casa". La stessa fine che facevano gli articoli di Alberoni del lunedì del Corriere secondo Michele

Serra: finivano ad avvolgere la verdura ancora prima di essere letti... Ora tocca a tutto il quotidiano, pure alle AMACHE del suddetto Serra. Non è servito a nulla la patina di colore della versione FULL COLOR che ora ci delizia le giornate.



Mi è venuto a trovare un ricordo, un piccolo sketch di Gene Gnocchi (che non ho mai capito se mi sta simpatico o no, o proprio la sua schietta antipatia me lo rende simpatico?): Gene era un ciclista dopato e narrava le origini del suo dramma. Era tutta colpa degli inserti e degli allegati dei giornali.

Voleva semplicemente un giornale da mettere nella giacchetta per combattere il vento con quel rimedio che sa di cose antiche e buone ma non aveva fatto i conti con gli allegati. Il quotidiano, il libro, il cd, la videocassetta lo appesantivano così tanto che aveva dovuto ricorrere al doping per riuscire a completare la gara.



La storia si ripete e si amplifica: analizziamo uno dei tanti casi. Che ne so? Io mi ricordo quando Repubblica propose l'enciclopedia Utet in 20 agili volumi. Ma è già preistoria. Faccio un piccolo viaggio nel tempo, che al mio cuginetto di cinque anni gilel'ho detto: tutti possiamo viaggiare nel tempo, bastano i ricordi. Gabriellino ci ha creduto e per due settimane mi ha chiesto se poteva tornare il bravo bambino che era prima di abusare delle parolacce appena imparate. Ecco, mi auguro che la stessa voglia possa venire a noi Lettori di quotidiani.



Dicevo: viaggio nel tempo, mi ricordo quella mattina di settembre del 2003.

L'Edicolante (idea Universale che raggruppa tutti gli edicolanti del mondo) aspira sempre a guadagnarsi un aggettivo possessivo: vuole essere il TUO EDICOLANTE. Anzi, di più, vuole essere il Tuo Edicolante Di Fiducia, il tuo edicolante Hi-Fi. Ammiro questa dedizione ma c'è al fondo nero del barattolo un paradosso. Per chi come me ama vagabondare da un'edicola all'altra sulla scia delle emozioni (e soprattutto per non trovarsi di fronte all'imbarazzante situazione di un conto di 75 euro alla tua richiesta del Corriere della Sera [sommando quello che il tuo edicolante gentilmente ti mette da parte]). Il sistema però mi (ci?) impedisce di svolazzare da un'edicola all'altra. Anche se voglio acquistare mi impediscono di farlo.

E passi pure l'arrembaggio vergognoso che scatenano i volumi gratis dati in pasto alla massa per innestare la fidelizzazione (ho visto cose che voi Lettori non potete neanche immaginare: Giufà qualsiasi scesi dalla campagna alla ricerca del Nome di Rosa con l'Eco [offerta lancio del primo volume della biblioteca del 900 di repubblica] o peggio ancora le orde barbare che reclamavano pane e enciclopedie, tutti volevano il sapere dalla A alla Apra, anche in duplice copia, se possibile. E poi col Caravaggio del Corriere, insomma la storia si ripete ogni ad maledetta nuova raccolta. Con L'universo di Repubblica, tutti con in mano i baffi di Hemingway...



Ma c'è qualcosa che mi fa prudere il cervello e rotolare innominabili estremità sferiche. Passo ai fatti e poi tiro le somme.

Ogni mattina il mio cane mi porta a passeggiare (chiunque abbia un quattrozampe capirà cosa intendo: siamo noi attaccati al guinzaglio e non viceversa), e ogni mattina vedo lei: l'edicola ottagonale di fronte alla sede distaccata del Municipio. L'edicola ottagonale è ancora in ferro e vetro, senza orpelli di plexiglass e alluminio lucidato a specchio e senza nemmeno una maniglia cromata. Un'edicola che sa di passato, un piatto bello pieno in cui saziarsi di parole stampate. Procedo: attacco il cane a un palo dell'Enel, ci ripenso e preferisco una zampa di una moscia panchina di ferro e mi appropinquo. Chiedo il Corriere della Sera con il doppio CD di Battiato. Preparo già dieci facce di Dante sul palmo della mano.

E l'edicolante mi risponde laconico: "esaurito".

Cribbio, penso: sono le 7:17, ci sono lettori così mattinieri? Il Corriere c'è, è ancora impacchettato, il CD si è già estinto.

Stavolta dico basta, mi piazzo sulla panchina e lì attendo. Perché, cascasse il mondo, voglio vederci chiaro in questa faccenda. E resto lì, col cane che mi slinguazza le mani. Si fanno le 8 ed ecco arrivare la processione dei dipendenti del Municipio.

Tempero l'udito e la vista ed ecco che i miei sospetti si concretizzano.

"Dottore, tenga il Corriere col BATTIATO, gliel'ho tenuto da parte."

Mi vedo come in una foto. La mia faccia una maschera di rabbia, la faccia dell'edicolante ridotta a brandelli di pelle, sangue e spregiudicato senso degli affari; i denti lucidi sull'asfalto. Riapro gli occhi e placidamente, senza far nulla, riprendo il mio vagare.



Perché questo è il mercato, dolcezza! E non posso farci niente. Mi auguro che almeno Tullio Avoledo ne tragga un nuovo "elenco telefonico"...

la guerra selvaggia degli allegati

É sempre tempo di raccolte, i quotidiani e i periodici, da tempo, allegano qualsiasi cosa: dvd, cd interattivi, libri, enciclopedie, videocassette, cataloghi d'arte, antologie di fumetti, saggi storici, dossier monotematici, video-inchieste, etc. etc. perfino gli intoccabili Meridiani che costituivano il mio desiderio nascosto... quante letterine a Babbo Natale per averli tutti, almeno uno all'anno. Approfittando dello sconto di Dieci Euro che la Mondadori concedeva...



Bene, mi fa piacere, è sempre cultura. Certo, lontana anni luce dalla cultura spazza-sofferenze che sognavano i baffi di Elio Vittorini sull'editoriale del primo numero del Politecnico, ma le coordinate e le ascisse spazio-temporali mutano gusti e preferenze.



Non basta più il contenuto del giornale a stimolare l'acquisto. E Gianni Riotta può continuare a dire all'infinito che la mano oscura che cerca di strizzare il Corriere lo fa perché ancora i giornali e i giornalisti sono visti con un senso di rispetto. Il giornale vacilla, anzi: il quotidiano è diventato quell'entità cartacea che danno come allegato alla videocassetta o alle tette del calendario. Lo usano per avvolgere il volume, come prima facevano le venditrici di uova "a parte di casa". La stessa fine che facevano gli articoli di Alberoni del lunedì del Corriere secondo Michele

Serra: finivano ad avvolgere la verdura ancora prima di essere letti... Ora tocca a tutto il quotidiano, pure alle AMACHE del suddetto Serra. Non è servito a nulla la patina di colore della versione FULL COLOR che ora ci delizia le giornate.



Mi è venuto a trovare un ricordo, un piccolo sketch di Gene Gnocchi (che non ho mai capito se mi sta simpatico o no, o proprio la sua schietta antipatia me lo rende simpatico?): Gene era un ciclista dopato e narrava le origini del suo dramma. Era tutta colpa degli inserti e degli allegati dei giornali.

Voleva semplicemente un giornale da mettere nella giacchetta per combattere il vento con quel rimedio che sa di cose antiche e buone ma non aveva fatto i conti con gli allegati. Il quotidiano, il libro, il cd, la videocassetta lo appesantivano così tanto che aveva dovuto ricorrere al doping per riuscire a completare la gara.



La storia si ripete e si amplifica: analizziamo uno dei tanti casi. Che ne so? Io mi ricordo quando Repubblica propose l'enciclopedia Utet in 20 agili volumi. Ma è già preistoria. Faccio un piccolo viaggio nel tempo, che al mio cuginetto di cinque anni gilel'ho detto: tutti possiamo viaggiare nel tempo, bastano i ricordi. Gabriellino ci ha creduto e per due settimane mi ha chiesto se poteva tornare il bravo bambino che era prima di abusare delle parolacce appena imparate. Ecco, mi auguro che la stessa voglia possa venire a noi Lettori di quotidiani.



Dicevo: viaggio nel tempo, mi ricordo quella mattina di settembre del 2003.

L'Edicolante (idea Universale che raggruppa tutti gli edicolanti del mondo) aspira sempre a guadagnarsi un aggettivo possessivo: vuole essere il TUO EDICOLANTE. Anzi, di più, vuole essere il Tuo Edicolante Di Fiducia, il tuo edicolante Hi-Fi. Ammiro questa dedizione ma c'è al fondo nero del barattolo un paradosso. Per chi come me ama vagabondare da un'edicola all'altra sulla scia delle emozioni (e soprattutto per non trovarsi di fronte all'imbarazzante situazione di un conto di 75 euro alla tua richiesta del Corriere della Sera [sommando quello che il tuo edicolante gentilmente ti mette da parte]). Il sistema però mi (ci?) impedisce di svolazzare da un'edicola all'altra. Anche se voglio acquistare mi impediscono di farlo.

E passi pure l'arrembaggio vergognoso che scatenano i volumi gratis dati in pasto alla massa per innestare la fidelizzazione (ho visto cose che voi Lettori non potete neanche immaginare: Giufà qualsiasi scesi dalla campagna alla ricerca del Nome di Rosa con l'Eco [offerta lancio del primo volume della biblioteca del 900 di repubblica] o peggio ancora le orde barbare che reclamavano pane e enciclopedie, tutti volevano il sapere dalla A alla Apra, anche in duplice copia, se possibile. E poi col Caravaggio del Corriere, insomma la storia si ripete ogni ad maledetta nuova raccolta. Con L'universo di Repubblica, tutti con in mano i baffi di Hemingway...



Ma c'è qualcosa che mi fa prudere il cervello e rotolare innominabili estremità sferiche. Passo ai fatti e poi tiro le somme.

Ogni mattina il mio cane mi porta a passeggiare (chiunque abbia un quattrozampe capirà cosa intendo: siamo noi attaccati al guinzaglio e non viceversa), e ogni mattina vedo lei: l'edicola ottagonale di fronte alla sede distaccata del Municipio. L'edicola ottagonale è ancora in ferro e vetro, senza orpelli di plexiglass e alluminio lucidato a specchio e senza nemmeno una maniglia cromata. Un'edicola che sa di passato, un piatto bello pieno in cui saziarsi di parole stampate. Procedo: attacco il cane a un palo dell'Enel, ci ripenso e preferisco una zampa di una moscia panchina di ferro e mi appropinquo. Chiedo il Corriere della Sera con il doppio CD di Battiato. Preparo già dieci facce di Dante sul palmo della mano.

E l'edicolante mi risponde laconico: "esaurito".

Cribbio, penso: sono le 7:17, ci sono lettori così mattinieri? Il Corriere c'è, è ancora impacchettato, il CD si è già estinto.

Stavolta dico basta, mi piazzo sulla panchina e lì attendo. Perché, cascasse il mondo, voglio vederci chiaro in questa faccenda. E resto lì, col cane che mi slinguazza le mani. Si fanno le 8 ed ecco arrivare la processione dei dipendenti del Municipio.

Tempero l'udito e la vista ed ecco che i miei sospetti si concretizzano.

"Dottore, tenga il Corriere col BATTIATO, gliel'ho tenuto da parte."

Mi vedo come in una foto. La mia faccia una maschera di rabbia, la faccia dell'edicolante ridotta a brandelli di pelle, sangue e spregiudicato senso degli affari; i denti lucidi sull'asfalto. Riapro gli occhi e placidamente, senza far nulla, riprendo il mio vagare.



Perché questo è il mercato, dolcezza! E non posso farci niente. Mi auguro che almeno Tullio Avoledo ne tragga un nuovo "elenco telefonico"...

domenica 28 agosto 2005

Bagheria mori' d'improvviso (2)

due





– Sei bella stasera, come una poesia di Paul Celan. Prima che lo sconforto se lo portasse via. Lo sai perché iniziò a scrivere? Per sopravvivere. Per dire al mondo che era ancora vivo e capace d’amare. – Nino s’era innamorato davvero. Certe cose si sentono. Dentro, più in fondo. È come quando a un banchetto mangi troppo e riesci a capire quale sarà la tartina o la cucchiaiata di cous-cous che ti condurrà all’indigestione.



Quella dell’amore come indigestione era una delle tante teorie sballate del neolaureato. Ma Gisella lo amava anche per questo, perché il mondo non le sembrava più così mediocre da quel venerdì di fine ottobre che l’aveva incontrato alla Feltrinelli di via Maqueda. Se l’avesse saputo, il professore avrebbe avuto un'altra stella d’orgoglio da appuntarsi in petto, Nino aveva trovato l’amore in libreria, dove lui stesso l’aveva mandato a cercarlo.



Nino se lo ricordava bene, il professore non aveva voluto insegnargli come si faceva un nodo scorsoio e lui, che già aveva difficoltà ad annodar cravatte, aveva desistito dal suo intento. Il professore però l’aveva spedito a comprare le poesie di Celan e lui l’aveva ascoltato.



E s’era laureato proprio con una tesi su Celan e, quando fu il momento di decidere che sentiero imboccare, scelse di tentare il dottorato di ricerca proprio grazie alla sua bella tesi. In quel venerdì d’ottobre doveva comprare due libri per il dottorato, i libri non erano arrivati ma trovò qualcosa di meglio: Gisella.

Quindi, con un'altra delle sue famose deduzioni sbilenche, Nino era giunto alla conclusione che Gisella gliel’aveva fatta conoscere il Professore. E si mise pure in testa che doveva andarlo a ringraziare.



Ci andò una mattina di settembre, con la barbetta rifilata a dovere e il ciuffo imbrigliato dal gel. Il professore lo accolse con un abbraccio.

L’appartamento del Prof. era colorato come un tramonto, tutti i toni caldi del mare al crepuscolo, quando la stella gialla si va a bagnare i filamenti di idrogeno a pelo d’acqua.

In quella casa Nino aveva passato tanti pomeriggi, intento a condire le sue filippiche con il sottofondo del pensiero e della pipa del professore.



- Nino, stavolta che cos’è? Che cos’è che ti avvampa il cuore? Se resterà anche una sola cosa di questo mio transito terrestre, vorrei che fosse avvolto dalla stessa luce che finalmente hai pure tu. - Ho trovato quello che cercavo da una vita. E ora tutto ce l’ha un senso. Tutte le notti a faccia a faccia col nulla, il sapore delle parole antiche che nessuno compone più, suona bene questa vita nuova, suona giusta. Solo che qui c'è qualcosa che attenta sempre alla nostra felicità, cercano di squagliarci i sogni nel loro acido di malinconia.

- Lo so. Sono quarant’anni che voglio mandare tutto all’aria e andare a scaldarmi le ossa in una spiaggia. Come fanno quelli che ce l’hanno il coraggio di cambiare davvero. Ma tutto quello che mi lega qui mi sembra sempre così precario, penso sempre che devo esserci. Devo esserci quando nascono i miei nipoti. Devo essere in fondo all’aula comunale quando cercano di dire che la mafia non esiste.

- Lo dicono ancora! È agghiacciante: arrestano un boss e qui fanno la fiaccolata per rilasciarlo. Perché era solo "un povero cristo", "uno che lavorava e faceva lavorare". E ora cercano il capo dei capi proprio sotto la strada che porta al liceo. C’è una certa ironia: chissà quante volte ho camminato sulla testa del Boss. E forse quell’anarchica della mia cagnolona gli ha pure cacato sulla pelata. Ma da dove viene tutta questa delusione? Cos’è che ci ha avvelenato il sangue e i fogli di tutti i nostri futuri calendari? I progetti si seccano presto. Per quanto puoi combattere come l’hidalgo di Cervantes? Di volare con la testa e col cuore nessuno ne ha più voglia. Lo sento: capiterà pure a me se non faccio qualcosa.



Il prof ascoltava e annuiva. Annuiva pure la sua pipa che faceva nuvolette che si spegnevano presto, come le promesse di un bambino che si è appena mangiato tutti i pan di stelle.

- Io non ci credo che tutti sono marci. Non è possibile. Nessuno può volere segarsi via le ali e dire addio al mondo e ai sogni. Qual è l’origine di tutto? Lei non può non saperlo. Ha speso tutta la vita per cercare di capire.

- Prima dimmi una cosa: hai mai provato l’abbandono?



Nino ci pensò su e poi disse un sì netto.



- E allora sai che è la sensazione peggiore che qualcuno possa sperimentare. Può condurre alla pazzia. Soprattutto perché chi abbandona lo fa sempre in modo subdolo. Non ti lascia intuire nulla, dall’oggi al domani ti ritrovi il letto vuoto e troppo grande. Dai amore e ricevi una coltellata da chi proprio non t’aspettavi e, ancora peggio, sei pronto a porgere ancora una volta il petto. Perché non puoi crederci, non vuoi crederci che chi ti ha detto tutte quelle belle parole che vibravano di forza e verità, spargeva nell'aria della notte solo minchiate orbe che t’hanno obnubilato l’autostima.

- Analisi perfetta…

- Già, l’ho provata mille e mille volte. Una piccola morte che ti taglia via, ti scaglia lontano dal tuo sorriso più bello. Ti toglie la speranza. E quando ti muore la speranza non puoi fare altro che aspettare. Al buio.

- E questo che c’entra con quello che sta accadendo a Bagheria? Perché lo sa che è vero: qualcosa sta accelerando il processo, la cancrena non si arresta…

- C’entra, eccome se c'entra. Bagheria, la Sicilia, i siciliani si sono sentiti abbandonati. Da sempre, dallo Stato, dai vari politici che hanno fatto incetta di voti e ci hanno lasciato soli. Sempre di più. Compriamo l’acqua per cucinare pure un tegamino di pasta. Ci mancano i servizi minimi. E il lavoro è un’utopia. E ora la precarietà a cui hanno consegnato il vostro futuro farà il resto. Il “posto” diventerà il vostro sogno proibito. Andrete avanti, per inerzia. Sentendovi sempre più abbandonati e inizierete a fare cose stupide. Guarda: ora sono gli emulatori dei lanciatori di sassi dal cavalcavia. Lanciano perché pensano che è l’unico modo per ricordare al mondo e al telegiornale che esiste pure l’isola triangolare. Che non deve esserci solo quando servono tutti e sessantuno i nostri seggi, o quando a qualcuno viene la fregola della crema al pistacchio.

- Ci hanno abbandonato tutti. Gli americani ci avevano detto che saremmo diventati una delle stelle della loro bandiera. Hanno preferito l’Alaska. E ho detto tutto. Una landa di ghiaccio perché qui c’erano troppi soldi in ballo. Le analisi si perdono, perché tra le coppole non si può mai muoversi senza temere di ricevere una schioppettata in piena faccia. O saltare in aria con tutta un’autostrada. Chi ha provato a lottare è andato a concimare la terra.

- Già, un giorno scriverò la mia "Antologia di Spoon River". Farò parlare loro, le anime dei morti, di quelli delusi e di quelli incazzati. Sono, siamo sempre di più...

Bagheria mori' d'improvviso (2)

due





– Sei bella stasera, come una poesia di Paul Celan. Prima che lo sconforto se lo portasse via. Lo sai perché iniziò a scrivere? Per sopravvivere. Per dire al mondo che era ancora vivo e capace d’amare. – Nino s’era innamorato davvero. Certe cose si sentono. Dentro, più in fondo. È come quando a un banchetto mangi troppo e riesci a capire quale sarà la tartina o la cucchiaiata di cous-cous che ti condurrà all’indigestione.



Quella dell’amore come indigestione era una delle tante teorie sballate del neolaureato. Ma Gisella lo amava anche per questo, perché il mondo non le sembrava più così mediocre da quel venerdì di fine ottobre che l’aveva incontrato alla Feltrinelli di via Maqueda. Se l’avesse saputo, il professore avrebbe avuto un'altra stella d’orgoglio da appuntarsi in petto, Nino aveva trovato l’amore in libreria, dove lui stesso l’aveva mandato a cercarlo.



Nino se lo ricordava bene, il professore non aveva voluto insegnargli come si faceva un nodo scorsoio e lui, che già aveva difficoltà ad annodar cravatte, aveva desistito dal suo intento. Il professore però l’aveva spedito a comprare le poesie di Celan e lui l’aveva ascoltato.



E s’era laureato proprio con una tesi su Celan e, quando fu il momento di decidere che sentiero imboccare, scelse di tentare il dottorato di ricerca proprio grazie alla sua bella tesi. In quel venerdì d’ottobre doveva comprare due libri per il dottorato, i libri non erano arrivati ma trovò qualcosa di meglio: Gisella.

Quindi, con un'altra delle sue famose deduzioni sbilenche, Nino era giunto alla conclusione che Gisella gliel’aveva fatta conoscere il Professore. E si mise pure in testa che doveva andarlo a ringraziare.



Ci andò una mattina di settembre, con la barbetta rifilata a dovere e il ciuffo imbrigliato dal gel. Il professore lo accolse con un abbraccio.

L’appartamento del Prof. era colorato come un tramonto, tutti i toni caldi del mare al crepuscolo, quando la stella gialla si va a bagnare i filamenti di idrogeno a pelo d’acqua.

In quella casa Nino aveva passato tanti pomeriggi, intento a condire le sue filippiche con il sottofondo del pensiero e della pipa del professore.



- Nino, stavolta che cos’è? Che cos’è che ti avvampa il cuore? Se resterà anche una sola cosa di questo mio transito terrestre, vorrei che fosse avvolto dalla stessa luce che finalmente hai pure tu. - Ho trovato quello che cercavo da una vita. E ora tutto ce l’ha un senso. Tutte le notti a faccia a faccia col nulla, il sapore delle parole antiche che nessuno compone più, suona bene questa vita nuova, suona giusta. Solo che qui c'è qualcosa che attenta sempre alla nostra felicità, cercano di squagliarci i sogni nel loro acido di malinconia.

- Lo so. Sono quarant’anni che voglio mandare tutto all’aria e andare a scaldarmi le ossa in una spiaggia. Come fanno quelli che ce l’hanno il coraggio di cambiare davvero. Ma tutto quello che mi lega qui mi sembra sempre così precario, penso sempre che devo esserci. Devo esserci quando nascono i miei nipoti. Devo essere in fondo all’aula comunale quando cercano di dire che la mafia non esiste.

- Lo dicono ancora! È agghiacciante: arrestano un boss e qui fanno la fiaccolata per rilasciarlo. Perché era solo "un povero cristo", "uno che lavorava e faceva lavorare". E ora cercano il capo dei capi proprio sotto la strada che porta al liceo. C’è una certa ironia: chissà quante volte ho camminato sulla testa del Boss. E forse quell’anarchica della mia cagnolona gli ha pure cacato sulla pelata. Ma da dove viene tutta questa delusione? Cos’è che ci ha avvelenato il sangue e i fogli di tutti i nostri futuri calendari? I progetti si seccano presto. Per quanto puoi combattere come l’hidalgo di Cervantes? Di volare con la testa e col cuore nessuno ne ha più voglia. Lo sento: capiterà pure a me se non faccio qualcosa.



Il prof ascoltava e annuiva. Annuiva pure la sua pipa che faceva nuvolette che si spegnevano presto, come le promesse di un bambino che si è appena mangiato tutti i pan di stelle.

- Io non ci credo che tutti sono marci. Non è possibile. Nessuno può volere segarsi via le ali e dire addio al mondo e ai sogni. Qual è l’origine di tutto? Lei non può non saperlo. Ha speso tutta la vita per cercare di capire.

- Prima dimmi una cosa: hai mai provato l’abbandono?



Nino ci pensò su e poi disse un sì netto.



- E allora sai che è la sensazione peggiore che qualcuno possa sperimentare. Può condurre alla pazzia. Soprattutto perché chi abbandona lo fa sempre in modo subdolo. Non ti lascia intuire nulla, dall’oggi al domani ti ritrovi il letto vuoto e troppo grande. Dai amore e ricevi una coltellata da chi proprio non t’aspettavi e, ancora peggio, sei pronto a porgere ancora una volta il petto. Perché non puoi crederci, non vuoi crederci che chi ti ha detto tutte quelle belle parole che vibravano di forza e verità, spargeva nell'aria della notte solo minchiate orbe che t’hanno obnubilato l’autostima.

- Analisi perfetta…

- Già, l’ho provata mille e mille volte. Una piccola morte che ti taglia via, ti scaglia lontano dal tuo sorriso più bello. Ti toglie la speranza. E quando ti muore la speranza non puoi fare altro che aspettare. Al buio.

- E questo che c’entra con quello che sta accadendo a Bagheria? Perché lo sa che è vero: qualcosa sta accelerando il processo, la cancrena non si arresta…

- C’entra, eccome se c'entra. Bagheria, la Sicilia, i siciliani si sono sentiti abbandonati. Da sempre, dallo Stato, dai vari politici che hanno fatto incetta di voti e ci hanno lasciato soli. Sempre di più. Compriamo l’acqua per cucinare pure un tegamino di pasta. Ci mancano i servizi minimi. E il lavoro è un’utopia. E ora la precarietà a cui hanno consegnato il vostro futuro farà il resto. Il “posto” diventerà il vostro sogno proibito. Andrete avanti, per inerzia. Sentendovi sempre più abbandonati e inizierete a fare cose stupide. Guarda: ora sono gli emulatori dei lanciatori di sassi dal cavalcavia. Lanciano perché pensano che è l’unico modo per ricordare al mondo e al telegiornale che esiste pure l’isola triangolare. Che non deve esserci solo quando servono tutti e sessantuno i nostri seggi, o quando a qualcuno viene la fregola della crema al pistacchio.

- Ci hanno abbandonato tutti. Gli americani ci avevano detto che saremmo diventati una delle stelle della loro bandiera. Hanno preferito l’Alaska. E ho detto tutto. Una landa di ghiaccio perché qui c’erano troppi soldi in ballo. Le analisi si perdono, perché tra le coppole non si può mai muoversi senza temere di ricevere una schioppettata in piena faccia. O saltare in aria con tutta un’autostrada. Chi ha provato a lottare è andato a concimare la terra.

- Già, un giorno scriverò la mia "Antologia di Spoon River". Farò parlare loro, le anime dei morti, di quelli delusi e di quelli incazzati. Sono, siamo sempre di più...

mercoledì 24 agosto 2005

marco s'è trasferito su vibrisse

«Scrivo da quando ho dodici anni – anche se la mia prima esperienza di scrittura è stata con una Lettera 32 a undici anni (mi sono subito messo a scrivere un romanzo – non un racconto o una poesia o una riflessione: dico: proprio un romanzo; il che mi sembra molto significativo: sedersi davanti a una macchina per scrivere con l’intenzione di dare corpo a uno scritto lungo e articolato credo significhi più di tutto che non ci si è seduti lì per caso, ma per starci).

Non mi vergogno ad ammettere queste cose; so di persone che si vergognano ad ammetterle – e si inventano storie le più strampalate. Io no. Poi dico queste cose anche perché si capisca che la scrittura non è un’attività che ho cominciato in seguito alla lettura di qualche autore particolare (in effetti a undici anni non avevo ancora letto nessun libro di narrativa – anche se ero rimasto molto colpito dalle copertine dei libri di Agata Christie; osservavo le copertine e dai titoli cercavo di immaginarmi il contenuto del libro) o in seguito alla frequentazione di qualche autore particolare. Il mio è sempre stato e continua a essere un desiderio e un bisogno autentico.»



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marco s'è trasferito su vibrisse

«Scrivo da quando ho dodici anni – anche se la mia prima esperienza di scrittura è stata con una Lettera 32 a undici anni (mi sono subito messo a scrivere un romanzo – non un racconto o una poesia o una riflessione: dico: proprio un romanzo; il che mi sembra molto significativo: sedersi davanti a una macchina per scrivere con l’intenzione di dare corpo a uno scritto lungo e articolato credo significhi più di tutto che non ci si è seduti lì per caso, ma per starci).

Non mi vergogno ad ammettere queste cose; so di persone che si vergognano ad ammetterle – e si inventano storie le più strampalate. Io no. Poi dico queste cose anche perché si capisca che la scrittura non è un’attività che ho cominciato in seguito alla lettura di qualche autore particolare (in effetti a undici anni non avevo ancora letto nessun libro di narrativa – anche se ero rimasto molto colpito dalle copertine dei libri di Agata Christie; osservavo le copertine e dai titoli cercavo di immaginarmi il contenuto del libro) o in seguito alla frequentazione di qualche autore particolare. Il mio è sempre stato e continua a essere un desiderio e un bisogno autentico.»



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lunedì 22 agosto 2005

Meridiani con la Vaginite

E siamo arrivati anche a questo: i Meridiani ora escono col Tu!* (ovvero con uno di quei tanti giornali colmi di munnizza femminina).

La prossima settimana Hemingway a solo 1 euro in più. E pensare che prima erano la collana più prestigiosa (49 euro l'uno!)... Rappresentavano la consacrazione a classico per un contemporaneo. Addirittura quando pubblicarono quelli di Camilleri si gridò allo scandalo...

Sono un piccolo reazionario. Prima comprare un meridiano all'anno era per me un rito ineluttabile. Approfittavo dello sconto di Natale. E ora?

Va bene, la diffusione culturale... la cultura alle masse.

Però un discorso è abbinare Tutto Pavese con L'Espresso, altro Calvino col TU!



Dico, ritrovarsi Palomar e la conclusione sulle lucciole che chiude il sentiero dei nidi di ragno tra la pubblicità dell'assorbente per tanga e il test su che tipo di amante sei...

Vacillano pure le certezze della lobby culturale. A quando l'opera di Spadaro nel Dash?



Comunque, reazionario sì, scemo no. Ho ordinato due copie del meridiano in questione. E se gli altri sono sotto i 20 euro li prendo (quasi) tutti...



*nella pubblicità c'è scritto che escono anche con tutti gli altri periodici mondadori




I Meridiani, frutto di un'iniziativa unica nel panorama editoriale italiano, nacquero nel 1969. L'intento era di offrire al pubblico - in una raffinata, maneggevole veste editoriale, capace di soddisfare anche il bibliofilo più esigente - le opere degli scrittori più rappresentativi di tutti i tempi e di tutte le letterature. Il progetto iniziale, promosso da Arnoldo Mondadori, venne elaborato e approfondito da Giansiro Ferrata (il primo direttore della collana), da Vittorio Sereni, da Sergio Polillo e da altri. Dopo qualche tempo, divenne responsabile editoriale della collezione Luciano De Maria, l'attuale "editore incaricato" dei Classici e direttore della collana.
Nell'affrontare il primo programma della collezione che affiancava ai classici antichi e moderni alcuni prestigiosi autori novecenteschi, la Mondadori poteva valersi delle ingenti risorse del suo catalogo che da anni teneva in esclusiva scrittori come Kafka, Joyce, Mann, Ungaretti, Montale, ecc. Nel giro di qualche anno la collezione si affermò pienamente presso i lettori, pubblicando via via le poesie di Ungaretti e di Quasimodo, i romanzi di Kafka, L'Ulisse di Joyce, le Opere scelte di Poe, il Faust di Goethe, ecc. Tra le iniziative culturalmente più prestigiose sono da segnalare l'edizione con testo a fronte del "Teatro completo" di Shakespeare a cura di Giorgio Melchiori; tutte le "Opere" di Pirandello nella nuova edizione diretta da Giovanni Macchia; e "Alla ricerca del tempo perduto" di Proust, tradotta interamente dal solo Giovanni Raboni (e, per la prima volta nell'editoria mondiale, commentata da Alberto Beretta Anguissola e Daria Galateria). A queste iniziative, si sono aggiunte "Tutte le poesie" di Goethe, pubblicate integralmente, fuori di Germania, per la prima volta nel mondo, con testo originale a fronte, un ampio commento e traduzione parziale delle "auto-chiose" goethiane.

Meridiani con la Vaginite

E siamo arrivati anche a questo: i Meridiani ora escono col Tu!* (ovvero con uno di quei tanti giornali colmi di munnizza femminina).

La prossima settimana Hemingway a solo 1 euro in più. E pensare che prima erano la collana più prestigiosa (49 euro l'uno!)... Rappresentavano la consacrazione a classico per un contemporaneo. Addirittura quando pubblicarono quelli di Camilleri si gridò allo scandalo...

Sono un piccolo reazionario. Prima comprare un meridiano all'anno era per me un rito ineluttabile. Approfittavo dello sconto di Natale. E ora?

Va bene, la diffusione culturale... la cultura alle masse.

Però un discorso è abbinare Tutto Pavese con L'Espresso, altro Calvino col TU!



Dico, ritrovarsi Palomar e la conclusione sulle lucciole che chiude il sentiero dei nidi di ragno tra la pubblicità dell'assorbente per tanga e il test su che tipo di amante sei...

Vacillano pure le certezze della lobby culturale. A quando l'opera di Spadaro nel Dash?



Comunque, reazionario sì, scemo no. Ho ordinato due copie del meridiano in questione. E se gli altri sono sotto i 20 euro li prendo (quasi) tutti...



*nella pubblicità c'è scritto che escono anche con tutti gli altri periodici mondadori




I Meridiani, frutto di un'iniziativa unica nel panorama editoriale italiano, nacquero nel 1969. L'intento era di offrire al pubblico - in una raffinata, maneggevole veste editoriale, capace di soddisfare anche il bibliofilo più esigente - le opere degli scrittori più rappresentativi di tutti i tempi e di tutte le letterature. Il progetto iniziale, promosso da Arnoldo Mondadori, venne elaborato e approfondito da Giansiro Ferrata (il primo direttore della collana), da Vittorio Sereni, da Sergio Polillo e da altri. Dopo qualche tempo, divenne responsabile editoriale della collezione Luciano De Maria, l'attuale "editore incaricato" dei Classici e direttore della collana.
Nell'affrontare il primo programma della collezione che affiancava ai classici antichi e moderni alcuni prestigiosi autori novecenteschi, la Mondadori poteva valersi delle ingenti risorse del suo catalogo che da anni teneva in esclusiva scrittori come Kafka, Joyce, Mann, Ungaretti, Montale, ecc. Nel giro di qualche anno la collezione si affermò pienamente presso i lettori, pubblicando via via le poesie di Ungaretti e di Quasimodo, i romanzi di Kafka, L'Ulisse di Joyce, le Opere scelte di Poe, il Faust di Goethe, ecc. Tra le iniziative culturalmente più prestigiose sono da segnalare l'edizione con testo a fronte del "Teatro completo" di Shakespeare a cura di Giorgio Melchiori; tutte le "Opere" di Pirandello nella nuova edizione diretta da Giovanni Macchia; e "Alla ricerca del tempo perduto" di Proust, tradotta interamente dal solo Giovanni Raboni (e, per la prima volta nell'editoria mondiale, commentata da Alberto Beretta Anguissola e Daria Galateria). A queste iniziative, si sono aggiunte "Tutte le poesie" di Goethe, pubblicate integralmente, fuori di Germania, per la prima volta nel mondo, con testo originale a fronte, un ampio commento e traduzione parziale delle "auto-chiose" goethiane.

venerdì 12 agosto 2005

Bagheria morì d'improvviso

Di freak siciliani mi sono ingozzato per troppo tempo. Cucuzze e le sue derivazioni sono state solo un esercizio di stile. Ecco, l'amico Demetrio s'augurava che prima o poi mi dessi una smossa. Che trovassi finalmente la forza di scrivere qualcosa di nuovo e di bello. Non lo so se questa cosa che vi lascio prima dell'ultima micro-vacanza può leggersi in quella direzione. So solo che era un anno che non mi sentivo così bene dopo aver lasciato libere le dita nella tastiera.
Buona lettura



....



Bagheria morì d'improvviso, una mattina di inverno. Morì in silenzio, così come aveva vissuto, stanca di essere nominata nei tg sempre con la stessa presentazione, fotografata sempre di profilo, coi vecchietti sullo sfondo a giocare a carte.

Morì che tutti eravamo distratti, accecati dall'amore o persi ad inseguir lucertole sui muretti di tufo. Non ci furono esplosioni, e nemmeno funghi atomici o piogge radioattive. La città si svuotò piano piano. A poco servirono le supposte di vita giovane che l'Università di Palermo gli propugnò installandosi in una delle ville seicentesche. Ancora meno fece un'intera generazione d'artisti quando decise di dipingere il centro storico con colori belli e vivi. La città si spense piano, come Orano con la peste che covava aspettando il momento giusto per ripresentarsi sulle code dei topi.



Ci provarono quelli della Sinistra Giovanile coi loro striscioni sgrammaticati, ma le loro parole non servirono a lenire la lenta agonia, non tutto era imputabile alla lotta alla pelata di Berlusconi. Pure i neri avevano poco da sventolare le croci celtiche e gli altri orpelli. Niente, tutte le proposte si arenavano e scoppiavano al sole, implodevano, si piegavano scimmiotando al contrario i girasoli: invece di seguire il moto della nostra stella gialla, i bagheresi si spingevano sempre più giù, sempre più al fondo, nel buio delle soffitte che dividevano coi sorci verdi che i nonni usavano per terrorizzare i nipoti.



Davanti a un bar del corso il garzone continuava a gettare manate di sale, per scacciare il lercio dai pavimenti lastricati di belle e inutili intenzioni. Non servivano i comizi, non serviva nulla. Nemmeno andarsene era una soluzione. E così, anno dopo anno, la città sembrava il set di un film di Romero. Ma almeno nella pellicola c'erano gli zombi, qui manco quelli, nessuno se la sentiva nemmeno di barcollare. Vivacchiavamo a stento. E la fine sembrò più vicina quando anch'io andai in pensione.



Per anni dalla mia cattedra avevo provato a smuovere le coscienze. Cercavo di svegliare i più giovani dal torpore che s'era già portato via pure i miei due figli. Tutti mi dicevano che ero pazzo, che la mia azione era l'ennesima lotta contro i mulini al vento. Che le mie parole erano più inutili dei legnetti del gelato, che almeno quelli servivano a togliere la merda dalle scarpe. I miei discorsi invece ammontichiavano deiezioni ideologiche in quei cervelli troppo giovani per avere già provato quell'impermeabilità alla speranza che costituisce il filamento di DNA che ci accomuna tutti: dal giornalaio al benzinaio, dal ladro al pescivendolo. Tutti abbiamo l'anima intossicata da un disamore tetro e coriaceo.



Ma almeno un manipolo dei miei studenti ce la farà, ne sono certo. Smuoverà questo stagno putrido prima dell'estrema unzione.

Perché non ci credo che tutte queste ore di bei discorsi non hanno trovato manco un grammo nei cuori giovani e teneri di tutta una generazione. Insegno da quando ancora erano permesse le scudisciate sui palmi. Da una vita o poco più.

E la mafia può farmi uno shampoo allo scroto coi suoi silenzi e le sue mezze parole.

O può pure cacciarsi una piantagione di zucchine su per il culo di Binnu e dei suoi scagnozzi. Che a sentire il TG 5, o, almeno, quello che resta del TG 5, tra un servizio canino e l'altro, Binnu è più duro di una zucca verde. Lo paragonano a Rambo, può stare fuori, al freddo, infischiandosene dei settant'anni di vita vagabonda. Se non fosse un mafioso, sarebbe un'icona per tutta una generazione. Meglio del Che. Binnu la Bestia Sanguinaria che qui gestisce pure la caduta delle foglie d'autunno. Che controlla pure la caducità delle nostre esistenze. Che andava sino a Monreale solo per vedere i cavalli correre e poi se ne tornava sotto il suo cielo trapunto di stelle a vivere sui nostri sogni e sulle nostre speranze.



Lo possiamo capire solo noi che cos'è la mafia, quegli spilungoni di Hollywood ve ne hanno data una rappresentazione melodrammatica e ci hanno poco da ridere sulla Sicilia e sul fatto che qui tutto è melodramma. Mica che facciamo una pagina d'opera per ogni questione. beh, quasi... qui i picciriddi o si chiantano la prima bua o fanno una reazione che se la sognano pure tutti gli incornati per San Firmino. Quelli che non piangono li tirano su con una logica elementare, dicendogli che la vita va fottuta prima che ti fotta lei. Che devono campare tutti, che, chi può, deve lucrare ma sino a un certo limite. Perché tutti devono mangiare.



Me lo ricordo ancora: dovevo denunciare la nascita di mio figlio, del mio primogenito. Ci vado la stessa giornata in cui mia moglie me l'ha donato dopo dieci ore di travaglio e trovo la scrivania vuota. E vuota è pure la sedia dell'usciere. Ripasso l'indomani e si ripresenta la stessa situazione. Perché qui che cosa sia un deja-vù manco abbiamo bisogno di spiegarglielo ai bambini: l'immobilità non produce manco una momentanea sospensione dell'incredulità, né tanto meno della coscienza. Si ripresenta ogni giorno uguale che non ti meravigli se una situazione la rivivi all'infinito.

Al terzo giorno capii pure io, anzi, me lo fecero capire: se non ci mettevo in mezzo al certificato almeno diecimila lire mio figlio non sarebbe mai stato registrato. E mi piegai. Perché qua mica che puoi decidere di pisciare controvento. Lo possono fare solo loro, solo sulla tomba tua e dei tuoi ideali.



Guccini potrebbe riscriverla "Dio è morto", tagliando via l'Altissimo e rimpiazzando il grande Assente con la Speranza. Solo che l'ultima strofa potrebbe pure lasciarla come vestigia di una vecchia scoreggia. Non ci sono segnali. Mi illudo di vederli ma i segnali di fumo sono solo le emissioni di azoto che rilasciano le ossa macinate e sbiancate dal sole. Ogni mattina esco di casa presto, prima che i miei concittadini organizzino già la vita di tutta la comunità nell'intervallo tra due caffé.

Esco e prendo una copia del Corriere, me lo leggo prima del pranzo. Prima che l'acqua della pasta sia giunta ad ebollizione. Lo leggo e lo sconforto lo vedo uguale in tutto il mondo, solo che qui lo sconforto è già rassegnazione, la rassegnazione è già angoscia, e l'angoscia è già morte.



L'altra mattina ho rivisto due miei vecchi alunni, in rapida successione. Nino stava passeggiando con la sua cagnolona, l'ho riconosciuto subito, è l'unico che qui cammina con la paletta e il sacchettino per gli escrementi del quattrozampe. E poco dopo ho visto Gigi, sempre più confuso, in bilico tra i dolori del mondo e la storica mancanza di pilu femminile che gli toglie il sonno e la serenità.



Nino era sereno, un po' più stempiato, con meno pancia del solito. Forse ha trovato la donna giusta, quella che non ha mai smesso di cercare nemmeno quando voleva che gli insegnassi come fare il nodo scorsoio per dire addio al mondo e alla vita. Se dovessi indicare un campione di quel melodramma che caratterizza i siciliani, non avrei dubbi. Nino è peggio di Amleto quando inscena la sua pazzia. Solo che Nino a Bagheria ha poco da squagliare in dilemmi, nessuno gli cala più manco la testa e lo lasciano filosofeggiare sulla sua opera di attualizzazione della filosofia platonica. Già, quel ragazzo ci ha abbastanza sale in zucca e sa che i paroloni volano presto, i miti platonici invece possono arrivare alla gente e aderire meglio alle teste di ciaca dei nostri concittadini.

Ma la luce che gli ho visto negli occhi non derivava dalla laurea in filosofia che s'è beccato a dicembre. Quella è la serenità che ti dà solo un amore vissuto bene, senza intossicarsi nelle discussioni che ora vanno di moda. Senza fare i test dei giornalacci femminini per capirci. Un ragazzo, una ragazza e la voglia di stare bene assieme. Gliel'ho sempre detto ai miei picciotti che nella vita conta solo quello che la testa brillante di Mozart ci ha insegnato con la bella musica del suo Flauto Magico: ogni Papageno deve cercare la sua Papagena, la sua metà femminile che lo completa e lo appaga e allora sì che l'amore, quello vero, l'unica cosa al mondo che si merita davvero la maiuscola, ci renderà davvero liberi.



Gigi invece è buio, ma quella è solo la scoccia che offre al mondo. Mi ha detto pure che vuole piantare tutto e andare a coltivare caffé in una Comune. Io lo so che lo muove un semplice sillogismo: Gigi non trova una che gliela dà - Nella comune tutte la danno a tutti - Gigi deve andare in una Comune. Povero picciotto, nella sua semplicità mi ci rivedo prima che mi cadessero i capelli, prima che i pochi bulbi piliferi superstiti s'incanutissero.

Ecco: Gigi e Nino sono un buon punto di partenza. Li devo contattare e risvegliarli.Però dovevo agire con discrezione, senza attirare troppe curiosità. Qua le donne stanno sempre semi-nascoste dalle persiane, ore e ore, nei balconi, a gustarsi le vite degli altri. E poi parlano con chi di dovere. E pure che la mia età mi fa essere più tracotante non posso mettere nei guai quei due ragazzi. Devo agire leggio leggio, come una flatulenza nella notte.



Stamattina mi sono svegliato rinvigorito, la luce che filtrava dalle vertebre della serranda mi ha leccato via ogni timore. La speranza mi è rifiorita negli occhi, l’ho visto pure mentre mi rasavo, sorridevo di un sorriso bello e pieno. Di nuovo.



Sapevo bene quello che c’era da fare, sono stato un professore per così tanti anni che conosco le abitudini dei giovani. Non ci vuole poi molto, da che mondo e mondo, a quell’età, e non solo a quella, l’attrazione fisica muove il cuore e i piedi.

Con Nino agivo a colpo sicuro, quel sorriso non era da avventurette destinate a sbiadire presto, s’era zitato di certo con qualche brava ragazza.

Mi piazzai nella parallela alla sua strada e aspettai che cavasse fuori dal box la sua Renault 4, la macchina meno discreta del globo: una vettura verde pisello più rumorosa di una mandria di bufali d’acqua.



La mia Cinquecento poteva stare attaccata alla sua targa senza problemi. E lo feci: lo seguii, curva dopo curva, sino a Trabia. Qui si fermò in una bancarella di libri e si mise a toccare tutte le copertine dei volumi a due euro. Il mio cuore di docente di letteratura ebbe un sussulto, avevo fecondato un giovane lettore con la fiamma viva del piacere della lettura. Un fuoco inestinguibile.



Nino prese un Vittorini e due Pavese. Non poteva essere un caso. Avevo martellato i miei alunni per tutti i miei trentacinque anni di carriera sempre con “Conversazione in Sicilia” e le poesie e il diario di Cesare Pavese.

Se li fece mettere in una busta e si rimise al volante. La macchina sussultò più volte prima di accendersi.

L’ho seguito per una settimana, lasciandogli però tutta la privacy possibile e ne sono certo: so pure dove sta la sua ragazza, una ragazza bella come una promessa mantenuta. E bravo Nino!



Con Gigi fu ancora più facile, quelli che non hanno ancora il cuore arroventato dalle frecce intinte d’amore devono occupare il tempo con surrogati. Di solito i tipi come Gigi fanno giochi di ruolo o volontariato. Conoscendo il gusto per l’eccesso del mio vecchio alunno, Gigi magari fa entrambe le cose.



Di certo non farò mai un sei all’enalotto ma i miei studenti non hanno segreti per me. Gigi aiuta i bambini al doposcuola organizzato dai Gesuiti e con quelli più svegli organizza tornei di giochi di ruolo.



Io devo solo gettare l’esca, sta a loro decidere se accettare o no. Li lascerò liberi, pure di sbagliare. Pure di tirare lo sciacquone sulla loro ultima possibilità.


Bagheria morì d'improvviso

Di freak siciliani mi sono ingozzato per troppo tempo. Cucuzze e le sue derivazioni sono state solo un esercizio di stile. Ecco, l'amico Demetrio s'augurava che prima o poi mi dessi una smossa. Che trovassi finalmente la forza di scrivere qualcosa di nuovo e di bello. Non lo so se questa cosa che vi lascio prima dell'ultima micro-vacanza può leggersi in quella direzione. So solo che era un anno che non mi sentivo così bene dopo aver lasciato libere le dita nella tastiera.
Buona lettura



....



Bagheria morì d'improvviso, una mattina di inverno. Morì in silenzio, così come aveva vissuto, stanca di essere nominata nei tg sempre con la stessa presentazione, fotografata sempre di profilo, coi vecchietti sullo sfondo a giocare a carte.

Morì che tutti eravamo distratti, accecati dall'amore o persi ad inseguir lucertole sui muretti di tufo. Non ci furono esplosioni, e nemmeno funghi atomici o piogge radioattive. La città si svuotò piano piano. A poco servirono le supposte di vita giovane che l'Università di Palermo gli propugnò installandosi in una delle ville seicentesche. Ancora meno fece un'intera generazione d'artisti quando decise di dipingere il centro storico con colori belli e vivi. La città si spense piano, come Orano con la peste che covava aspettando il momento giusto per ripresentarsi sulle code dei topi.



Ci provarono quelli della Sinistra Giovanile coi loro striscioni sgrammaticati, ma le loro parole non servirono a lenire la lenta agonia, non tutto era imputabile alla lotta alla pelata di Berlusconi. Pure i neri avevano poco da sventolare le croci celtiche e gli altri orpelli. Niente, tutte le proposte si arenavano e scoppiavano al sole, implodevano, si piegavano scimmiotando al contrario i girasoli: invece di seguire il moto della nostra stella gialla, i bagheresi si spingevano sempre più giù, sempre più al fondo, nel buio delle soffitte che dividevano coi sorci verdi che i nonni usavano per terrorizzare i nipoti.



Davanti a un bar del corso il garzone continuava a gettare manate di sale, per scacciare il lercio dai pavimenti lastricati di belle e inutili intenzioni. Non servivano i comizi, non serviva nulla. Nemmeno andarsene era una soluzione. E così, anno dopo anno, la città sembrava il set di un film di Romero. Ma almeno nella pellicola c'erano gli zombi, qui manco quelli, nessuno se la sentiva nemmeno di barcollare. Vivacchiavamo a stento. E la fine sembrò più vicina quando anch'io andai in pensione.



Per anni dalla mia cattedra avevo provato a smuovere le coscienze. Cercavo di svegliare i più giovani dal torpore che s'era già portato via pure i miei due figli. Tutti mi dicevano che ero pazzo, che la mia azione era l'ennesima lotta contro i mulini al vento. Che le mie parole erano più inutili dei legnetti del gelato, che almeno quelli servivano a togliere la merda dalle scarpe. I miei discorsi invece ammontichiavano deiezioni ideologiche in quei cervelli troppo giovani per avere già provato quell'impermeabilità alla speranza che costituisce il filamento di DNA che ci accomuna tutti: dal giornalaio al benzinaio, dal ladro al pescivendolo. Tutti abbiamo l'anima intossicata da un disamore tetro e coriaceo.



Ma almeno un manipolo dei miei studenti ce la farà, ne sono certo. Smuoverà questo stagno putrido prima dell'estrema unzione.

Perché non ci credo che tutte queste ore di bei discorsi non hanno trovato manco un grammo nei cuori giovani e teneri di tutta una generazione. Insegno da quando ancora erano permesse le scudisciate sui palmi. Da una vita o poco più.

E la mafia può farmi uno shampoo allo scroto coi suoi silenzi e le sue mezze parole.

O può pure cacciarsi una piantagione di zucchine su per il culo di Binnu e dei suoi scagnozzi. Che a sentire il TG 5, o, almeno, quello che resta del TG 5, tra un servizio canino e l'altro, Binnu è più duro di una zucca verde. Lo paragonano a Rambo, può stare fuori, al freddo, infischiandosene dei settant'anni di vita vagabonda. Se non fosse un mafioso, sarebbe un'icona per tutta una generazione. Meglio del Che. Binnu la Bestia Sanguinaria che qui gestisce pure la caduta delle foglie d'autunno. Che controlla pure la caducità delle nostre esistenze. Che andava sino a Monreale solo per vedere i cavalli correre e poi se ne tornava sotto il suo cielo trapunto di stelle a vivere sui nostri sogni e sulle nostre speranze.



Lo possiamo capire solo noi che cos'è la mafia, quegli spilungoni di Hollywood ve ne hanno data una rappresentazione melodrammatica e ci hanno poco da ridere sulla Sicilia e sul fatto che qui tutto è melodramma. Mica che facciamo una pagina d'opera per ogni questione. beh, quasi... qui i picciriddi o si chiantano la prima bua o fanno una reazione che se la sognano pure tutti gli incornati per San Firmino. Quelli che non piangono li tirano su con una logica elementare, dicendogli che la vita va fottuta prima che ti fotta lei. Che devono campare tutti, che, chi può, deve lucrare ma sino a un certo limite. Perché tutti devono mangiare.



Me lo ricordo ancora: dovevo denunciare la nascita di mio figlio, del mio primogenito. Ci vado la stessa giornata in cui mia moglie me l'ha donato dopo dieci ore di travaglio e trovo la scrivania vuota. E vuota è pure la sedia dell'usciere. Ripasso l'indomani e si ripresenta la stessa situazione. Perché qui che cosa sia un deja-vù manco abbiamo bisogno di spiegarglielo ai bambini: l'immobilità non produce manco una momentanea sospensione dell'incredulità, né tanto meno della coscienza. Si ripresenta ogni giorno uguale che non ti meravigli se una situazione la rivivi all'infinito.

Al terzo giorno capii pure io, anzi, me lo fecero capire: se non ci mettevo in mezzo al certificato almeno diecimila lire mio figlio non sarebbe mai stato registrato. E mi piegai. Perché qua mica che puoi decidere di pisciare controvento. Lo possono fare solo loro, solo sulla tomba tua e dei tuoi ideali.



Guccini potrebbe riscriverla "Dio è morto", tagliando via l'Altissimo e rimpiazzando il grande Assente con la Speranza. Solo che l'ultima strofa potrebbe pure lasciarla come vestigia di una vecchia scoreggia. Non ci sono segnali. Mi illudo di vederli ma i segnali di fumo sono solo le emissioni di azoto che rilasciano le ossa macinate e sbiancate dal sole. Ogni mattina esco di casa presto, prima che i miei concittadini organizzino già la vita di tutta la comunità nell'intervallo tra due caffé.

Esco e prendo una copia del Corriere, me lo leggo prima del pranzo. Prima che l'acqua della pasta sia giunta ad ebollizione. Lo leggo e lo sconforto lo vedo uguale in tutto il mondo, solo che qui lo sconforto è già rassegnazione, la rassegnazione è già angoscia, e l'angoscia è già morte.



L'altra mattina ho rivisto due miei vecchi alunni, in rapida successione. Nino stava passeggiando con la sua cagnolona, l'ho riconosciuto subito, è l'unico che qui cammina con la paletta e il sacchettino per gli escrementi del quattrozampe. E poco dopo ho visto Gigi, sempre più confuso, in bilico tra i dolori del mondo e la storica mancanza di pilu femminile che gli toglie il sonno e la serenità.



Nino era sereno, un po' più stempiato, con meno pancia del solito. Forse ha trovato la donna giusta, quella che non ha mai smesso di cercare nemmeno quando voleva che gli insegnassi come fare il nodo scorsoio per dire addio al mondo e alla vita. Se dovessi indicare un campione di quel melodramma che caratterizza i siciliani, non avrei dubbi. Nino è peggio di Amleto quando inscena la sua pazzia. Solo che Nino a Bagheria ha poco da squagliare in dilemmi, nessuno gli cala più manco la testa e lo lasciano filosofeggiare sulla sua opera di attualizzazione della filosofia platonica. Già, quel ragazzo ci ha abbastanza sale in zucca e sa che i paroloni volano presto, i miti platonici invece possono arrivare alla gente e aderire meglio alle teste di ciaca dei nostri concittadini.

Ma la luce che gli ho visto negli occhi non derivava dalla laurea in filosofia che s'è beccato a dicembre. Quella è la serenità che ti dà solo un amore vissuto bene, senza intossicarsi nelle discussioni che ora vanno di moda. Senza fare i test dei giornalacci femminini per capirci. Un ragazzo, una ragazza e la voglia di stare bene assieme. Gliel'ho sempre detto ai miei picciotti che nella vita conta solo quello che la testa brillante di Mozart ci ha insegnato con la bella musica del suo Flauto Magico: ogni Papageno deve cercare la sua Papagena, la sua metà femminile che lo completa e lo appaga e allora sì che l'amore, quello vero, l'unica cosa al mondo che si merita davvero la maiuscola, ci renderà davvero liberi.



Gigi invece è buio, ma quella è solo la scoccia che offre al mondo. Mi ha detto pure che vuole piantare tutto e andare a coltivare caffé in una Comune. Io lo so che lo muove un semplice sillogismo: Gigi non trova una che gliela dà - Nella comune tutte la danno a tutti - Gigi deve andare in una Comune. Povero picciotto, nella sua semplicità mi ci rivedo prima che mi cadessero i capelli, prima che i pochi bulbi piliferi superstiti s'incanutissero.

Ecco: Gigi e Nino sono un buon punto di partenza. Li devo contattare e risvegliarli.Però dovevo agire con discrezione, senza attirare troppe curiosità. Qua le donne stanno sempre semi-nascoste dalle persiane, ore e ore, nei balconi, a gustarsi le vite degli altri. E poi parlano con chi di dovere. E pure che la mia età mi fa essere più tracotante non posso mettere nei guai quei due ragazzi. Devo agire leggio leggio, come una flatulenza nella notte.



Stamattina mi sono svegliato rinvigorito, la luce che filtrava dalle vertebre della serranda mi ha leccato via ogni timore. La speranza mi è rifiorita negli occhi, l’ho visto pure mentre mi rasavo, sorridevo di un sorriso bello e pieno. Di nuovo.



Sapevo bene quello che c’era da fare, sono stato un professore per così tanti anni che conosco le abitudini dei giovani. Non ci vuole poi molto, da che mondo e mondo, a quell’età, e non solo a quella, l’attrazione fisica muove il cuore e i piedi.

Con Nino agivo a colpo sicuro, quel sorriso non era da avventurette destinate a sbiadire presto, s’era zitato di certo con qualche brava ragazza.

Mi piazzai nella parallela alla sua strada e aspettai che cavasse fuori dal box la sua Renault 4, la macchina meno discreta del globo: una vettura verde pisello più rumorosa di una mandria di bufali d’acqua.



La mia Cinquecento poteva stare attaccata alla sua targa senza problemi. E lo feci: lo seguii, curva dopo curva, sino a Trabia. Qui si fermò in una bancarella di libri e si mise a toccare tutte le copertine dei volumi a due euro. Il mio cuore di docente di letteratura ebbe un sussulto, avevo fecondato un giovane lettore con la fiamma viva del piacere della lettura. Un fuoco inestinguibile.



Nino prese un Vittorini e due Pavese. Non poteva essere un caso. Avevo martellato i miei alunni per tutti i miei trentacinque anni di carriera sempre con “Conversazione in Sicilia” e le poesie e il diario di Cesare Pavese.

Se li fece mettere in una busta e si rimise al volante. La macchina sussultò più volte prima di accendersi.

L’ho seguito per una settimana, lasciandogli però tutta la privacy possibile e ne sono certo: so pure dove sta la sua ragazza, una ragazza bella come una promessa mantenuta. E bravo Nino!



Con Gigi fu ancora più facile, quelli che non hanno ancora il cuore arroventato dalle frecce intinte d’amore devono occupare il tempo con surrogati. Di solito i tipi come Gigi fanno giochi di ruolo o volontariato. Conoscendo il gusto per l’eccesso del mio vecchio alunno, Gigi magari fa entrambe le cose.



Di certo non farò mai un sei all’enalotto ma i miei studenti non hanno segreti per me. Gigi aiuta i bambini al doposcuola organizzato dai Gesuiti e con quelli più svegli organizza tornei di giochi di ruolo.



Io devo solo gettare l’esca, sta a loro decidere se accettare o no. Li lascerò liberi, pure di sbagliare. Pure di tirare lo sciacquone sulla loro ultima possibilità.


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