Sto leggendo Horcynus Orca. Sono a un quinto dell'impresa. Difficile e vano spiegare la sensazione che si prova quando finalmente si penetra dentro D'Arrigo. All'inizio ti ingolfi, sputacchi l'acqua salata che trasuda dalle pagine. Dici, e che minchia, non ce la farò mai. Poi la chiave gira.
A me è capitato con Cata, la vedova bianca di marinaro che quando doveva diventare femmina e femmina tutta si vede scippare marito e flauto di pelle dalla Guerra. Resta sul letto senza il suo piacere tanto atteso. Allora resta prigioniera dell'idea di marinaro e la vecchia Jacoma se la tira dietro in cerca di un marinaro che con argomenti di mascolo riesca a ridarle sorriso e sapienza.
Jacoma ha pure scoperto che Cata pipìa solo sul mascherone del Duce, un'icona di gesso già ammolliata dal piscio della femminota bella e perduta. Ecco, quando Cata sparisce tra i bergamotti per pipiare sul mascherone la chiave è girata e anche la lettura ha subito un'accelerata. Da dieci pagine faticosamente attraversate la mia favea oculare è schizzata verso la centinaia e ora a 264 aspetto il momento in cui riaprirò il libro per continuare a viaggiare con 'Ndrìa, lì, tra Scilla e Cariddi.
Ci sono personaggi vivi e viventi, lo spiaggiatore vestito di tutte le divise di tutte le guerre, le femminote, il piccolo Duardo e Ndrìa che cercano confetti e trovvano un "muccusello" morto con lo spadino e la medaglietta della comunione, ci sono soprattutto le fere che gli altri chiamano delfino, ma delfino è delfino, la fera è fera. Con una discussione sul nome e sul senso dei nomi che non sfigura il confronto col Cratilo platonico, il dialogo che il maestro del Maestro di color che sanno dedicò proprio al problema dei nomi e delle cose.
La scena più bella, sinora, è quella dei pellisquadre che si vendicano delle fere dopo l'ennesimo atto di sfida, arriva la nave del Fascio che va verso l'Abissinia, il gerarca intima di liberare il delfino femmina, il padre di Ndrìa è obbligato a recitare un inno al delfino che nulla ha della cattiveria da cristiani che muove la fera, sordida e cattiva coi suoi 264 dentuzzi affilati.
E sogna Ndrìa sogna il cimitero delle fere, sogna di tornare in Sicilia, e il mare è lì, sempre uguale che rigurgita fere che vanno a riempire le pancie col loro mollame. E il professore di messina cerca le uova delle anguilla... Lo volevo condividere, col sorriso di chi ha altre 800 pagine da leggere...
A me è capitato con Cata, la vedova bianca di marinaro che quando doveva diventare femmina e femmina tutta si vede scippare marito e flauto di pelle dalla Guerra. Resta sul letto senza il suo piacere tanto atteso. Allora resta prigioniera dell'idea di marinaro e la vecchia Jacoma se la tira dietro in cerca di un marinaro che con argomenti di mascolo riesca a ridarle sorriso e sapienza.
Jacoma ha pure scoperto che Cata pipìa solo sul mascherone del Duce, un'icona di gesso già ammolliata dal piscio della femminota bella e perduta. Ecco, quando Cata sparisce tra i bergamotti per pipiare sul mascherone la chiave è girata e anche la lettura ha subito un'accelerata. Da dieci pagine faticosamente attraversate la mia favea oculare è schizzata verso la centinaia e ora a 264 aspetto il momento in cui riaprirò il libro per continuare a viaggiare con 'Ndrìa, lì, tra Scilla e Cariddi.
Ci sono personaggi vivi e viventi, lo spiaggiatore vestito di tutte le divise di tutte le guerre, le femminote, il piccolo Duardo e Ndrìa che cercano confetti e trovvano un "muccusello" morto con lo spadino e la medaglietta della comunione, ci sono soprattutto le fere che gli altri chiamano delfino, ma delfino è delfino, la fera è fera. Con una discussione sul nome e sul senso dei nomi che non sfigura il confronto col Cratilo platonico, il dialogo che il maestro del Maestro di color che sanno dedicò proprio al problema dei nomi e delle cose.
La scena più bella, sinora, è quella dei pellisquadre che si vendicano delle fere dopo l'ennesimo atto di sfida, arriva la nave del Fascio che va verso l'Abissinia, il gerarca intima di liberare il delfino femmina, il padre di Ndrìa è obbligato a recitare un inno al delfino che nulla ha della cattiveria da cristiani che muove la fera, sordida e cattiva coi suoi 264 dentuzzi affilati.
E sogna Ndrìa sogna il cimitero delle fere, sogna di tornare in Sicilia, e il mare è lì, sempre uguale che rigurgita fere che vanno a riempire le pancie col loro mollame. E il professore di messina cerca le uova delle anguilla... Lo volevo condividere, col sorriso di chi ha altre 800 pagine da leggere...
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